Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:55

Domenica la Casa Bianca ha fatto sapere che le forze americane di stanza nel nordest della Siria si sarebbero spostate, lasciando di fatto strada libera alle truppe turche per occupare parte del Kurdistan siriano. Secondo la NBC, la decisione sarebbe stata presa dopo una telefonata fra Trump ed Erdogan, in cui il Presidente turco si mostrava infastidito dal mancato incontro con l’inquilino della Casa Bianca a margine dell’Assemblea generale dell’ONU. In questa chiamata Erdogan avrebbe comunicato a Trump l’intenzione di occupare il nordest siriano per creare una zona cuscinetto e rimuovere i “terroristi” curdi. La mossa, giudicata discutibile anche da parte dell’apparato statale americano, ha spinto il Presidente a ritrattare la propria posizione in una nota successiva, in cui definisce i curdi «un popolo speciale e dei combattenti meravigliosi» e in cui minaccia pesanti ritorsioni contro la Turchia qualora Ankara avviasse un’operazione su vasta scala.

 

Gli esiti dell’operazione turca “Fonte della pace”, lanciata mercoledì nella zona di Tal Abyad e che ad oggi ha fatto registrare 277 morti fra le fila curde e una vittima fra quelle turche, sono ancora impronosticabili, soprattutto dopo che il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha respinto la richiesta di alcuni Stati europei di fermare l’iniziativa turca. Ciò che è certo è che un’azione di questa portata impatterà profondamente su tutti gli attori coinvolti, mossi spesso da interessi divergenti e obiettivi inconciliabili.

 

Innanzitutto, occorre considerare la Turchia, come fatto da Foreign Affairs, che ricostruisce il coinvolgimento turco in Siria dal 2011 a oggi, dall’opposizione ad Assad a quella contro i curdi, con le operazioni lanciate nel 2016 e 2018. Per Erdogan, l’attacco riguarderebbe la sua stessa sopravvivenza politica e permetterebbe di risolvere due questioni: quella dei curdi, definiti su molti media nazionali come “terroristi” e invisi ad Ankara per i legami con il PKK e per le istanze indipendentiste, e quella dei tre milioni e mezzo di rifugiati siriani, che verrebbero in parte ricollocati nel nord siriano, ma che sono ancora oggi usati come minaccia nei confronti dell’Europa.

 

Bisogna poi prestare attenzione ai curdi, come notato in questo focus dell’ISPI.  Le Forze democratiche siriane (SDF) hanno definito il riposizionamento americano «una pugnalata alle spalle», che comporterebbe uno sbriciolamento dell’esperimento del Rojava e una nuova ondata di sfollati interni, costretti a fuggire dall’invasione turca. Ma non tutte le SDF sono curde, come ben evidenziato da questo report del Wilson Center, che raccoglie le interviste di 391 combattenti. Fra il 50 e il 70% dei membri è infatti arabo, di fronte a un 30-40% curdo.  Il 50% di loro vede nella Turchia la principale minaccia; una percentuale che sale al 78% fra i curdi e che scende al 45% fra gli arabi. Il 70% degli intervistati pensa inoltre che l’ISIS sia stato sconfitto. Nonostante ciò, il 92,5% ritiene che gli Stati Uniti non dovrebbero andarsene: l’85% giudica la collaborazione con Washington positiva o molto positiva e l’87% pensa che la presenza americana sia indispensabile per la stabilità regionale. Molti analisti hanno osservato che l’azione turca potrebbe spingere i curdi ad avvicinarsi ad Assad, con cui è già attivo un dialogo a livello economico e commerciale. Dal report emerge però che oltre il 60% dei rispondenti non ritiene questa una strada percorribile. Come infatti nota Lorenzo Trombetta su Limes, l’invito del regime di Assad a «tornare nell’abbraccio della patria siriana» non tiene in considerazione che i due attori, curdi e regime, abbiano ormai perso gran parte della capacità di dirigere il processo politico o militare siriano, soppiantati da altri attori internazionali.

 

Ci sono poi gli Stati Uniti, come nota Daniele Santoro. Il via libera concesso da Trump alla Turchia non è infatti immune da alcuni rischi per Ankara. «L’espansione della presenza militare turca nell’est siriano», scrive Santoro, «rischia di irrigidire il confronto fra Ankara e Teheran», cosa che avvantaggerebbe gli Stati Uniti nel confronto con la Repubblica Islamica. Inoltre, la mossa riavvicinerebbe Erdogan e Trump, dopo gli attriti causati dall’acquisto turco del sistema difensivo S-400 di produzione russa. Infine, la decisione si iscrive perfettamente nella politica di disengagement adottata dall’attuale amministrazione americana. Certo è che, come scrive Susan Rice, ex Consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, su The Atlantic, qualunque opzione gli Stati Uniti scelgano (o abbiano scelto in passato) di adottare in Siria, essa comporta alcuni rischi.

 

Vi è la Russia, come sottolineato sia da ISPI sia da IAI. Da un lato, gli ultimi eventi costituiscono un’opportunità per la Russia di estendere la propria influenza in Siria, spingendo i curdi a cercare la protezione di Mosca. Da tempo infatti il Cremlino si è speso per favorire un avvicinamento fra alcuni settori curdi e Damasco. D’altra parte, i recenti sviluppi rischiano di costringere la Russia ad avvicinarsi maggiormente al regime siriano, allargando di conseguenza la distanza con la Turchia, con cui ha cercato di avvicinarsi, per esempio “benedicendo” la creazione della zona cuscinetto a nord.

 

E infine vi è l’Europa, come analizzato da Politico. L’Unione europea si è fatta trovare impreparata di fronte alla politica americana in Medio Oriente e al vuoto di potere andatosi a creare in Siria. Se da un lato l’Alto rappresentante Federica Mogherini ha chiesto alla Turchia di sospendere l’offensiva, dall’altro lo scarso peso politico dell’Unione permetterà a Erdogan di procedere indisturbato. Prima infatti di recuperare credibilità, l’Europa dovrà rivedere il sistema di gestione dei migranti e sottrarsi di conseguenza al ricatto turco. Solo allora, sfruttando anche le difficoltà economiche turche e le crepe nel monopolio sul potere di Erdogan, l’Europa potrà occupare una posizione politica di rilievo.

 

Le proteste in Iraq

 

Sono quasi due settimane che l’Iraq centro-meridionale è attraversato da proteste popolari. Come ricostruito da Foreign Policy, la causa contingente che ha spinto migliaia di manifestanti in strada è stata la rimozione di Abdul-Wahab al-Saadi da capo delle Forze antiterrorismo irachene. Al-Saadi, in prima linea contro l’ISIS, era stato in grado di dare vita a un’unità non confessionale, multietnica, nazionale e opportunamente addestrata dagli Stati Uniti. E sarebbe stata proprio la vicinanza con Washington a spingere il governo di Adel Ab Mahdi a rimuovere il Generale. La mossa sarebbe di conseguenza vista come il primo passo verso lo smantellamento delle forze militari nazionali a favore delle filo-iraniane Forze di mobilitazione popolari (PMF).

 

A monte delle proteste vi sarebbero però cause strutturali, come evidenziato in questo articolo dell’ISPI. La disoccupazione, soprattutto giovanile, la corruzione, le difficoltà di accesso ai servizi e una ripresa economica che fatica a decollare hanno contribuito al malcontento popolare. In più, il governo di Mahdi, prodotto fragile di un processo post-elettorale complesso, deve costantemente confrontarsi con ingerenze regionali (Iran e Arabia Saudita su tutti) e internazionali (Stati Uniti). Come messo in luce dal New York Times, se da un lato Mahdi, sciita, è stato in grado di riallacciare rapporti con le componenti sunnite e curde a livello governativo e di sviluppare l’industria petrolifera irachena, dall’altro l’Iraq manca ancora di molte infrastrutture e di un settore privato florido. Inoltre, un’economia non diversificata, una non omogenea distribuzione di energia elettrica e la scarsità di risorse idriche pongono dubbi sulle possibilità di crescita.

 

Di fronte alle proteste, le autorità hanno dapprima limitato l’accesso ai social network, hanno poi ordinato un coprifuoco generale e l’interruzione generale di internet. Infine, le forze di sicurezza hanno reagito violentemente, arrivando a sparare sulla folla. Il bilancio a oggi è di oltre 100 morti e diverse centinaia di feriti. Epicentro degli scontri è Sadr City, un sobborgo di Baghdad che ospita quasi tre milioni di persone. Qui i manifestanti hanno sfilato contro l’intero sistema politico iracheno, indipendentemente dalla loro etnia o confessione religiosa.

 

Va inoltre notato come le proteste abbiano fino ad ora risparmiato Bassora, tipicamente la prima realtà a vivere momenti di tensione. Secondo Chatham House, questa apparente calma è dovuta a una repressione sistematica della società civile. L’efficacia di questo modello risiede in due fattori. In primo luogo, a Bassora ci sono solidi legami fra le forze di sicurezza, le tribù locali e le milizie. Il risultato è un apparato coercitivo molto coeso e largamente diffuso. In secondo luogo, questo apparato è profondamente radicato nella società ed è di conseguenza in grado di agire in modo preventivo. Un esempio è rappresentato dagli omicidi degli attivisti Hussein Adel Madani e Sara Madani della scorsa settimana da parte di un commando armato non identificato.

 

Di fronte a questa escalation le autorità irachene hanno subito preso posizione: Mahdi ha detto che «non ci sono soluzioni semplici»; il clerico sciita Muqtada al-Sadr ha chiesto le immediate dimissioni dell’esecutivo; l’ayatollah al-Sistani ha esortato il governo ad ascoltare la voce dei manifestanti; infine, il Presidente del Parlamento Muhammad Halbusi ha promesso nuove riforme. Come evidenziato sempre dall’ISPI, se sul breve periodo le proteste non sembrano destinate a scemare e c’è il rischio di una crisi di governo, i problemi maggiori sono sul lungo periodo. Il malcontento popolare potrebbe essere infatti strumentalizzato da diversi attori interessati ad accrescere la propria influenza.

 

Il pericolo di “maccartismo islamofobo” in Francia

 

Giovedì scorso, Mickaël Harpon ha ucciso tre agenti e un impiegato all’interno della prefettura di Parigi. Il soggetto, convertitosi all’Islam 18 mesi fa e in costante contatto con ambienti salafiti, lavorava negli uffici della polizia dal 2003. La mancata segnalazione da parte delle autorità è stata definita dal Ministro dell’interno francese un semplice «malfunzionamento».

 

In seguito all’evento, il Presidente Emmanuel Macron ha parlato di costruire una «società di vigilanza […] contro l’idra islamista». Da un lato, nell’invito di Macron si riconosce una distinzione fra Islam e islamismo, come sottolinea il direttore del Consiglio francese di fede musulmana Abdallah Zekri. Marwan Muhammad, direttore del Collettivo contro l’islamofobia in Francia, nota però su La Croix che il rischio è quello di una «repubblica di denuncia in cui ogni musulmano diventa un potenziale sospetto».

 

Proprio a tal proposito, Rachid Benzine su Le Monde arriva a parlare di «maccartismo islamofobo», ovvero un clima di sospetto diffuso che attiva come risposta una sorveglianza e un controllo profondo da parte dello Stato. A tal proposito vanno registrate alcune dichiarazioni del Ministro dell’interno riportate da Huffington Post. Secondo Cristophe Castaner, i “segni della radicalizzazione” si vedrebbero già nella barba o nelle preghiere durante il mese di Ramadan. Per Benzine, ciò non è solo un’ingiustizia, ma un pericolo a due livelli: fratturerebbe la società lungo linee confessionali e rafforzerebbe i discorsi paranoici degli ideologi islamisti. Infine, vengono evidenziate alcune ipocrisie. In primo luogo, vi sono quei musulmani che si professano liberali e riformisti e poi cercano sostegno finanziario da correnti radicali o politicizzate. In secondo luogo, vi sono i circoli economici e politici, che da un lato denunciano il salafismo e dall’altro stringono accordi con l’Arabia Saudita per organizzare l’Islam di Francia.

 

D’altra parte, in uno studio che verrà pubblicato a gennaio, il politologo Bernard Rougier ha evidenziato la presenza di aree in cui l’unico discorso religioso presente è quello islamista o salafita. Rougier è arrivato a parlare di “progetto” in merito alle attività di alcune organizzazioni che mirano a veicolare una certa lettura dell’Islam. Ad esempio, alcune categorie, che hanno contribuito alla polarizzazione del discorso religioso in Medio Oriente, come sunniti e sciiti, hanno attecchito anche in Francia, arrivando così a ridefinire i caratteri identitari di chi frequenta certi ambienti.

 

IN BREVE

 

Tunisia: secondo i primi dati riportati da France24, Ennahda avrebbe ottenuto la maggioranza relativa (52 seggi su 217) alle elezioni legislative dello scorso fine settimana. Inoltre, il candidato alle presidenziali Nabil Karoui è stato scarcerato, riporta la BBC.

 

Algeria: come riporta l’Algiers Herald, oltre cento studenti sono stati arrestati martedì 8 ottobre durante le proteste, giunte ormai a oltre trenta settimane.

 

Iran: per la prima volta nella storia alle donne è stato concesso di entrare negli stadi per assistere a una partita della nazionale. La partita è stata storica anche per il risultato: 14-0 per la compagine iraniana contro la Cambogia.

 

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