I terroristi hanno colpito la Francia perché combatte affinché la Siria non sia condannata all’alternativa tra “Califfato” e Assad
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:37
Gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e nella sua periferia devono essere analizzati come un colpo senza precedenti al cuore dell’Europa, il cui impatto va ben al di là della Francia stessa. In effetti per Da’esh (acronimo arabo di Stato islamico in Iraq e Siria, ndr), impropriamente chiamato «Stato Islamico», si tratta di infliggere il massimo della violenza possibile in seno al principale paese occidentale a essere impegnato in maniera attiva affinché la Siria non sia condannata all’inquietante alternativa tra la dittatura di Bashar al-Assad e l’autoproclamato «califfato» di Abu Bakr al-Baghdadi. È questa possibilità di una «terza via» per la Siria, per il mondo arabo e il mondo musulmano, e quindi di un’Europa in pace duratura con la sponda sud del Mediterraneo, che i commando terroristici hanno voluto distruggere quella sera. Abu Mus’ab al-Zarqawi, quando nel 2004 divenne il leader (in arabo “emiro”) del ramo iracheno di al-Qa’eda, sapeva che avrebbe potuto contare sul sostegno multiforme di Bashar al-Assad e della sua intelligence. La dittatura siriana punta allora sull’insurrezione anti-americana in Iraq per stabilirvi le truppe occidentali e distrarle dal proprio paese. Inoltre, i diversi centri di potere della polizia politica di Damasco hanno accumulato notevoli vantaggi dal patrocinio della guerriglia infiltrata attraverso la frontiera siro-irachena. È così che la « filiera Buttes Chaumont » (ha indottrinato alcuni degli assalitori degli attentati di gennaio a Parigi, ndr), che inviava volontari francesi in Iraq attraverso la Siria, si è potuta sviluppare. Questa filiale viene smantellata nel 2005 dalla giustizia francese, ma molti jihadisti francesi hanno potuto così stringere legami stabili con Zarqawi e il suo gruppo. È il caso di Boubaker al-Hakim tenuto prigioniero per sei anni in Francia e che, alla sua liberazione nel 2011, si stabilisce in Tunisia fondandovi il braccio armato del gruppo jihadista Ansar al-Shari’a (“i partigiani della Shari’a”). Così come è il caso dei fratelli Sherif e Said Kouachi che collaborano regolarmente con il braccio yemenita di al-Qa’eda. Tutti questi estremisti hanno seguito da vicino la trasformazione di al-Qa’eda in Iraq, dopo la morte di Zarqawi nel 2006, in «Stato Islamico». Abu Bak al-Baghdadi assume la guida dello «Stato Islamico in Iraq» nel 2010. I territori controllati allora dai jihadisti in Iraq si riducono drasticamente e ci vuole tutto il sostegno dell’apparato di sicurezza nella vicina Siria per impedire che lo «Stato Islamico in Iraq venga eliminato. Lo scoppio del sollevamento democratico in Siria nella primavera del 2011 offre un’opportunità storica ai jihadisti iracheni: Assad decide infatti di liberare in massa detenuti jihadisti in modo che essi possano andare a ingrossare le fila dei partigiani di Baghdadi. È così che emerge nell’aprile 2013 lo «Stato Islamico in Iraq e in Siria», conosciuto, sotto il suo acronimo arabo, come Da’esh. Insediatosi nella città di Raqqa, appena sopra il corso dell’Eufrate, Da’esh beneficia ampiamente del dietrofront americano dell’agosto 2013: l’amministrazione Obama, dopo aver dichiarato che l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad rappresenta una «linea rossa», decide di rimanere passivo nonostante l’utilizzo sistematico di agenti chimici alla periferia di Damasco. Così la Francia, in prima linea nel sostegno occidentale alla rivoluzione siriana, viene abbandonata nel momento della verità dagli Stati Uniti. Questo abbandono americano produce nel mondo intero un picco nelle partenze per il jihad, poiché Da’esh si pone come unico difensore autentico dei musulmani di fronte a una comunità internazionale che li ha abbandonati alla mercé di Damasco. Baghdadi e Assad si rinforzano l’un l’altro e, per di più si trattano con ostentato riguardo: tutti i territori conquistati dai jihadisti lo sono a scapito delle forze rivoluzionarie e mai del regime ba’athista. Questa «terza via» difesa dalla Francia, tra Bashar al-Assad e Abu Bakr al-Baghdadi, la espone in primo luogo al pericolo della presa di ostaggi da parte di Da’esh in Siria. Uno dei carcerieri, il francese Mehdi Nemmuoche, viene inviato da Da’esh in Belgio nel maggio 2014. Dopo aver ucciso quattro persone al museo ebraico di Bruxelles, viene fermato a Marsiglia in possesso un arsenale da guerra. Ma è solo un primo campanello d'allarme, seguito nel gennaio 2015 da tre attentati a Parigi e nella sua periferia che causano 17 morti (contro Charlie Hebdo, un supermercato kasher e un poliziotto). La scelta dei bersagli è meno importante della volontà di suscitare cieche rappresaglie contro i musulmani di Francia. Per Da’esh, si tratta non soltanto di dimostrare l’inutilità della «terza via» difesa in Siria da Parigi, ma anche di far crollare il modello di coesistenza repubblicano, laddove la Francia presenta le comunità musulmane ed ebraiche più importanti d’Europa. Tale strategia del terrore è stata sconfitta dalla mobilitazione cittadina dell’11 gennaio 2015, in cui milioni di francesi sono scesi per le strade di Parigi e della provincia. È questo contro-modello offerto dalla Francia all’Europa che i terroristi hanno voluto colpire nuovamente il 13 novembre 2015. Ed è anche questa «terza via» per la Siria che hanno voluto sotterrare. Bashar al-Assad non si è ingannato nell’ostentare la sua soddisfazione all’indomani degli attentati di Parigi, di cui ha imputato responsabili le autorità francesi. Questa convergenza tra i centri di potere di Damasco e gli assassini di Da’esh deve essere ben ponderata se vogliamo trarre tutte le lezioni dalla tragedia di Parigi.