Arabia Saudita. L’obbedienza ai regnanti, le concessioni di denaro e la mano della polizia: come il regime ha soffocato i fermenti della rivolta. La popolazione chiede il cambiamento, ma la protesta digitale non basta: il caso saudita attesta i limiti della cyber-utopia e dell’euforia delle cosiddette rivoluzioni di Twitter e Facebook.
 

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:56

Se l’Egitto identifica la primavera con shamm al-nasîm, la festa della fioritura, nella penisola araba la stagione solitamente si preannuncia con tempeste calde di sabbia, riyâh al-khamâsîn. Qui non c’è spazio per il gelsomino tunisino o per i fiori egiziani. Interventi divini, spada e oro nero significano che le rivoluzioni sono spesso spazzate via con le tempeste di sabbia. Dal gennaio 2011 il regime saudita assiste con sconcerto alla primavera araba in Tunisia ed Egitto, ma quando questa ha raggiunto la piccola isola del Bahrein e il proprio territorio petrolifero, le strategie classiche dell’obbedienza divina ai regnanti, il pesante intervento della polizia e le concessioni economiche si sono rivelati, almeno momentaneamente, sufficienti a bloccare lo sbocciare della primavera araba in Arabia Saudita. Il regime ha messo in campo tutte le sue strategie religiose, di sicurezza ed economiche per reprimere sul nascere i primi campanelli virtuali di allarme, prima che potessero tradursi in proteste reali. Sauditi Frustrati ma Pazienti Mentre la primavera araba cresceva d’intensità nella regione, i sauditi credevano che si stesse avvicinando il momento favorevole per acquisire maggiori dirittipolitici. La maggior parte dei sauditi sta diventando sempre meno tollerante nei confronti delle resistenze del regime all’introduzione di riforme politiche. Nonostante la retorica riformista messa in campo da re Abdullah a partire dal 2005, l’Arabia Saudita rimane una compagnia petrolifera gestita dalla dinastia reale. Il suo regime ha molto in comune con le imprese private a conduzione famigliare che subappaltano alcune loro funzioni a terzi, i quali, a loro volta, sviluppano forti interessi -nell’azienda di famiglia. Mentre il regime subappalta la propria sicurezza agli Stati Uniti, altri attori occidentali, Gran Bretagna, Francia e recentemente anche la Svezia (tra tanti altri) forniscono formazione, logistica e tecnologia. Più recentemente la diversificazione dei subappaltatori ha condotto al riavvicinamento verso Cina, Russia e India. L’anziano re Abdullah ha assunto il ruolo di monarca assoluto, ma non è il solo prendere le decisioni. Il Principe ereditario, il Ministro dell’Interno Nayif, e suo figlio Muhammad detengono il controllo della sicurezza interna come un feudo sempre più grande. Negli ultimi tre decenni il regime, da monarchia assoluta centralizzata – durante il regno di re Faysal (1964-1975) –, è passato a essere a una grande dinastia governata dalla prima, dalla seconda e dalla terza generazione di principi, tutti discendenti di re Abd al-Aziz Ibn Saud (m. 1953)[1]. Dalla difesa agli affari esteri, dalla sicurezza interna allo sport, ai saloni letterari, alle ambasciate, alle opere di carità e alle università, i principi Al-Saud e, più recentemente, anche le principesse, dominano lo Stato e la società. Il regime è riuscito con successo a emarginare le élite tribali, religiose, tecnocratiche e regionali. Celebra la sua dedizione all’Islam e si vanta di essere un sistema politico arabo-islamico. I principi sostengono che non vi è alcun bisogno di un governo rappresentativo perché le persone hanno accesso diretto ai loro leader nelle sedute pubbliche dei consigli (majlis). I principi-governatori che dipendono dal Ministro dell’Interno, il principe Nayif, reggono le 13 province saudite. La dinastia governante degli Al-Saud è guida indiscussa di un paese che possiede il 25% delle riserve petrolifere del mondo. Il regime bandisce i partiti politici, le organizzazioni indipendenti della società civile, limita i diritti umani, controlla la magistratura e ha sviluppato costosi servizi di polizia, di sicurezza e di intelligence. Questi ultimi sono diventati più forti dopo l’11 settembre, quando al Ministro dell’Interno è stato concesso un budget illimitato. Le competenze e la tecnologia occidentali rimangono centrali per rafforzare le forze di sicurezza saudite e le tecniche di sorveglianza. Con il consolidamento del governo dinastico i sudditi sauditi sono sempre più emarginati e senza potere. Storicamente i gruppi di pressione forti, come i capi tribali, e le autorità religiose sono diventati funzionari del regime. I tecnocrati non sono più i principali attori politici, dato che l’elaborazione politica rimane prerogativa dei principi più anziani che controllano tutte le istituzioni dello Stato, dalla difesa all’istruzione superiore. Petizioni e Richieste di Riforme Tra il 2000 e il 2010 sono state presentate al Re e ai Principi più importanti diverse petizioni in cui si chiedevano riforme politiche, ma la leadership non ha mai dato alcun segno di risposta[2]. L’ultimo decennio ha visto un sostanziale aumento dei proventi del petrolio saudita e, finora, la leadership ha preferito disinnescare le richieste di riforma politica arrestando gli attivisti, cooptandoli o semplicemente ignorandoli. Il regime privilegia la distribuzione di benefit economici attraverso programmi di sviluppo. Tuttavia questo progetto non è riuscito ad assorbire il numero crescente di disoccupati sauditi. Benché le statistiche saudite non siano sempre attendibili, il Paese ha un tasso di disoccupazione superiore al 10%. Secondo una stima non ufficiale la cifra può salire fino al 30%. La corruzione e la mancanza di trasparenza sono diffuse e il Paese figura in cima alla lista nera di organizzazioni indipendenti come Transparency International. Anche sul fronte delle libertà personali e religiose l’Arabia Saudita è in ritardo, persino rispetto agli standard arabi e del Golfo. Le università rimangono sotto-sviluppate e non riescono a produrre laureati dotati delle competenze necessarie per un mercato del lavoro competitivo. Il Paese ha oltre 7 milioni di lavoratori espatriati. Nonostante i ripetuti slogan inneggianti alla saudizzazione, la forza lavoro saudita nel settore privato non supera il 13%. Le donne sono le più colpite dalla disoccupazione. Il 78% delle donne non laureate sono disoccupate, contro il 16% degli uomini[3]. Nel febbraio 2011 sono state diffuse su pagine internet ad hoc numerose petizioni in cui si chiedevano riforme politiche. Il regime si è attivato in tempi brevi per censurare i siti, ma centinaia di nuovi giovani attivisti e vecchi riformatori, i cui nomi erano associati a precedenti mobilitazioni politiche, si sono precipitati a sottoscriverle. La prima petizione, detta Dichiarazione della riforma nazionale, chiedeva l’instaurazione di una monarchia costituzionale, richiamandosi a una precedente petizione del 2003[4]. L’autore della petizione, il giovane hijazeno Ahmad Adnan, che vive e lavora a Beirut come produttore di documentari televisivi per la LBC, l’impero mediatico di Walid Ibn Talal, ha ammesso di aver scritto il testo insieme ad oltre 40 giovani attivisti. I firmatari aspiravano a un sistema politico federale che avrebbe liberato le varie regioni saudite dal controllo politico e amministrativo centralizzato di Riyad. L’autore della petizione è un hijazeno [la regione di Mecca e Medina, N.d.R.] che sottolinea il suo impegno per un’agenda politica nazionale, ma allo stesso tempo auspica una maggiore autonomia per la sua regione rispetto al controllo del governo di Riyad. Gli estensori temevano che alla luce della rivoluzione egiziana l’opposizione islamista saudita, soprattutto quella che fa base a Londra e quelle nuove che stanno emergendo in Arabia Saudita, avrebbe preso l’iniziativa e dominato la piazza[5]. Altri islamisti operano nella regione centrale di Riyad. Spesso noti come Sahwi, rappresentano un’ulteriore altra sfida per l’élite liberale dello Hijaz e per i loro omologhi in altre città. La petizione conteneva dodici punti in cui si chiedevano riforme politiche, economiche, sociali e giudiziarie. S’insisteva sull’urgenza di realizzare lo Stato di diritto, l’eguaglianza, la protezione dei diritti civili e umani, la partecipazione politica, uno sviluppo equo, l’eliminazione della povertà e della corruzione e l’elezione di un’assemblea su base nazionale. Elemento ancora più importante, i firmatari volevano una Costituzione scritta, una società civile realmente indipendente, e governi eletti localmente nelle province. Mentre la prima richiesta non era nuova, la seconda faceva riferimento al fatto che le organizzazioni esistenti, come le associazioni per i diritti umani istituite dal governo, sono mere agenzie governative e burocratiche. La terza richiesta indicava l’aspirazione all’autonomia regionale, soprattutto dopo gli scandali della corruzione legati alla confisca e allo sviluppo della terra oltreché alla cattiva gestione dei progetti di sviluppo che ha portato a gravi inondazioni e morti in diverse città saudite. Subito dopo questa petizione è stato rilasciato un secondo documento che, questa volta, ribadiva l’impegno verso i princìpi islamici, senza richiami alla monarchia costituzionale o al governo regionale. Questa seconda petizione, nota come Verso uno Stato di istituzioni e diritti, chiedeva l’elezione nazionale di un’Assemblea, la separazione della carica di Re da quella di Primo Ministro, la fine della corruzione amministrativa, la libertà di parola e di fondare associazioni indipendenti, il rilascio di tutti i prigionieri politici e la soppressione del divieto di mettersi in viaggio per gli attivisti. Questa petizione ha raccolto più di 5.000 firme, riflettendo così la crescita di una tendenza islamista che reclama anch’essa riforme politiche avanzando richieste specifiche[6]. Vale la pena ricordare che entrambe le petizioni presentavano elenchi di richieste politiche piuttosto moderate. Non chiedevano il rovesciamento del regime, ma mettevano in luce i suoi gravi difetti e il senso di delusione di gran parte della popolazione. Non contenevano alcun richiamo alle dimostrazioni pacifiche dell’11 marzo. Per evitare un confronto diretto con il regime, gli autori e i firmatari hanno fatto in modo che l’opposizione esterna all’Arabia Saudita non fosse direttamente coinvolta nella preparazione dei due documenti. Da alcune conversazioni private con i riformisti è risultato chiaro che questi ultimi si sono astenuti dal prendere una posizione radicale per evitare di essere arrestati e stigmatizzati come provocatori, rei di aver coordinato i propri sforzi con “agenti esterni”. I firmatari hanno insistito sui precedenti programmi di riforma formulati tra il 2003 e il 2005 e hanno giurato fedeltà al monarca saudita. In realtà la maggior parte degli attivisti erano ben noti veterani della riforme, come Muhammad Said al-Tayib e Abdullah al-Hamid, oppure giovani internauti che hanno svolto un ruolo importante nell’organizzazione della diffusione delle petizioni e della pubblicità su Facebook e Twitter. A differenza delle petizioni riformiste precedenti, nei documenti si leggeva un senso di frustrazione e delusione verso il Re Abdullah, il quale non ha ancora accolto una singola richiesta politica enunciata nelle richieste antecedenti. I riformatori, appartenenti a un’ampia gamma di ideologie politiche che include islamisti, nazionalisti, militanti di sinistra e liberali, sono molto preoccupati per il futuro, data l’età avanzata del Re e la poca chiarezza circa la successione al trono[7]. Molti intellettuali e professionisti sono ossessionati dalla prospettiva di perdere la propria posizione quando il principe ereditario Nayif, attuale Ministro dell’Interno, diventerà re. Abdullah si è circondato di un entourage semi-liberale e ne ha promosso gli interessi nello Stato, nelle imprese e nei media. I liberali sono stati uno strumento molto utile per riplasmare la sua immagine di grande riformatore. Molti temono che Nayif, col suo pugno di ferro e il suo approccio sicuritario al governo, porrà un limite ai loro privilegi e li destituirà in massa una volta che sarà diventato re. Come nei sistemi politici più chiusi e opachi, con la fine dell’ancien régime i funzionari saranno gradualmente rimossi dalle rispettive cariche per far spazio a una nuova cerchia di fedeli e alleati, dal momento che i principali attori politici di estrazione regale si prefiggono di controllare le posizioni chiave del governo. È verosimile che i nuovi membri della famiglia reale rimuoveranno i vecchi professionisti e burocrati a favore di una nuova cerchia di fedeli scelti tra i comuni cittadini. Mentre nel mondo virtuale circolavano le due petizioni, gli inviti digitali a dimostrare attiravano gruppi eterogenei di attivisti sauditi. Gli sciiti della Provincia Orientale e i loro attivisti nel Paese e all’estero invitavano a protestare, domandando la liberazione dei prigionieri e l’eguaglianza con la maggioranza sunnita. Uno dei loro religiosi, lo shaykh Nimr al-Nimr, che nel 2010 aveva richiesto la secessione della regione sciita dall’Arabia Saudita, ha svolto un ruolo di primo piano nella mobilitazione dei manifestanti. Il Movimento Sunnita per la Riforma Islamica in Arabia (MIRA), in esilio a Londra, ha invitato i sostenitori a riunirsi l’11 marzo indicando dei punti di ritrovo nelle grandi città. Il MIRA, negli ultimi cinque anni, ha invitato i sostenitori a organizzare ogni settimana una manifestazione dopo la preghiera del venerdì, ma non ha raccolto molti consensi. Il 7 marzo alcune donne simpatizzanti per il MIRA hanno organizzato una mini-dimostrazione all’uscita di una moschea a Gedda mentre alcuni uomini le circondavano per assistere allo spettacolo. L’Islamic Umma Party, di recente istituzione, ha aderito all’invito a scendere in piazza. Nel febbraio 2011, senza alcun preavviso, questo partito è venuto alla scoperto con un sito web, dei fondatori e dei portavoce. Il suo programma chiaramente salafita è stato postato sulla pagina web del partito. Come indica il nome, il partito si articola intorno all’idea di una comunità islamica globale in cui i confini degli Stati-nazione musulmani diventano insignificanti, nel tentativo di esprimere un programma politico salafita diverso dalle altre tendenze, come quella del wahabismo-salafismo ufficiale, del jihadismo e del Risveglio islamico Sahwi degli anni ’90. Il partito ha immediatamente subito un duro colpo: quattro dei suoi membri fondatori sono stati arrestati dopo aver emesso il loro primo comunicato, con il quale si informava la leadership saudita della formazione di un nuovo partito. Ma il partito Umma non si è lasciato scoraggiare e ha continuato a produrre comunicati a sostegno delle dimostrazioni. Ha inoltre pubblicato sul suo sito web due trattati religiosi a sostegno della protesta pacifica per smentire quelle autorità religiose che sostenevano l’illegittimità delle proteste dal punto di vista islamico[8]. Se si analizza la protesta virtuale saudita tra il gennaio e il febbraio 2011, risulta evidente che su internet infuriava una guerra cibernetica tra gruppi di opposizione, da un lato giovani attivisti internauti, uomini e donne che non aderiscono a un’ideologia precisa, dall’altro i cibernauti della sicurezza del regime. Gruppi digitali come quello della Coalizione Nazionale e il Movimento della Gioventù Libera hanno improvvisamente fatto la loro comparsa su Facebook e Twitter senza preavviso e senza una reale presenza organizzata sul terreno. Le loro pagine web sarebbero scomparse per effetto della censura, per poi riapparire di nuovo sotto link diversi con le istruzioni per aggirare la censura saudita. Molte pagine hanno raccolto migliaia di sostenitori ma è difficile affermare che fossero tutti sauditi. Era evidente che le voci virtuali includevano un misto di islamisti, liberali e altri i cui commenti non possono essere facilmente classificati. Anche non sauditi hanno contribuito all’opposizione virtuale apparentemente saudita. Alcuni giovani avevano una visione politica chiara di quello che avrebbe dovuto essere l’esito della protesta, ma altri erano semplicemente frustrati per le loro possibilità economiche limitate. Vi era un chiaro conflitto generazionale tra giovani attivisti e quelli che essi percepivano come anziani tribali, religiosi e regali. Tutti hanno indirizzato la loro rabbia contro i membri della famiglia reale e contro i loro tecnocrati e burocrati, giudicati corrotti e moralmente falliti. Le giovani donne, in particolare, hanno espresso frustrazione per la loro emarginazione. Sono queste le componenti della protesta digitale che avrebbero dovuto essere messe alla prova l’11 marzo. il Giorno della Rabbia Digitale Alcuni giorni dopo le dimissioni dell’egiziano Hosni Mubarak, avvenute il 12 febbraio 2011, gli attivisti digitali sauditi di Facebook hanno annunciato la loro Giornata della Rabbia, definita “thawrat Hunayn”, in ricordo di una battaglia simbolica tra fede e blasfemia al tempo del Profeta Muhammad. La nuova generazione di internauti sauditi ha scelto l’11 marzo come giorno della mobilitazione. Tutti sapevano che le manifesta¬zioni sono proibite nel paese; nel passato gli attivisti che dichiaravano la propria intenzione di manifestare venivano rapidamente arrestati[9]. Mentre gli inviti sauditi a manifestare si moltiplicavano nel mondo virtuale[10], sul terreno la realtà era ben diversa. Il 14 febbraio, migliaia di bahreniti, passando per la famosa autostrada che unisce la piccola isola all’Arabia Saudita, hanno marciato verso il centro della città di Manama e, in assenza di una Piazza della Liberazione come quella del Cairo, hanno occupato la rotatoria della Perla. È vero che i bahreniti da decenni manifestano nei loro piccoli villaggi emarginati, ma nell’euforia della primavera araba, e considerata la difficoltà dei sovrani della regione a contenerla, i dimostranti bahreniti si sono sentiti autorizzati a occupare una parte importante della rete stradale di Manama, sconvolgendone i settori finanziario e bancario. Dopo l’uccisione, il 17 febbraio, di 6 manifestanti alla rotatoria della Perla ad opera delle forze di sicurezza bahrenite, si è manifestata una maggiore determinazione a proseguire la protesta[11]. I sovrani del Bahrein, gli Al-Khalifa, sentendosi impotenti si sono rivolti agli altri Paesi del Gulf Cooperation Council (GCC), e in particolare a Riyad, altrettanto nervosa per l’impatto della primavera araba. Il 14 marzo le truppe saudite hanno attraversato l’autostrada saudita-bahrenita. Il giorno seguente i manifestanti sono stati cacciati a colpi di pistola dalla rotatoria. Questa è stata distrutta nel giro di una settimana dai bulldozer, una tipica risposta dei Paesi petroliferi del Golfo agli aspetti spiacevoli del loro passato. L’Arabia Saudita è uscita trionfante. Con tono autocompiaciuto la stampa ufficiale saudita ha presentato l’episodio nel modo in cui il regime voleva che fosse compreso e ricordato. I difensori del mondo dell’Islam sunnita avevano salvato l’intero Golfo dal controllo sciita iraniano. Avendo mobilitato la popolazione e orchestrato una campagna di iranofobia, il regime saudita ha dimostrato, non solo ai suoi sudditi ma anche ai governi occidentali spettatori dei fatti, che avrebbe usato il pugno di ferro contro future proteste. Il regime voleva far credere a tutti che la maggioranza dei sauditi è contenta e che qualunque protesta in cui si chiedano riforme politiche è una cospirazione iraniano-sciita per minare il cuore dell’Islam sunnita, ma soprattutto voleva che i sudditi a maggioranza sunnita applaudissero la sua determinazione nel contrastare l’influenza iraniana e sciita dalla penisola. È stato dato un messaggio forte ad Obama il quale, d’ora in poi, ci penserà due volte prima di lanciare slogan a sostegno della democrazia e dei diritti umani nella penisola araba. Manifestazioni Arginate Mentre il vento della primavera araba raggiungeva l’Oman e lo Yemen, e la causa del movimento bahrenita pro-democrazia restava ancora viva, l’Arabia Saudita si è trovata faccia a faccia con i suoi manifestanti sciiti nella Provincia Orientale, ricca di petrolio. Appena poche ore prima dell’atteso Giorno della Rabbia digitale saudita i manifestanti sciiti sauditi hanno organizzato proteste pacifiche a Qatif, Awamiyya, Sayhat e in altre città e villaggi. I giornalisti della Reuters e della BBC si sono riversati nella regione scortati dal governo[12]. Le forze di sicurezza hanno rapidamente represso i manifestanti e sono seguiti molti arresti. Lo shaykh sciita Nimr al-Nimr, che aveva chiesto la secessione della Provincia Orientale dal controllo saudita e in seguito aveva appoggiato la richiesta di una monarchia costituzionale, è stato arrestato. Sono ben presto venuti alla luce brevi resoconti di giornalisti stranieri che rivelavano il grado di oppressione sicuritaria. Ulf Laeesing della Reuters è stato espulso 48 ore dopo aver scritto sulla protesta a Qatif e Riyad[13]. Le manifestazioni si sono poi diffuse da Qatif ad altre città saudite. I notabili sciiti della Provincia Orientale si sono precipitati a Riyad per esprimere la loro fedeltà al Re e chiedere il rilascio dei loro prigionieri politici, un gesto per calmare la situazione e dar prova di buona volontà. Alcuni prigionieri, tra cui lo shaykh al-Nimr, sono stati rilasciati ma sono seguiti nuovi arrest[14]i. A Riyad, Muhammad al-Wadani, un giovane internauta, ha postato un videoclip su Youtube nel quale leggeva una dichiarazione in cui chiedeva democrazia, diritti umani e occupazione. Riecheggiando lo slogan egiziano, ha dichiarato: «il Popolo vuole la caduta del regime». Il 7 marzo, mentre le manifestazioni sciite avevano appena avuto inizio nella Provincia Orientale, è uscito dalla moschea di al-Rajhi nel centro di Riyad con un gruppo di seguaci, con l’intenzione di organizzare una protesta pacifica. Giovane e sorridente, al-Wadani portava uno zainetto nero sulla maglietta bianca e teneva alto un cartellone che annunciava una manifestazione pacifica. È stato ben presto sopraffatto dalle barbute forze di sicurezza in borghese che lo hanno trascinato lontano dalla folla, lo hanno caricato in macchina e lo hanno portato verso una destinazione sconosciuta. Gli anziani della sua tribù Dawasir si sono precipitati a Riyad per rinnovare la fedeltà alla leadership. Hanno immediatamente rilasciato una dichiarazione in cui disconoscevano il figlio irresponsabile, caduto preda della propaganda e della dissidenza straniera. C’era urgente bisogno di un messaggio per i giovani del paese. Sfidare la vecchia leadership saudita è come sfidare l’autorità dei genitori e di Dio. Le conseguenze sono l’esilio e il venir meno del sostegno famigliare, della protezione e dell’aiuto finanziario. Il regime dispone dei suoi metodi per punire i giovani ribelli e al-Wadani è scomparso senza lasciare tracce. Il Wahabismo contro la Protesta La religione ufficiale saudita, comunemente nota come wahabismo, è stata la prima strategia ad essere impiegata, come già altre volte in passato, contro la protesta. Nel momento critico della primavera araba il regime ha mobilitato i principali attori religiosi in suo sostegno in due modi diversi. In primo luogo le autorità religiose wahabite hanno utilizzato i minareti per mettere in guardia contro l’ira di Dio che si sarebbe abbattuta sui credenti che avessero preso parte alle manifestazioni pacifiche previste al termine della preghiera di mezzogiorno. Il 7 marzo il Consiglio Supremo degli ‘Ulamâ’, la più alta autorità religiosa ufficiale, ha emesso una fatwa (parere religioso) contro le dimostrazioni[15]. In secondo luogo le autorità religiose ufficiali hanno messo in guardia contro una cospirazione iraniano-safavide-sciita guidata dai sauditi in esilio a Londra e Washington e dagli sciiti della Provincia Orientale per creare la fitna (il caos) e dividere l’Arabia Saudita, ricorrendo a tutto il repertorio dei pareri wahabiti contro gli sciiti, storicamente descritti come eretici e, più recentemente, come una quinta colonna che agisce come agente dell’Iran. Mentre si dispiegava la duplice strategia religiosa dell’obbedienza ai sovrani e del confessionalismo, la cosiddetta stampa liberale saudita pubblicava articoli che denunciavano il settarismo. Gli autori liberali hanno attaccato i predicatori dell’odio settari e molti hanno celebrato l’unità nazionale, wataniyya, cioè l’appartenenza a una nazione piuttosto che a una confessione o a una tribù. Le pagine della stampa locale, come al-Riyadh, al-Jazeera e al-Watan, e i giornali pan-arabi al-Hayat e al-Sharq al-Awsat, sono diventate piattaforme per lanciare attacchi contro le forze retrograde che minano l’unità nazionale. Questo tuttavia non significa che quegli autori liberali fossero a favore di più stretti legami con gli sciiti sauditi o sostenessero una protesta politica reale come mezzo per ottenere riforme politiche. Stavano semplicemente difendendo il regime in un altro modo, principalmente dividendo e confondendo l’opinione pubblica saudita, una strategia piuttosto rilevante per bloccare sul nascere un possibile consenso nazionale a favore della mobilitazione e della protesta. Durante la primavera araba i sauditi sono stati esposti a due discorsi contradditori, uno religioso a sostegno dell’unità sunnita contro gli eretici sciiti, e un discorso cosiddetto liberale che denunciava i religiosi e il loro confessionalismo. I sauditi erano confusi e combattuti tra due interpretazioni contraddittorie della crisi. La confusione non fa altro che servire gli interessi del regime nel ritardare le concessioni politiche, secondo una strategia che punta a mantenere le divisioni nella società tra i cosiddetti intellettuali liberali e i predicatori dell’odio. In questa confusione il regime si conferma nella mente delle persone come il solo capace di mediare tra i due campi, dominando gli eccessi sia dei liberali sia dei fanatici religiosi. Senza l’intervento del regime, il Paese tornerebbe a uno stato hobbesiano di natura in cui le tribù, le sette e le regioni danno sfogo al loro fanatismo e alla violenza le une contro le altre, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti i sauditi ed eventualmente giustificando un intervento militare straniero per mettere in sicurezza le fonti di energia così importanti non solo per i sauditi ma anche per il resto del mondo. La Partita non è Chiusa Per il momento, la strategia religiosa saudita di opposizione alla mobilitazione politica sembra aver assorbito l’onda della turbolenza reale manifestatasi per effetto della primavera araba. L’attivismo digitale non cesserà, in quanto assolve un’ottima funzione catartica per una popolazione alla quale sono negati i principi basilari della libertà. Ora che la protesta interna è stata soffocata e garantito il silenzio dell’Occidente nei confronti della riforma politica, a breve termine il regime saudita sembra essere tranquillo. I divieti religiosi di manifestare e il discorso settario contro gli sciiti si rivolgono alla maggioranza sunnita e assicurano una tregua momentanea tra il regime e le voci molteplici e disorganizzate che chiedono riforme politiche. Ma in un Paese opaco come l’Arabia Saudita si può credere che il malcontento che serpeggia tra componenti fondamentali della società e che occasionalmente si manifesta attraverso l’attivismo virtuale e le petizioni stia ora fermentando in modo sotterraneo. Mentre in Tunisia ed Egitto scoppiavano le rivoluzioni, sembra che l’Arabia Saudita sia rimasta indietro in termini di condizioni strutturali capaci di generare una reale mobilitazione e protesta. Le condizioni che altrove hanno innescato la rivolta, per esempio la deprivazione economica e sociale, o l’oppressione politica e la corruzione, sono tutte presenti in Arabia Saudita. Ma esse non sono sufficienti a scatenare una rivolta. L’Arabia Saudita non ha sindacati organizzati – la maggioranza della popolazione attiva è straniera[16] – né movimenti femminili né una popolazione di studenti attiv[17]i. Sono stati questi i tre importanti fattori strutturali che hanno consentito alla protesta virtuale egiziana di trasformarsi in una protesta reale al Cairo e ad Alessandria, a Suez e a Port Said. La protesta in Arabia Saudita è rimasta digitale e non è riuscita a organizzarsi in protesta reale. Il caso saudita attesta i limiti della cyber-utopia, l’euforia che ha circondato le cosiddette rivoluzioni di Twitter e Facebook. Oltre alle tre strategie adottate dal regime per contrastare la protesta, l’incapacità della primavera araba a raggiungere l’Arabia Saudita è conseguenza della dotazione energetica di quest’ultima, della sua inesperienza con le forme più rudimentali della democrazia e della società civile e del sostegno incondizionato da parte dei governi occidentali. Un vero cambiamento verso forme democratiche di governo avrà luogo quando l’Arabia Saudita svilupperà un discorso che, dall’interno della sua stessa tradizione religiosa, richiede libertà, rappresentanza politica, pluralismo, e diritti individuali e civili. In assenza di una teologia della liberazione che adotti proteste pacifiche e non violente, è difficile immaginare progressipolitici reali.


[1] Per maggiori dettagli sull’evoluzione dello Stato saudita si veda Madawi Al-Rasheed, A History of Saudi Arabia,Cambridge University Press, Cambridge – New York 20102. [2]Relativamente alle petizioniper le riforme durante la prima decadedel XXI secolo si veda Al-Rasheed, A History, 242-277. [3]John Sfakianakis (Banque Saudi Fransi), “Saudi Arabia Economics: Employment Quandary”, 16 febbraio 2011, disponibile da: http://susris.com/documents/2011/110217-bsf-employment.pdf [consultato il 20 aprile 2011]. [4]La petizione e i nomi dei firmatari sono su http://www.saudireform.com/?p=petintion [consultato il 20 aprile 2011]. [5]Comunicazione con Ahmad Adnan, aprile 2011. [6]La petizione è stata postata su http://dawlaty.com/ services.html[consultato il 20 aprile 2011]. [7]Per quanto riguarda l’ambito islamistain Arabia Saudita si veda Madawi Al-Rasheed, Contesting the Saudi state: Islamic voices from a new generation, Cambridge University Press, Cambridge 2007. [8]L'informazione si basa su comunicazioni e messaggi elettronici con Fuad Ibrahim, Saad al-Faqih, Muhammad al-Masari, e Muhammad al-Mufarih (marzo-aprile 2011). Gran parte delle valutazioni presenti in questo articolo derivano da comunicazioni con diversi attivisti che vivono in Arabia Saudita e preferiscono mantenere l’anonimato. Inoltre è sorprendente come molti studenti sauditi che hanno studiato all'estero con borse di studio governative siano cittadini digitali attivi. Molti studenti sfruttano il loro tempo all'estero per aggirare la censura su internet. Le varie comunicazioni che ho scambiato con loro e i messaggi e-mail che ho ricevuto sono stati una fonte d’informazione preziosa sui loro sogni e sulle loro aspirazioni. [9]Nel 2009 Khalid al-Umayr e Muhammad al-Utaibi hanno rilasciato una dichiarazione in cui invitavano a dimostrare a sostegno di Gaza. Sono stati arrestati e sono tuttora in prigione. [10]Il Giorno saudita della Rabbia è stato pubblicizzato su diverse pagine web, molte delle quali sono state bloccate dalle autorità saudite. Gli attivisti locali hanno rapidamente creato pagine Facebook alternative. Una pagina ancora accessibile è http://www.facebook.com/Saudis.Revolution [consultata il 21 aprile 2011]. [11]Relativamente alle proteste in Bahrein si veda Toby Jones e Cortni Kerr, A Revolution Pausedin Bahrain, «Middle East Report Online» (23 febbraio 2011), disponibile su: http://www.merip.org/mero/mero022311 [consultato il 22 aprile 2011]. [12]Una fonte affidabile sulle prime avvisaglie del Giorno della Rabbia il 10 marzo 2011 a Qatif è Saudi Arabia Prepares for Protest su http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-12708487 [consultato il 19 aprile 2011]. [13]Colloquio privato con Ulf Laessing, marzo 2011. [14]Tra l’11 e il 27 marzo, le autorità saudite hanno arrestato più di 160 attivisti in varie città. Si veda Saudi Arabia: Arrests for Peaceful Protest on the Rise, «Human Rights Watch (27 marzo 2011), disponibile su http://www.hrw.org/en/news/2011/03/27/saudi-arabia-arrests-peaceful-protest-rise [consultato il 15 aprile 2011]. [15]Demonstrations are Forbidden, «Al-Riyadh» (7 marzo 2011). [16]Per l’impatto che i lavoratori stranieri hanno sulla divisione della classe operaia in Arabia Saudita e nel Golfo si veda John Chalcraft, Monarchy, migration and hegemony in the Arabian peninsula, «LSE Global Governance Report», 12 (ottobre 2010). [17]Queste furono anche le tre condizioni strutturali alla base del Movimento Verde in Iran nel 2008-2009. Per maggiori dettagli si veda Hamid Dabashi, Iran, The Green Movement and the USA: the fox and the paradox, Zed Books, London 2010.

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