Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:12

Non si placano le proteste che da ottobre stanno attraversando l’Iraq, come si può osservare da questo resoconto fotografico pubblicato su The Atlantic. Scoppiate a Baghdad in seguito alla rimozione di Abdul-Wahab al-Saadi da capo delle Forze antiterrorismo irachene, le manifestazioni hanno assunto poi un carattere nazionale, con migliaia di persone in strada per chiedere più servizi, meno disoccupazione e più in generale la fine di un sistema politico corrotto. Già un mese fa, per esempio, Haaretz stimava che dal 2003 450 miliardi di dollari provenienti dall’industria petrolifera non sarebbero entrati nelle casse dello Stato, ma avrebbero arricchito l’élite politica locale. L’accusa al sistema è anche dovuta alla sua natura di “oligarchia multiconfessionale”, ha fatto notare Harith Hasan sul Carnegie Middle East Center. Per questo, ciò che sta accadendo ha assunto i contorni di uno scontro tra il vecchio linguaggio della confessionalità e un nuovo linguaggio di cittadinanza e giustizia sociale.

 

Come ricostruito da Vox, dopo la reazione violenta delle forze di sicurezza irachene che avrebbero ucciso 150 manifestanti e feritone diverse migliaia, le proteste si erano momentaneamente interrotte a metà ottobre, per riprendere però con forza a fine mese. Se da un lato il governo di Adel Abdul-Mahdi, pressato da alcuni politici sciiti vicini a Teheran affinché rassegni le dimissioni, ha promesso una riforma elettorale, una revisione del sistema giudiziario e nuovi fondi per garantire servizi, dall’altro le risposte violente delle forze di sicurezza non hanno fatto altro che irritare i manifestanti. Per esempio, come racconta la BBC, migliaia di persone hanno occupato forzatamente un palazzo nel centro di Baghdad da cui i cecchini dell’esercito sparavano sulla folla.

 

Un tema ricorrente fra chi protesta è l’ingerenza che l’Iran giocherebbe nel Paese. L’ordine politico post-2003 ha di fatto aperto le porte alla Repubblica Islamica, che prima ha supportato alcuni partiti sciiti e poi ha mobilitato milizie armate, come le Forze di mobilitazione popolari (PMF). Per Marie Fantappie, esperta di Iraq del Crisis Group intervistata da Associated Press, «le persone fanno un collegamento fra il fallimento dell’establishment politico, principalmente sciita, e l’influenza iraniana […] Le PMF sono così viste come uno strumento di repressione». Secondo l’analista Bobby Ghosh di Bloomberg interpellato dal CTPost, anche il Grand Ayatollah Ali al-Sistani, massimo esponente religioso sciita in Iraq e guida della hawza di Najaf, ha puntato il dito contro l’Iran. Nella preghiera di venerdì scorso ha infatti dichiarato che «nessun attore regionale o internazionale può impadronirsi della volontà del popolo iracheno e imporre la propria». Il riferimento anche all’Iran è chiaro e segna un cambio di atteggiamento del clerico sciita, che inizialmente aveva cercato di mediare fra la posizione governativa e le richieste dei manifestanti.

 

Le manifestazioni non sono però l’unico problema dell’Iraq. The Coming Emergency in Iraq (L’imminente emergenza in Iraq) è il titolo di un articolo di Foreign Affairs che identifica nelle cosiddette ISIS Families un potenziale fattore di destabilizzazione per l’Iraq del futuro. Queste famiglie includono circa 500.000 persone, fra cui molte donne e bambini, che vivono nei campi profughi nel nord-ovest del Paese fra Fallujah e Mosul, nelle zone un tempo controllate dal sedicente Stato Islamico. Nonostante si stima che il 90% di essi non avesse alcun legame con l’ISIS, i problemi riguardano tre aspetti: identificare il rimanente 10% che potrebbe essere stato legato al Califfato, garantire loro un processo equo e fare tutto ciò in breve tempo. Se infatti a oggi non rappresentano una minaccia, l’isolamento in campi senza servizi e in condizioni ai limiti della detenzione potrebbe presto trasformare i rifugiati interni in un pericolo per la sicurezza.

 

Queste cosiddette ISIS families dovrebbero costituire una priorità umanitaria e in materia di antiterrorismo per i Paesi occidentali. Eppure, come nota Shadi Hamid su The Atlantic, l’approccio delle ultime due amministrazioni americane all’antiterrorismo potrebbe non bastare. Le politiche impiegate da Obama e Trump hanno infatti puntato ad annullare la minaccia terroristica nell’immediato, non considerando però i fattori contestuali che hanno contribuito alla comparsa dei gruppi terroristici. In particolare, Hamid presta attenzione alle parziali ma innegabili capacità di governo dello Stato Islamico – che nell’analisi dell’autore non cancellano assolutamente le atrocità commesse dal gruppo. Fin da subito, infatti, il Califfato si è impegnato per costruire uno Stato, per fornire servizi e per garantire sicurezza. E l’incapacità del governo centrale di garantire la propria presenza minerebbe alle fondamenta ogni tentativo di sradicare il sedicente Stato Islamico.

 

L’accordo di Riyadh sullo Yemen

 

Alla presenza di Mohammad Bin Zayed, Mohammad Bin Salman e Martin Griffith, il governo yemenita riconosciuto dall’ONU, rappresentato dal Premier Abd Rabbuh Mansur Hadi e dal suo vice Ahmed Saeed al-Khanbashi, e il Southern Transition Council (STC), rappresentato da Nasser al-Khabj, hanno siglato un accordo per porre fine alle ostilità nel sud dello Yemen.

 

I negoziati, promossi dall’Arabia Saudita e iniziati già ad agosto a Jedda, si sono resi necessari dopo gli eventi di quest’estate – ricostruiti giorno per giorno da Al-Masdarnella zona di Aden e nelle regioni di Abyan e Chabwa, quando le forze secessioniste del sud, supportate dalle milizie filo-emiratine, entrarono in possesso del palazzo presidenziale e delle istituzioni, costringendo l’attuale governo a lasciare Aden.

 

Come evidenziato da AGSIW, l’accordo di Riyadh ha diverse implicazioni: riconsegna il sud del Paese al governo di Hadi, riconosce il STC come attore politico, invita alla formazione di un nuovo esecutivo che consideri anche le posizioni del STC, irrobustisce le forze militari incaricate di proteggere le istituzioni, suggerisce una maggior cooperazione in ambito economico, politico e securitario e impone il disarmo al STC. Per quanto riguarda gli obiettivi sul lungo periodo, l’accordo tocca anche i temi della gestione delle risorse naturali e del buon governo dello Stato.

 

Tuttavia, nonostante le ambizioni, restano parecchie perplessità circa l’efficacia dell’accordo, dovute soprattutto a quattro attori: gli houthi, che restano attivi e che minano la stabilità del Paese, nonostante siano emerse indiscrezioni circa un possibile canale di comunicazione fra il gruppo zaydita e Riyadh; i gruppi terroristici, come Al Qaeda nella Penisola Arabica e ISIS, che ha appena dichiarato fedeltà al nuovo “califfo”; alcuni ufficiali, come il Ministro dell’interno Ahmed al-Maysari, fortemente critici nei confronti dell’accordo; infine Islah, il partito di governo vicino ai Fratelli musulmani, inviso agli Emirati e oggetto di numerosi attacchi politici da parte del STC.

 

La sponsorizzazione saudita dell’accordo, definito un “momento di svolta” dall’agenzia di stampa del Regno, mette in luce come Riyadh preferisca oggi un approccio più diplomatico alla questione yemenita, dopo che gli oltre 100 miliardi di dollari spesi dal 2015 a oggi per le operazioni militari hanno portato solo a uno stallo. La decisione, più tattica che strategica, di sospendere una politica estera assertiva è anche analizzata da Cinzia Bianco per lo European Council on Foreign Relations. Come messo in luce sul Washington Post, gli Stati Uniti dovrebbero approfittare dell’apertura saudita alla soluzione diplomatica affinché il conflitto yemenita possa vedere una fine. Per fare ciò, tre sono le iniziative che dovrebbe intraprendere la Casa Bianca. In primo luogo, Washington deve mettere pressione all’Arabia Saudita per sospendere i bombardamenti e per impegnarsi in un cessate il fuoco con gli houthi. In secondo luogo, gli Stati Uniti devono sostenere un’iniziativa diplomatica promossa dall’ONU e che includa tutti gli attori in campo. Infine, il Congresso dovrebbe sospendere la vendita di armi al Regno qualora esso riprendesse gli attacchi.

 

L’Islam in Mali

 

La dimensione religiosa gioca un ruolo centrale in Mali, dove il 90% della popolazione è musulmana. L’attenzione degli osservatori internazionali è stata spesso posta su questo Paese a causa della crescente minaccia jihadista; una realtà effettivamente presente, come dimostra l’attacco – il secondo nell’ultimo mese – contro le forze di sicurezza nazionale dello scorso fine settimana. Approcciarsi alla realtà maliana solo attraverso le lenti dell’antiterrorismo contribuisce però a creare una visione distorta dello Stato e del ruolo che l’Islam gioca in esso. Un’analisi dello European Council on Foreign Relations esplora così le dinamiche religiose nel Paese, a partire da tre figure: Mahmoud Dicko, Chérif Ousmane Madani Haidara e Mohamed Ould Cheikh Hamallah.

 

Nella prima sezione si analizza la presenza dell’Islam in Mali, giunto nell’XI secolo (se non prima) e capace di dar vita a diversi imperi. Il XIX e XX secolo vedono invece la comparsa di alcune confraternite sufi, come la Qadiri e la Tijani, la cui diffusione è stata poi limitata dal potere coloniale francese. Negli anni ’30 e ’40 è sorto un movimento riformista di impronta salafita, presto affiancato da uno di orientamento sufi. Con l’indipendenza, il Paese, formalmente laico, ha visto la copresenza di politiche repressive e iniziative di apertura nei confronti dell’Islam.

 

Le sezioni centrali e finali dell’articolo si concentrano invece sulla religione nello spazio pubblico. L’attivismo delle organizzazioni religiose non va però pensato in termini di affiliazione ai partiti. Al contrario, i leader religiosi dialogano, e a volte si scontrano, con l’establishment politico. Parte della loro rilevanza deriva infatti dal non essere parte di un particolare gruppo politico, ma dal presentarsi come cittadini e figure legittimate religiosamente che costituiscono un interlocutore credibile per le alte sfere del potere. Inoltre, il grande successo che riscuotono fra la popolazione fa sì che i gruppi politici al potere scendano spesso a compromessi, in modo da non erodere il proprio bacino elettorale.

 

IN BREVE

 

Libano: la BBC ricostruisce gli eventi che hanno portato alle proteste e le dinamiche di questi moti, mentre il Middle East Eye si concentra su Tripoli, nuovo epicentro delle manifestazioni.

 

Iran: nella giornata di mercoledì sono riprese le attività di arricchimento dell’uranio nell’impianto di Fordow, con nuove turbine IR6, inizialmente vietate per dieci anni dall’accordo sul nucleare iraniano.

 

Emirati Arabi Uniti: come riporta la CNBC, 25 società, pubbliche e private, si uniranno per creare Edge, uno dei più grandi gruppi di difesa del Medio Oriente.

 

Boko Haram: African Arguments analizza le traiettorie del gruppo jihadista dopo la morte di Abu Bakr al-Baghdadi.

 

Stati Uniti: il Dipartimento di giustizia ha incriminato due ex dipendenti di Twitter con l'accusa di essere spie al servizio dell'Arabia Saudita. Una ricostruzione dei fatti e delle implicazioni su Formiche.

 
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