Abu Dhabi ha firmato gli Accordi di Abramo e partecipa al processo di distensione nei confronti dell’Iran e dei vicini arabi. Ma non ha ancora trovato una sintesi soddisfacente tra sicurezza nazionale e riconoscimento del proprio status internazionale

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:44:39

Per gli Emirati Arabi Uniti (EAU), è alquanto insolito trovarsi in una condizione di apparente attesa. La Federazione emiratina è infatti abituata a un dinamismo incessante che spesso l’ha portata ad aprire per prima spazi politici inesplorati, nella regione mediorientale e oltre. Stavolta, a trapelare è però la sottile insoddisfazione di Abu Dhabi rispetto agli effetti della ridefinizione, tuttora in corso, del mosaico di sicurezza in Medio Oriente. Nessun ripensamento, sia chiaro, per le scelte intraprese dal 2019 in poi: riduzione dell’esposizione militare all’estero, de-escalation con rivali e competitors, dialogo nel Golfo e in Medio Oriente, rivendicazione della scelta multipolare in politica internazionale. Cioè il passaggio da una proiezione esterna molto assertiva e a tratti spregiudicata, a una politica estera orientata a stabilità e crescita economica, dentro e fuori i confini dello Stato emiratino. Ma c’è una constatazione: nella percezione degli Emirati Arabi, per il momento il cambio di rotta politico non ha prodotto un equilibrio di sicurezza soddisfacente, né per il Medio Oriente, né tanto meno per Abu Dhabi. Insomma, non è ancora abbastanza. Una convinzione che cresce e che si scarica sul rapporto fra Emirati Arabi e Stati Uniti, proprio ora che le relazioni fra statunitensi e sauditi appaiono invece in miglioramento. 

 

Due “schemi di gioco” e ancora troppe incognite

 

Nella ridefinizione degli equilibri di potere in Medio Oriente, sono due gli “schemi di gioco” attualmente in campo: in entrambi, gli Emirati Arabi hanno svolto un ruolo d’avanguardia. Il primo schema è quello degli Accordi di Abramo, ovvero la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele. Gli Emirati Arabi ne sono i protagonisti, insieme al Bahrein, con gli Stati Uniti nelle vesti di principali sponsor. Il secondo schema è quello del riavvicinamento con l’Iran e del “consenso arabo”: qui, la protagonista è l’Arabia Saudita e la Cina è il primo sponsor, nonostante la distensione nel Golfo sia un obiettivo condiviso da Washington. In realtà, furono gli Emirati Arabi a riaprire per primi a Teheran, instaurando fin dal 2019 un dialogo sulla sicurezza marittima e reinsediando il loro ambasciatore nell’agosto 2022. Nel 2020-22 è prevalso il primo schema, mentre dal 2023 sta prevalendo il secondo, deludendo fin qui le aspettative politiche degli emiratini.

 

I due “schemi di gioco” non vanno però necessariamente letti come alternativi poiché, intersecandosi, potrebbero generare risultati a somma positiva per la regione e gli interessi globali. In altre parole: se la relazione fra sauditi e iraniani dovesse durare, si potrebbe lavorare a una desistenza fra iraniani e israeliani utile anche a Stati Uniti e Cina. Non è affatto detto, però, che questo accada, nonostante i contatti indiretti fra statunitensi e iraniani in Oman sul dossier nucleare, o la spinta degli Stati Uniti affinché l’Arabia Saudita riconosca Israele. In realtà, questi due “schemi di gioco” sono andati avanti, per un po’, parallelamente. Nessun altro Paese del Golfo ha fin qui aderito agli Accordi di Abramo, anche se Arabia Saudita e Oman adesso permettono il transito dei voli civili israeliani nel loro spazio aereo, rispettivamente dal 2022 e dal 2023.

 

Il fattore Riyad e i segnali emiratini ad Arabia Saudita e Stati Uniti

 

In questo contesto in divenire, è cresciuta l’insoddisfazione politica degli Emirati Arabi riguardo la sicurezza e, più in generale, gli assetti di potere in Medio Oriente. Ciò è avvenuto man mano che gli iraniani tornavano, nel 2023, a sequestrare petroliere fra lo stretto di Hormuz e il Golfo dell’Oman, a due passi dalle coste emiratine. Le azioni iraniane sono la prova che le tante missioni navali multinazionali attivate fra Hormuz, Golfo dell'Oman e Mar Arabico dopo gli attacchi marittimi iraniani del 2019 non producono una reale deterrenza. Contestualmente l'Arabia Saudita ha recuperato il rapporto con Washington e la leadership del mondo arabo. A ogni modo, il dialogo tra potenze non sarà di per sé sufficiente a garantire la sicurezza nel e intorno al Golfo fino a quando i tre dossier regionali legati all’Iran rimarranno aperti: nucleare, programma missilistico, milizie alleate e proxies.

 

C’è poi la questione dello status degli Emirati Arabi, divenuti all’indomani del 2011 una media potenza regionale non più disponibile a sottostare alle decisioni saudite, al di là del riconoscimento del ruolo di guida di Riyad nel mondo islamico. Per la prima volta dal decennio 2011-2021 (quello segnato dalla competizione e a tratti della conflittualità intra-sunnita catalizzata dalle rivolte arabe), l’Arabia Saudita può infatti tornare a essere leader del mondo arabo. Un percorso in due tappe: prima gli Accordi di al-Ula con il Qatar (2021), poi il reintegro della Siria nella Lega Araba (2023). Un’opportunità che Riyad non si sta lasciando sfuggire. Infatti, il riposizionamento del principe ereditario Mohammed bin Salman, in corso dal 2021, sta riportando l’Arabia Saudita – per obiettivi nazionali – al suo ruolo di potenza stabilizzatrice della regione, più adeguato sia ai fini dei piani economici post-oil di “Vision 2030” che a recuperare il rapporto con gli Stati Uniti. Si tratta di una strategia che porta il Regno saudita a occupare quel varco politico a cavallo tra mediazione e cooperazione economica che proprio gli Emirati Arabi avevano aperto nel 2019. Così, la diplomazia saudita ha normalizzato le relazioni con Siria e Iran, si è proposta come mediatrice in Yemen (in cui però è parte del conflitto, pur avendo iniziato colloqui diretti con gli houthi) e in Sudan, qui proprio insieme agli Stati Uniti.

 

In questo mutato scenario, gli Emirati Arabi devono allora trovare una difficile sintesi politica fra sicurezza nazionale, buoni rapporti con i vicini e riconoscimento di uno status che li vede ormai ambiziosi protagonisti della politica regionale e internazionale. Gli emiratini stanno lanciando segnali di insoddisfazione, verso Riyad e soprattutto Washington. Il presidente Mohammed bin Zayed ha disertato il summit di Jedda della Lega Araba (come fece peraltro nel 2022), stavolta però con Mohammed bin Salman anfitrione. Gli Emirati Arabi hanno inoltre annunciato il ritiro[1] (ma non la fine della membership) dalle attività delle task forces delle Combined Maritime Forces a guida americana dispiegate tra Mar Arabico e Mar Rosso, in reazione agli attacchi marittimi iraniani.

 

Quale formula di sicurezza per gli Emirati Arabi?

 

Gli Emirati Arabi non hanno dunque ancora trovato una formula soddisfacente per la propria sicurezza. È il riflesso di un Medio Oriente che, a dispetto dei tanti riavvicinamenti bilaterali, non ha fin qui prodotto un sistema di sicurezza definito. Forse ci vorrà più tempo ma per Abu Dhabi, intanto, le minacce persistono, seppur congelate. I tre attacchi degli houthi, con missili e droni, contro la capitale nel gennaio 2023, costati la vita a tre persone, hanno rappresentato un autentico shock per gli Emirati Arabi. Un fatto che l’invasione russa dell’Ucraina ha poi mediaticamente oscurato a livello internazionale, ma non nella percezione di governanti e popolazione locale. Gli emiratini non vogliono tornare a quel punto e la loro strategia di difesa è guidata da questa consapevolezza. La tregua nazionale in Yemen, in vigore dall’aprile all’ottobre 2022, è tecnicamente scaduta ma ha fin qui contribuito alla diminuzione della violenza interna, mitigando quindi i rischi regionali. La ripresa delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Iran, firmata a Pechino nel marzo 2023, ridimensiona la componente regionale del conflitto yemenita ma non può risolverlo, anche perché gli houthi sono alleati ma non attori proxy di Teheran.

 

Gli Emirati Arabi sono dunque alla ricerca di un nuovo equilibrio di sicurezza che coniughi l’aspirazione autonomista nel campo della difesa a un rapporto, ancora imprescindibile ma da rinnovare, con gli Stati Uniti. Una partnership che riconosca lo status degli Emirati – oggi con un ruolo regionale e globale più forte e influente rispetto al 2011 – rafforzandone la sicurezza pur nel rispetto della scelta multipolare in politica internazionale. Nell’era della diversificazione “oltre gli idrocarburi”, anche le politiche di difesa e di deterrenza delle monarchie del Golfo, Emirati in primis, necessitano di essere ripensate. D’altronde, la connettività (infrastrutture e trasporti, informazioni) è una variabile che offre infinite opportunità economiche che gli Emirati Arabi stanno già cogliendo; ma è altresì un potenziale moltiplicatore di rischi e minacce alla sicurezza.

 

La stabilità degli Emirati Arabi si fonda sull’interdipendenza economica e sull’export: non è un caso che il primo attacco degli houthi contro Abu Dhabi ebbe come target l’area dell’aeroporto internazionale. In quell’occasione, furono tre i paesi a supportare attivamente la sicurezza della federazione: Stati Uniti, Francia e Israele. Gli Stati Uniti intercettarono alcuni missili e droni, non tutti, con il sistema Patriot e il THAAD dalla base militare locale di Al Dhafra, inviarono poi i caccia F-22 e dispiegarono la USS Cole al largo delle coste emiratine. La Francia, che ha una base militare permanente ad Abu Dhabi e un accordo di difesa con gli EAU, fornì aiuto per la protezione dello spazio aereo della Federazione con gli aerei da combattimento Rafale, nonché per le attività di sorveglianza aerea. Israele inviò agenti dell’intelligence e poi vendette agli Emirati Arabi le batterie SPYDER, il sistema di difesa aerea anti-droni e missili da crociera efficace per rilevare e intercettare minacce a bassa altitudine (a differenza dei Patriot). Proprio la compagnia israeliana di produzione, la Rafael, sta per aprire un ufficio ad Abu Dhabi.

 

È con questi tre Paesi che lo Stato emiratino intende costruire la (sua) sicurezza di domani[2]; un proposito facilitato anche dagli stessi Stati Uniti, che nel 2021 hanno “spostato” Israele sotto l’area di responsabilità di Centcom, il Comando centrale USA per il Medio Oriente, per favorire la cooperazione con i Paesi arabi. D’altronde, Stati Uniti, Francia e Israele fanno già parte dei formati di cooperazione trilaterale che vedono protagonisti gli Emirati Arabi: il West Asia Quad o I2U2 (Emirati, Israele, India e USA) creato nel 2022, e l’Iniziativa trilaterale tra Emirati, India e Francia inaugurata nel 2023. Cooperazioni mini-laterali[3] in cui la difesa è il tema di fondo, anche quando non viene apertamente menzionata. Non è un mistero, però, che gli Emirati Arabi abbiano da tempo un obiettivo, come d’altronde l’Arabia Saudita: la firma di un accordo bilaterale di difesa con gli Stati Uniti, ciò che eleverebbe il framework strategico in vigore rafforzandone la componente di difesa[4]. In questo senso, i formati mini-laterali sono da intendersi come strumenti complementari, in alcun modo alternativi a un patto bilaterale con gli statunitensi.

 

Per Washington, invece, la ricostruzione di un rapporto collaborativo con gli Emirati Arabi e anche con l’Arabia Saudita deve rientrare in quel “cambio di paradigma” che gli USA stanno provando ad attuare nella regione. Ovvero una presenza americana in Medio Oriente che non ripiega, ma si trasforma. Lo scopo è promuovere rapporti bilaterali mediante un approccio il più possibile multilaterale: meno basi militari permanenti e truppe, più coalition-building interno alla regione, più capacity-building delle forze armate arabe e difesa integrata con i partner locali[5]. Un approccio pragmatico funzionale alle attuali priorità americane nel mondo (Indo-Pacifico, di nuovo il fianco est della NATO), nonché alle (più) limitate risorse economiche e politiche di Washington.

 

Assai probabile, però, che gli emiratini non percepiscano quest’offerta come sufficiente e, soprattutto, non la ritengano in grado di contrastare appieno le minacce che persistono, sottotraccia, e quelle potenziali di domani. Fino a quando gli Emirati Arabi non riterranno di aver raggiunto un assetto di sicurezza soddisfacente, tanti quesiti rimarranno dunque in sospeso. Con Abu Dhabi che per centrare i propri obiettivi strategici non esiterà anche a muoversi in proprio.

 

 

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[1] Emirates News Agency (WAM), “UAE rejects mischaracterisation of US-UAE conversations regarding maritime security”, 31 maggio 2023 https://wam.ae/en/details/1395303163665.

[2] Interessante la riflessione di Bilal Saab sul ruolo che Gran Bretagna e Francia potrebbero ricoprire in un Golfo meno americano, ma proponendo gli stessi valori. Bilal Y. Saab, The US and NATO must team up in the Gulf, «Arab News», 18 aprile 2023, https://www.arabnews.com/node/2288991.

[3] Eleonora Ardemagni, Across the Regions: The UAE’s Network Approach to Cooperation, «ISPI Commentary», 10 marzo 2023, https://www.ispionline.it/en/publication/across-the-regions-the-uaes-network-approach-to-cooperation-119375.

[4] Per approfondire: Sanam Vakil e Neil Quilliam, The Abraham Accords and Israel–UAE normalization, «Chatham House paper», 28 marzo 2023, https://www.chathamhouse.org/2023/03/abraham-accords-and-israel-uae-normalization/06-multilateral-dimension.

[5] U.S. Department of Defense, Assistant Secretary of Defense for Strategy, Plans, and Capabilities Dr. Mara Karlin’s Remarks at the Third Annual Middle East Institute CENTCOM Conference (As Prepared), 24 marzo 2023 https://www.defense.gov/News/Speeches/Speech/Article/3406446/assistant-secretary-of-defense-for-strategy-plans-and-capabilities-dr-mara-karl./; si veda anche Eleonora Ardemagni, Defense Integration Refashions the US-GCC Alliance, «ISPI Commentary», 24 febbraio 2023, https://www.ispionline.it/en/publication/defense-integration-refashions-the-us-gcc-alliance-118338.

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