Non è chiaro cosa intenda MBS quando parla di “ritorno” all’Islam moderato per l’Arabia Saudita, perché il Paese, anche prima del 1979, ha sempre conosciuto una forma di Islam conservatore

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:54:50

Nell’ottobre del 2017, pochi mesi dopo essere stato nominato principe ereditario dell’Arabia Saudita, Muhammad bin Salmān (in breve MBS) dichiarava ai media di tutto il mondo di voler riportare il Regno ultraconservatore a un Islam moderato. Da quel momento, in più di un’occasione MBS ha fatto riferimento all’Arabia Saudita precedente al 1979, epoca in cui a suo dire i sauditi vivevano una vita simile a quella degli altri Paesi del Golfo: le donne guidavano e lavoravano e si andava al cinema. Posto che il giovane principe, nato nel 1985, non ha esperienza diretta di quel periodo, l’esistenza di un fantomatico Islam moderato saudita soffocato dagli eventi del 1979 non regge alla prova dei fatti. L’Arabia Saudita infatti nasce contestualmente al wahhabismo e nessuno dei tre Emirati-Stati che si sono susseguiti dal 1744 a oggi ha mai fatto esperienza di una forma di Islam diversa.

 

Anno zero?

È senz’altro vero che il 1979 rappresenta un anno spartiacque per tutto il Medio Oriente. La rivoluzione islamica iraniana infatti sancisce l’inizio dello scontro tra Islam rivoluzionario e Islam conservatore: per proteggersi dagli effetti della rivoluzione, l’Arabia Saudita risponderà negli anni successivi riattivando la componente anti-sciita insita nel wahhabismo.

 

Sempre nel 1979, pochi mesi dopo la rivoluzione iraniana, la situazione saudita si complica anche sul fronte interno: il 20 novembre un gruppo di rivoluzionari, gli Ikhwān di Juhaymān al-‘Utaybī, occupa la Grande moschea di Mecca, dando avvio a quella che è tuttora considerata l’operazione più drammatica nella storia dell’islamismo militante saudita. La presa della moschea va interpretata nell’ottica messianica di Juhaymān, il quale riteneva imminente l’avvento del Mahdī, il Messia musulmano. L’obbiettivo finale dell’operazione infatti era consacrare Mahdī l’amico e compagno di Juhaymān, Muhammad al-Qahtānī. Anche la data dell’operazione non era casuale, ma corrispondeva al primo giorno del XV secolo del calendario islamico, giacché «all’inizio di ogni secolo – recita un detto del Profeta – Dio invierà alla sua comunità un rinnovatore» (Sunan Abī Dāwūd, Kitāb al-malāhim). All’assedio, durato ben due settimane, pose fine soltanto l’intervento delle forze speciali francesi, chiamate in soccorso dal re. Anche questa decisione suscitò l’opposizione di una parte consistente degli islamisti sauditi, che contestavano la presenza di stranieri nel luogo più sacro dell’Islam.

 

Nel tentativo di allontanare dal Regno la frangia più estremista degli islamisti, potenzialmente sovversiva, la monarchia sfruttò allora a proprio vantaggio un altro fronte appena aperto. Il 24 dicembre 1979 aveva infatti inizio l’invasione sovietica dell’Afghanistan, Paese che fino alla fine degli anni ’80 avrebbe funto da polo d’attrazione per migliaia di combattenti jihadisti provenienti da tutto il mondo musulmano. Il governo saudita, sostenuto dal clero wahhabita, lanciò una campagna a favore del jihad, arrivando a rimborsare il 75% del biglietto aereo a chi partiva per combattere.

 

Eppure, nonostante questa concentrazione di eventi (rivoluzione iraniana, assedio della Mecca e invasione dell’Afghanistan), il 1979 non può però essere considerato l’anno zero della deriva fondamentalista, considerata da MBS come l’origine di tutte le sventure dell’Arabia Saudita odierna. Agli anni ’60, per esempio, risalgono le origini della Sahwa, movimento islamista ibrido nato dall’incontro tra rigorismo wahhabita e attivismo politico dei Fratelli musulmani egiziani e siriani, che negli anni ’90 si sarebbe rivelato la spina nel fianco del governo saudita. L’ideologia sahwi è infatti una miscela potenzialmente esplosiva perché all’esclusivismo wahhabita, che vede idolatria ovunque, anche all’interno del campo musulmano, unisce la lotta politica contro l’Occidente imperialista (nella versione di Hasan al-Bannā) o contro i regimi arabi empi (nella versione di Sayyid Qutb). La Sahwa si sarebbe radicata profondamente nella società saudita con la comparsa, alla fine degli anni ’60, delle jamā‘āt, reti sociali organizzate secondo una gerarchia molto rigida, e clandestine. La clandestinità era evidentemente dovuta alla visione wahhabita-hanbalita, che proibisce la costituzione di partiti diversi dal partito di Dio, in quanto accusati di favorire la divisione della società a scapito dell’unità della umma.

 

L’Università di Medina

Negli anni ’60 peraltro inizia anche la cosiddetta “guerra fredda araba” tra i Paesi nazionalisti e socialisti cappeggiati dall’Egitto di Nasser e sostenuti dall’Unione Sovietica, e i Paesi del blocco islamico, guidati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Stati Uniti. Nel tentativo di contrastare l’influenza socialista, nel 1961 il governo saudita crea l’Università di Medina sotto la leadership dello shaykh Muhammad Ibn Ibrāhīm Āl al-Shaykh e di Ibn Bāz (suo vice e futuro Gran Muftì del Regno). Nata con l’obiettivo di wahhabizzare la regione dell’Hijaz, che per la sua posizione geografica aveva goduto di una relativa libertà culturale e religiosa, l’Università di Medina sarebbe presto diventata il principale centro d’irradiazione dell’Islam wahhabita nel mondo. In questa e in altre università saudite avrebbero insegnato grandi nomi della Fratellanza musulmana (Muhammad Qutb, fratello minore di Sayyid Qutb), del salafismo (Muhammad Nāsir al-Dīn al-Albānī) e del jihadismo (‘Abdallah ‘Azzām, ideologo del jihad afghano).

 

L’Università di Medina ha inoltre agito da incubatore anche di un altro gruppo islamico, la Jamā‘at al-salafiyya al-muhtasiba, nata verso la metà degli anni ’60 da un gruppo di studenti dopo un episodio che sarebbe passato alla storia come taksīr al-suwar, “la frantumazione delle immagini”. Animati da un furore iconoclasta, i membri di questo gruppo si erano lanciati a distruggere immagini, fotografie e manichini esposti negli spazi pubblici e nelle vetrine di Medina, provocando scontri con gli abitanti della città e innalzando il livello di tensione con il governo. Questo movimento si collocava all’interno della corrente degli Ahl al-hadīth, che in Arabia Saudita si è diffusa sotto l’impulso di Muhammad Nāsir al-Dīn al-Albānī (m. 1999), una delle figure più prestigiose del salafismo contemporaneo.

 

Noto come muhaddith al-‘asr, “il tradizionista del nostro secolo”, al-Albānī si prefiggeva di salafitizzare ulteriormente il wahhabismo. Egli riteneva infatti che i wahhabiti fossero salafiti in materia dottrinale ma non in materia giurisprudenziale e contestava loro l’adesione alla scuola giuridica hanbalita e il taqlīd, ovvero l’imitazione dei grandi ulema della storia islamica, tra cui Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb e il suo ispiratore medievale Ibn Taymiyya. Al-Albānī rifiutava anche alcune pratiche wahhabite come l’obbligo di togliere le scarpe durante la preghiera e la presenza del mihrāb nelle moschee (la nicchia che indica la direzione della Mecca), considerandole un’innovazione.

 

Gli Ahl al-hadīth rigettavano inoltre la carta d’identità e il passaporto perché recavano la fotografia della persona e denotavano la sua appartenenza a uno Stato anziché a Dio, proibivano di indossare l’‘iqāl (la rondella che blocca il turbante che i sauditi portano sul capo) e ritenevano che l’abito tradizionale indossato dagli uomini dovesse scendere quattro dita sotto il ginocchio, a differenza dei sahwi che lo volevano lungo fino alle caviglie.

 

Gli arresti di MBS

Alla luce di queste vicende è difficile affermare che prima del ’79 la società dell’Arabia Saudita fosse aperta e moderata. Se la realtà storica contrasta con la narrazione di MBS, anche le pratiche messe in atto dalla monarchia nell’ultimo anno rendono poco credibile il suo discorso. Nell’autunno del 2017 MBS ha fatto arrestare decine di attivisti pacifici, predicatori e intellettuali accusandoli di complottare con i nemici (Fratelli musulmani e Qatar in particolare) contro il governo. Se però si analizza il profilo delle persone arrestate, si nota come molte di loro appartengano alla corrente della Neo-sahwa o quella islamo-liberale.

 

Nel primo gruppo rientra Salmān al-‘Awda (n. 1956), celebre predicatore (14 milioni di followers su Twitter) e veterano della Sahwa. Al-‘Awda è stato uno dei primi predicatori a pronunciarsi a favore della Primavera araba, rendendosi inviso al clero wahhabita e al governo saudita che, già nel 2011, aveva sospeso il suo programma televisivo Hajar al-zāwiya, e proibito la diffusione in Arabia Saudita del suo libro As’ilat al-thawra [Le domande della rivoluzione], in cui riabilitava la nozione di rivoluzione contro la dottrina ufficiale dell’obbedienza incondizionata al sovrano. Questo tuttavia non è l’unico aspetto che lo rende sgradito alla monarchia. Al-‘Awda infatti promuove un discorso ibrido, che unisce il pensiero politico occidentale alla tradizione islamica. Il predicatore mutua dall’Occidente la nozione di rivoluzione pacifica intesa come ricerca del cambiamento politico tramite un’azione collettiva che si manifesta in determinate condizioni politiche, sociali, psicologiche ed economiche; occidentalizza la nozione islamica di shūrā, consultazione, chiedendo che al meccanismo possa accedere tutta la comunità islamica e non soltanto pochi eletti come invece avviene oggi in Arabia Saudita; ritiene che l’applicazione della sharī‘a sia opportuna ma non possa avvenire con un atto di forza; riabilita la nozione di ijtihād, il ragionamento personale, in opposizione al taqlīd, l’imitazione cieca propugnata dal wahhabismo. Al-‘Awda teorizza inoltre l’idea di uno Stato fondato su un contratto civile stipulato tra la società e il governante, che sancisca la divisione dei tre poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – e ritiene che nell’Islam non vi sia spazio per la teocrazia.

 

Tra le vittime di MBS vi è anche ‘Abdullah al-Hāmid (n. 1950), co-fondatore di HASM (Jam‘iyya al-huqūq al-siyāsiyya wa-l-madaniyya), l’Associazione per i diritti politici e civili creata dopo l’11 settembre da un gruppo di islamisti riformisti. Al-Hāmid ha teorizzato l’idea di monarchia costituzionale dandole una giustificazione religiosa e la nozione di jihad pacifico (jihād silmī), versione islamica della protesta non violenta, dello sciopero della fame e della disobbedienza civile, tutte forme di manifestazione proibite in Arabia Saudita. Nella sua ottica, le proteste pacifiche sarebbero una forma pubblica e allargata di nasīha, il consiglio che tradizionalmente i chierici rivolgono al governante in forma privata.

 

Cosa significa “Islam moderato”?

L’arresto di queste e altre personalità saudite è la cifra della politica adottata da MBS, più propenso a soffocare il dissenso che a liberare i circoli riformisti suscettibili di dare seguito alla modernizzazione da lui stesso auspicata. Allo stato attuale non è dunque chiaro chi potrebbe farsi carico del compito di riformare l’Islam saudita, dal momento che l’establishment wahhabita non ha interesse a promuovere una riforma che potrebbe mettere in discussione il suo status, e buona parte dei più noti musulmani riformisti sono in stato di arresto. Non è chiaro neppure che cosa intenda MBS con “Islam moderato”, se significhi l’abolizione delle pene corporali hudūd, stabilite dalla sharī‘a per i crimini commessi contro i diritti di Dio, la fissazione di un’età minima per il matrimonio o la limitazione della poligamia; se preveda l’eliminazione della polizia religiosa, che continua a svolgere una funzione repressiva nella società, benché nel 2016 re Salmān ne abbia parzialmente limitato le prerogative; o ancora l’allentamento dei rapporti con il clero wahhabita.

 

È chiaro però che l’esistenza della monarchia saudita è profondamente legata all’esistenza del wahhabismo, che sebbene abbia perso l’impeto jihadista che ha accompagnato la creazione dei diversi regni sauditi, non è mai stato moderato o aperto. È dunque inverosimile che MBS possa mettere in discussione il rapporto con il clero wahhabita, ciò che significherebbe tagliare il ramo sul quale la dinastia è seduta da oltre duecento anni.

 

 

Per saperne di più

Stéphane Lacroix, Les Islamistes saoudiens. Une insurrection manquée, PUF, Paris 2015.

Madawi al-Rasheed, Muted Modernists. The Struggle over Divine Politics in Saudi Arabia, Hurst & co., London 2015.

Madawi al-Rasheed (a cura di), Salman’s Legacy. The Dilemmas of a New Era in Saudi Arabia, Hurst & co., London 2018.

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