Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:29
Dal 2011 a oggi, dalla prima rivolta araba della regione, la Tunisia ha compiuto molti passi in avanti e ha ottenuto anche il riconoscimento per i suoi tentativi di gestire una difficile transizione politica con
l’assegnazione del Nobel per la Pace al Quartetto per il dialogo nazionale.
Spesso si parla della Tunisia come una fragile e imperfetta alternativa ideologica all’estremismo, da salvaguardare e sostenere. Eppure, per Abdelmajid Charfi, professore emerito dell’Università Manouba di Tunisi, è dire troppo. Se non altro perché “una transizione democratica prevede un’azione politica circostanziata e non una prospettiva ideologica di lungo termine”.
Eppure,
il Paese può vantare sviluppi politici e sociali non presenti nel resto della regione. Al di là dei risultati politici e istituzionali della transizione democratica tunisina, Charfi parlando a Oasis rileva per esempio un fattore meno noto, tanto da essere spesso passato inosservato in occidente: la partecipazione delle donne tunisine alla costruzione di una società moderna, agli antipodi del progetto islamista, moderato o violento che sia. Questo fattore non si ritrova nelle società degli altri Paesi vicini che, come la Tunisia, sono stati impegnati in un difficile processo di transizione, fallito in Siria e Yemen, controverso in Egitto. In realtà, spiega Charfi, “pur essendosi affermato nell’era post-Ben Ali,
il protagonismo al femminile in Tunisia ha avuto inizio oltre mezzo secolo fa. Da più di cinquant’anni infatti la Tunisia ha abolito la poligamia e il ripudio, ed è sancita l’uguaglianza tra uomo e donna. Soltanto un ambito fa eccezione, quello dell’eredità, per cui sono ancora in vigore le vecchie disposizioni di legge. Oggi le donne partecipano allo spazio e al dibattito pubblico, e possono occupare posizioni lavorative di rilevanza nel settore pubblico”.
Accanto alle donne che rivendicano un ruolo attivo nella società ci sono tuttavia anche quelle che partono per combattere il jihad in Siria e in Iraq, o che svolgono attività di intermediazione sui social network tra le organizzazioni terroristiche e i giovani che vogliono arruolarsi nelle fila dello Stato Islamico. Ma queste donne “sono in numero limitato e sono l’eccezione che conferma la regola: sono giovani donne e uomini emarginati, che non sono stati formati ad avere un senso critico e subiscono una sorta di lavaggio del cervello. Non bisogna sopravvalutare il loro numero e il loro ruolo, ma allo stesso tempo non si può neppure far finta che il problema non sussista”. La Tunisia, infatti, è il Paese da cui parte ed è partito il numero più alto di foreign fighters per i fronti siriano e iracheno.
E proprio riguardo all’ascesa dello Stato Islamico e delle correnti estremiste in Medio Oriente e Nord Africa, tra le sfide più imponenti per molti Stati arabi, lo studioso tunisino ritiene che il problema sia imputabile i parte “alla strumentalizzazione della religione”. Le religioni, prosegue Charfi, “hanno un ruolo ambivalente: possono aiutare gli uomini a liberarsi oppure possono svolgere il ruolo contrario e ostacolare la sua libertà. Tra i gruppi fondamentalisti oggi è molto diffusa la tendenza a citare versetti dal Corano non per convincere razionalmente ma per creare una sorta di saturazione psicologica”.
Questa manipolazione del religioso richiede una riflessione sulle cause che la originano e l’adozione di contromisure. I campi d’azione individuati da Charfi sono essenzialmente tre: il sistema d’istruzione, che richiederebbe una riforma, il sistema politico, che necessiterebbe di scelte più consapevoli da parte dei governanti, e il sistema economico con la messa in campo di politiche che prevengano la povertà e l’emarginazione.
Assieme ai governi, anche le istituzioni religiose come al-Azhar, importante centro dell’Islam sunnita in Egitto, dovrebbero partecipare alla lotta all’estremismo. Ma per avere un ruolo bisogna tenere un discorso credibile – afferma Charfi – e al-Azhar oggi non lo fa più.