Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:31

Come riportato da Avvenire, nella giornata di lunedì il cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, il Sottosegretario del Dicastero, padre Nicola Riccardi, e il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, hanno incontrato a Damasco Bashar Assad. A margine dell’evento, è stata consegnata al Presidente una lettera di Papa Francesco, in cui il Pontefice ha ribadito la profonda preoccupazione per la situazione siriana «con particolare riferimento alle condizioni drammatiche della popolazione civile a Idlib». Francesco ha invitato inoltre Assad a rispettare il diritto internazionale e a fermare le violenze che stanno distruggendo il Paese e mettendo in ginocchio la popolazione.

 

In un’intervista concessa a Vatican News, il segretario di Stato vaticano, cardinal Pietro Parolin, ha sottolineato come l’intento della lettera non fosse politico, ma volto a porre fine a questa catastrofe umanitaria. Il Pontefice, si legge nelle parole di Parolin, «si auspica una soluzione politica che superi gli interessi di parte […] attraverso la diplomazia, il dialogo e la negoziazione, con l’aiuto della comunità internazionale».

 

In questo frangente, la principale preoccupazione di Francesco è legata alla situazione nella provincia di Idlib, dove il governo, supportato da Mosca, ha lanciato un’offensiva per sradicare la presenza di ribelli, in particolare affiliati al gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham. Gli attacchi all’ultima sacca di resistenza hanno però colpito anche la popolazione, causando oltre 700 vittime e costringendo 300.000 persone a lasciare l’area negli ultimi tre mesi. Come afferma l’analista Fabrice Balanche a La Croix, «nel distruggere Idlib, l’obiettivo principale di Damasco è incitare i civili a fuggire a nord, verso il confine turco, per isolare i ribelli nel sud, prima di condurre un’offensiva muscolare a terra».

 

L’offensiva, che potrebbe protrarsi nel tempo, continua a mietere vittime, soprattutto fra i civili e in particolare nelle regioni di Idlib, Hama e Aleppo. A tal proposito, il Syrian Network for Human Rights monitora costantemente gli attacchi. Solo in questa settimana si sono registrati numerosi attacchi in diversi.

 

La morte di Beji Caied Essebsi

 

Nella giornata di giovedì è venuto a mancare all’età di 92 anni Beji Caied Essebsi, il primo presidente democraticamente eletto in Tunisia. Già ricoverato il mese scorso, Essebsi guidava il Paese dal 2014 e aveva già dichiarato la sua intenzione di non candidarsi alle prossime elezioni presidenziali in programma a novembre.

 

 Il voto di ottobre per il Parlamento e di novembre per la Presidenza rappresentano, come sottolinea questo focus ISPI, un elemento di incertezza per il futuro della Tunisia. L’alleanza di governo fra il partito islamista Ennahda e quello secolare Nidaa Tounes, fondato proprio da Essebsi, ha dovuto infatti già affrontare numerose difficoltà: le posizioni divergenti a causa delle differenze ideologiche, la comparsa di nuovi attori politici non allineati ai tradizionali partiti, lo spettro del fondamentalismo islamico e degli attentati di matrice jihadista e infine una logorante crisi economica.

 

Su questo tema si è concentrato l’Economist che, dopo aver ricostruito la carriera politica di Essebsi, nota come il piano di austerità promosso dal Fondo Monetario Internazionale abbia eroso la base elettorale di Nidaa Tounes. L’aumento delle tasse, l’incapacità di attuare riforme che facilitassero l’ingresso nel mondo del lavoro e la disoccupazione oltre il 15% hanno contribuito ad accrescere il malcontento popolare.

 

Nonostante ciò, Essebsi non ha mai reagito con il pugno di ferro ma, pur tutelando la propria posizione, si è sempre schierato a difesa della democrazia. Molte autorità hanno di conseguenza espresso il proprio cordoglio per la sua scomparsa, come ricostruito dal Time. Il Segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha definito Essebsi un leader globale, il Premier libanese e la corte giordana hanno dichiarato alcuni giorni di lutto nazionale e infine il presidente del Parlamento tunisino Mohamed Ennaceur, che ricoprirà l’incarico di Presidente ad interim, ha invitato la popolazione a rimanere unita in questa delicata fase di transizione.

 

Le ambizioni del Golfo in Somalia

 

La rivalità fra Qatar ed Emirati Arabi Uniti si estende ben oltre i confini della Penisola Arabica, fino a raggiungere la Somalia. In una registrazione ottenuta dal New York Times, un uomo di affari, Khalifa Kayed al-Muhanadi, parla con l’ambasciatore qatariota in Somalia di come l’attentato di maggio a Bosaso, nel nord del Paese, fosse stato condotto per salvaguardare gli interessi qatarioti a discapito di quelli emiratini.

 

Proprio gli Emirati sarebbero stati fra i primi a cercare di influenzare il Corno d’Africa, inviando già nel 2012 alcuni miliziani per contrastare la pirateria somala e aprendo una base ad Assab in Eritrea. Negli stessi anni, Turchia e Qatar hanno lanciato numerose iniziative commerciali volte a limitare l’influsso emiratino nella regione. Se Mogadiscio ha inizialmente cercato di prendere le distanze dallo scontro fra le potenze sunnite, dal 2018 il governo centrale si è esposto maggiormente a favore dell’asse turco-qatarino. E così Abu Dhabi ha reagito spostando i propri investimenti in province avverse a Mogadiscio, come Somaliland e Puntland, dove si trova appunto Bosaso. In quest’ottica, dunque, l’attacco di maggio, rivendicato dal gruppo terroristico al-Shabab e avallato, o quantomeno non ostacolato, da Doha avrebbe avuto gli obiettivi di danneggiare gli Emirati e di creare nuove opportunità di espansione per il Qatar.

 

L’indiscrezione ha ovviamente acceso un dibattito, soprattutto sui media legati alle due potenze del Golfo. La qatarina Al Jazeera ha dato ampio spazio alle smentite del governo di Doha, così come The Peninsula Qatar ha riportato per esteso la dichiarazione del governo per cui «la politica estera del Qatar è sempre stata finalizzata al raggiungimento di stabilità e prosperità». Al contrario, il sito emiratino The National ha evidenziato come il Qatar, ritenuto da alcuni paesi uno Stato che finanzia il terrorismo, abbia volutamente danneggiato gli interessi emiratini. Allo stesso modo, Arab News ha messo in luce che i comprovati legami fra Qatar e al-Shabab, resi evidenti dall’attentato di Bosaso, giustifichino il blocco promosso da Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Bahrein.

 

Arabia Saudita ed Emirati si dividono sullo Yemen

 

Il Ministro degli esteri emiratino Anwar Gargash ha commentato sul Washington Post la decisione di ricollocare le truppe di stanza in Yemen. La decisione, ha detto Gargash, va letta come una misura per favorire una risoluzione politica del conflitto. Non va invece interpretata come un disimpegno delle truppe emiratine, che continueranno ad assistere militarmente e logisticamente le forze yemenite impegnate a contrastare gli houthi e a garantire la sicurezza nel Paese. Il Ministro ha ribadito che l’intervento della coalizione a guida saudita-emiratina è stato fondamentale per limitare le mire espansionistiche dell’Iran e per contrastare la minaccia terroristica di al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Inoltre, Gargash ha elogiato gli sforzi dei militari yemeniti nel liberare Aden e Hodeidah.

 

Eppure, come sottolineato dal Carnegie Middle East Center, il riposizionamento emiratino va interpretato come una scelta strategica di Abu Dhabi. La mossa consente infatti agli Emirati di rafforzare i legami con il Southern Transitional Council (STC), il movimento separatista del sud, e con Tareq Saleh, nipote dell’ex presidente Saleh a capo di alcune milizie che controllano la costa occidentale, entrambi invisi al governo Hadi appoggiato da Riyadh. Concentrarsi sul sud permette così agli Emirati di prendere le distanze da quanto succede a nord, dove le ostilità fra i ribelli zaiditi e Arabia Saudita continuano.

 

In questo modo, sostengono Ali Hussein Bakeer e Giorgio Cafiero su Middle East Eye, gli osservatori internazionali si concentreranno maggiormente sull’Arabia Saudita, lasciando maggior libertà di manovra ad Abu Dhabi. Se è vero che gli houthi rappresentano una minaccia alla sicurezza del Regno, il disimpegno emiratino lascia scoperta Riyadh, costringendola a confrontarsi con le critiche sulla situazione umanitaria in Yemen e con gli errori strategici commessi dal 2015 a oggi. 

 

L’Egitto e le opportunità della Coppa d’Africa

 

Si è appena conclusa la 32ª edizione della Coppa d’Africa, il torneo di calcio maschile che ha visto affrontarsi nella fase finale 24 squadre nazionali. L’Algeria ha trionfato, ma la competizione è stata anche una grande occasione per l’Egitto in quanto Paese ospitante. Il Guardian ha dedicato infatti un approfondimento alle opportunità che il torneo ha fornito allo Stato nordafricano.

 

Come sostiene l’analista egiziano Ziad Akl, «non si può negare che vi sia una connessione fra l’organizzazione della Coppa e la politica». In particolare, il torneo è stato sfruttato dal Cairo per promuovere una retorica nazionalista e un senso di patriottismo, grazie alla presenza della quotata nazionale egiziana. In più, la Coppa è stata usata come strumento di soft power con due principali obiettivi. In primo luogo, l’Egitto voleva presentarsi come uno Stato capace e sicuro agli altri Paesi africani, considerando anche che Abdel Fattah al-Sisi è in questo momento alla guida dell’Unione africana. In secondo luogo, il Paese ha lanciato un canale tv, TimeSport, che trasmetteva tutte le partite in diretta e gratuitamente, a danno della BeInSports, il canale a pagamento di proprietà qatariota.

 

La Coppa non ha però portato i risultati sperati. Se sul campo, l’avventura della nazionale si è interrotta agli ottavi, non è andata meglio al di fuori del terreno da gioco, dove sono state messe in atto misure restrittive di controllo che hanno minato alla base il successo dell’iniziativa sportiva. Un esempio è dato dalla creazione di una FanID, una specie di tessera del tifoso, necessaria per accedere agli stadi. Il rilascio avveniva solo dopo l’invio di una dettagliata documentazione che includeva molte informazioni personali: in questo modo le autorità potevano pilotare gli ingressi e vietare l’accesso a potenziali detrattori del regime. Nella memoria di al-Sisi è infatti ancora molto fresco il ricordo dei gruppi di tifosi che erano scesi in piazza contro Mubarak nel 2011.

 

La volontà del governo di colpire i gruppi della società civile considerati minacciosi per lo status quo si estende ben oltre le tifoserie organizzate e colpisce anche le ONG. La scorsa settimana il Parlamento ha approvato la nuova legge che regola le attività delle associazioni civili e ora al-Sisi ha trenta giorni per approvarla o farla ridiscutere al Parlamento. I 107 articoli della legge proibiscono numerose attività come la conduzione di sondaggi d’opinione o la pubblicazione dei risultati senza l’approvazione governativa. Human Rights Watch ha già denunciato l’iniziativa legislativa, temendo che questa legge potesse irrigidire maggiormente la legge draconiana del 2017 che poneva grandi limiti alla libertà di azione delle ONG.

 

Alla base di queste leggi vi sarebbe l’intenzione del governo di controllare il territorio, prevendo nuove possibili agitazioni. Eppure, una porzione del Paese, la penisola del Sinai, presenta ancora gravi problemi di sicurezza, al punto che, come riporta Deutsche Welle British Airways ha sospeso i propri voli verso l’Egitto per una settimana. Anche Lufthansa ha bloccato tutti gli aerei, ma solo nello scorso weekend.

 

Le tensioni fra Regno Unito e Iran nello Stretto di Hormuz

 

Ramezan Sharif, il portavoce dei Guardiani della Rivoluzione iraniana (IRGC), ha annunciato sabato che la petroliera svedese battente bandiera inglese Stena Impero è stata scortata al porto iraniano di Bandar Abbas, dopo aver violato il codice di navigazione internazionale, su richiesta dell'autorità portuale di Hormozgan. La decisione di spegnere il trasponder e la mancata reazione agli avvertimenti delle barche dei pasdaran avrebbero portato alla decisione di sequestrare la nave. La BBC, che ripubblica le immagini dei 23 membri dell’equipaggio già mostrate dalle agenzie Fars e Irib, analizza le diverse reazioni: il Ministro degli esteri inglese ha parlato di «pirateria di Stato», il Segretario di Stato americano ha invece ribadito che ogni Paese è responsabile della sicurezza delle proprie imbarcazioni e infine il Ministro degli esteri iraniano ha invitato Londra a sospendere il «supporto al terrorismo economico degli Stati Uniti».

 

L’azione nello Stretto, insieme all’aumento della quantità di uranio debolmente arricchito, è una risposta alla politica di “massima pressione” messa in campo dalla Casa Bianca. Come nota Riccardo Redaelli su Avvenire, «i due bulletti di quartiere [IRGC e Stati Uniti, NdR] sfoderano il coltello sperando che l’altro si spaventi e non si avvicini per azzuffarsi». Questa lettura, dice sempre Redaelli, non tiene però conto di come «l’aggressività all’esterno si accompagna a un forte irrigidimento interno». Le sanzioni che hanno messo in ginocchio la popolazione, il successo che stanno vivendo le fazioni più conservatrici del sistema iraniano e l’aumento delle tensioni internazionali mettono così Teheran di fronte a un bivio: cedere e negoziare con gli Stati Uniti da una posizione di debolezza o resistere, rischiando un’escalation che nessuno vuole ma che potrebbe realizzarsi.

 

 

IN BREVE

 

Turchia: un’inchiesta del New York Times approfondisce le purghe messe in atto da Ankara ai danni di numerosi professori, in particolare provenienti dall’università Mulkiye.

 

Iran: 17 persone sono state condannate a morte con l’accusa di essere spie della CIA.

 

Tunisia: Rachid Ghannouchi si candida come primo nome nella lista elettorale di Ennahda per le prossime elezioni.

 

Nigeria: come riporta la CNN, l’imam Abubakar Abullahi è stato premiato negli Stati Uniti per aver protetto 262 cristiani durante gli attacchi di milizie islamiste nel 2018.

 

Afghanistan: tre attentati hanno colpito Kabul, uccidendo almeno 15 persone. Un attacco è stato rivendicato dai talebani, mentre gli altri due sono stati rivendicati dallo Stato Islamico.

 

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