Autore: Jean-Pierre Filiu
Titolo: La révolution arabe. Dix leçons sur le soulèvement démocratique
Editore: Fayard, Paris 2011

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:00

Fine dell’eccezione araba, fine dell’eccezione islamica. Sono queste le premesse da cui prende avvio l’immersione di Jean-Pierre Filiu, professore all’Institut d’Études Politiques di Parigi, nella primavera araba. Le rivoluzioni del 2011 dimostrerebbero infatti, e in modo inequivocabile, l’inadeguatezza del paradigma finora dominante nell’interpretazione delle società arabo-islamiche del Nord Africa e del Medio Oriente in entrambi i suoi risvolti: un «trattamento a parte nel dibattito internazionale sulla transizione democratica» (p. 13) e l’idea di poterne spiegare la natura sulla base di un’essenza immutabile dell’Islam. Sarebbero invece altri i fenomeni che consentono di spiegare l’evoluzione del mondo arabo-islamico contemporaneo e dunque i sussulti che lo scuotono dalla fine del 2010. L’autore li racchiude in dieci lezioni scritte a caldo tra il febbraio e il maggio del 2011, con il rischio, dichiarato fin dall’introduzione, di emettere un giudizio sugli eventi prima della loro stabilizzazione e di far storcere il naso a più di uno storico. Per certi versi l’operazione è ben riuscita: in particolare dove Filiu affronta con sguardo attento e informato fino al dettaglio il fenomeno dei new media arabi, con incursioni assai istruttive in una cultura giovanile pressoché ignorata prima delle rivoluzioni; o, ancora, quando colloca la genesi di queste ultime in una prospettiva storica capace di restituire il giusto peso a quei fattori (i movimenti per i diritti dell’uomo, i sindacati) che in un primo momento erano sfuggiti alle analisi di un mondo mediatico tutto concentrato sulle virtù della Rivoluzione 2.0. In altre parti il risultato è meno convincente. In particolare sembra un po’avventata la scelta di tentare una ricostruzione a tratti minuziosa delle giornate rivoluzionarie sulla base dei resoconti giornalistici, soprattutto nei casi in cui (Siria, Libia) l’intreccio d’informazione e disinformazione ha fatto diventare ben presto la situazione poco trasparente. Ma la grande scommessa dell’autore si gioca soprattutto nelle due lezioni dedicate all’Islam e all’islamismo, significativamente intitolate “Gli islamisti non hanno scampo” (Les islamistes sont au pied du mur) e “I jihadisti interessano ormai solo ai dittatori” (Les jihadistes n’intéressent plus que les dictateurs). Filiu, che all’islamismo e al jihadismo ha dedicato gran parte dei suoi studi precedenti, vi afferma che «la maggior parte dei militanti islamisti non sono ancora cambiati, ma il mondo arabo è cambiato e non tornerà indietro. Gli islamisti devono scegliere, dopo decenni in cui hanno avuto una sola posizione, opporsi, e si tratta di una rivoluzione nella rivoluzione» (p. 155). Ben diverso sarebbe invece il caso dei militanti radicali. Infatti, «mentre i Fratelli Musulmani raccolgono i frutti del loro addio alle armi, i jihadisti non hanno alternative» (p. 165), e le rivoluzioni tunisina ed egiziana avrebbero chiuso il ciclo aperto con gli attentati dell’11 settembre 2011. Qui le ipotesi formulate nel volume attendono naturalmente di essere verificate dai fatti, visto che gli eventi più recenti fanno già pensare che il futuro delle società mediorientali non solo non sarà post-islamico, ma forse neppure post-islamista. In ogni caso, per allontanare eventuali tentazioni nostalgiche, sarà utile leggere la sesta lezione, che smonta sapientemente il postulato sul quale si è retta la vita politica di buona parte dei Paesi mediorientali negli ultimi trent’anni, vale a dire la falsa alternativa tra la dittatura e il caos. Tale discorso, scrive l’autore, era infatti «bugiardo e ingannevole, perché il caos non doveva essere temuto nel futuro: faceva già parte del quotidiano di questi regimi e delle loro pratiche. […] L’unica alternativa che si gioca oggi nella regione è la democrazia o il caos» (pp. 112-132 passim).

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