La società dei Missionari d’Africa ha favorito un rinnovamento dell’approccio cristiano verso l’Islam

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:59

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I viaggi di Papa Francesco ad Abu Dhabi (Febbraio 2019) e a Rabat (Marzo 2019) non possono non interrogarci sulla profondità storica delle relazioni tra la Chiesa cattolica e l’Islam. Ma se il Papa argentino si è collocato nel solco di san Francesco, commemorando l’800° anniversario del suo incontro con il sultano ayyubide al-Malik al-Kamil a Damietta, un altro anniversario merita la nostra attenzione: il 150° anniversario della fondazione della Società dei Missionari d’Africa, comunemente noti come “Padri Bianchi”, e della creazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora d’Africa, conosciute come “Suore Bianche”. Entrambi, con la loro opera e la loro storia, hanno contribuito a rinnovare completamente l’approccio cristiano nei confronti dell’Islam e dei musulmani.

 

Fondata dall’arcivescovo di Algeri, Mons. Charles Lavigerie (1825-1892) – nominato Cardinale nel 1882 e “Primate d’Africa” nel 1884 – questa famiglia religiosa è stata uno dei principali vettori dell’evangelizzazione moderna del continente africano. Anche se la storia di quest’opera missionaria supera i confini del Maghreb, la relazione con l’Islam e con i musulmani del Nord Africa è rimasto uno dei suoi pilastri e costituisce il cuore del tema che tratterò, vale a dire il rapporto dei Padri Bianchi con l’Islam.

 

Ricca di un secolo e mezzo di storia, questa relazione è evoluta e ha avuto momenti diversi e contrastanti per la Società e i suoi membri. Per questa ragione, è innanzitutto necessario interrogarsi sull’eredità lasciata dal suo fondatore, il Cardinale Lavigerie. Poiché tale eredità non è stata priva di ambiguità, l’elaborazione di una posizione dialogica avvenne in realtà solo nella prima parte del XX secolo, dopo un importante periodo di maturazione. Con la fine della colonizzazione e a partire dal Concilio Vaticano II (1962-65), i Padri Bianchi si sono presentati sempre di più come i garanti del dialogo tra la Chiesa e l’Islam.

 

Un’eredità ambigua

La figura di Lavigerie è emersa nel difficile contesto della colonizzazione francese e della creazione di un nuovo contesto cattolico nel Maghreb. Fino al XIX secolo, le comunità cristiane indigene erano inesistenti in questa parte del Nord Africa e gli ordini missionari si dedicavano principalmente ai prigionieri cristiani[1]. Con la conquista dell’Algeria, tuttavia, un nuovo vento cattolico spirò dalle coste francesi. Il Vescovo di Marsiglia, per esempio, fu entusiasta dell’iniziativa del re borbone[2]. Nel 1830, si udirono toni da crociata nei circoli vicini a Carlo X, il quale nella conquista della reggenza di Algeri cercava un diversivo dal disastro sociale che il suo regno stava attraversando. Per esempio, nel testo dell’accordo di resa che indirizzò al bey di Algeri nel 1830, il comandante in capo delle forze francesi di spedizione affermava di voler rispettare il libero esercizio della religione musulmana mentre promuoveva la celebrazione di un Te Deum e dichiarava alle sue truppe:

«Avete riaperto con noi la porta del Cristianesimo in Africa»[3]

Presto, le moschee vennero trasformate in chiese. Nel 1835, con la diffusione del colera, «arrivano le suore […] e con dedizione si mettono al servizio dei locali. Tre anni dopo, ad Algeri viene nominato un Vescovo»[4]. Nel 1843, fu fondato il monastero di Nostra Signora di Staouëli; nel 1854, l’abate Dom François Régis (1808-1881) fu immortalato dal pittore orientalista Horace Vernet (1789-1863) mentre celebra messa davanti all’esercito imperiale francese in Cabilia[5]. Tuttavia, il Vescovo di Algeri, Antoine-Adolphe Dupuch (1800-1856), attraverso l’abate Suchet, stabilì dei rapporti di dialogo e d’amicizia con l’emiro Abd el-Kader, animato dal desiderio di convertirlo alla fede cristiana[6].

 

Durante il Secondo Impero (almeno nel corso della sua prima parte), le congregazioni religiose furono incoraggiate a stabilirsi in Algeria per rispondere al bisogno di istruzione. Ma davanti a una conquista lenta, difficile e discutibile, anche il potere politico e l’esercito mostrarono una certa esitazione e alcuni massoni espressero un rifiuto categorico delle missioni cristiane. In realtà, i circoli francesi del potere temevano anche che un proselitismo ostentato potesse provocare un rifiuto generalizzato della presenza francese da parte degli indigeni musulmani, come era avvenuto sotto il governo generale di Bugeaud (1840-1847). Seguì un periodo di tensione, con la fondazione nel 1868 della Società dei Missionari d’Africa da parte di Lavigerie, seguita dalla creazione del ramo femminile nel 1869, «l’ultimo evento rilevante della missione apostolica verso i musulmani prima del periodo interbellico»[7].

 

Arcivescovo di Algeri dal 1867 al 1892, fin dalla sua intronizzazione Mons. Lavigerie prestò particolare attenzione ai musulmani residenti nella sua diocesi. Egli possedeva una certa conoscenza della religione musulmana già prima di arrivare in Algeria, motivo per cui Joseph Cuoq disse che «di tutti i vescovi francesi, Lavigerie era sicuramente quello più preparato a occupare la cattedra di Algeri»[8]. Nel 1851, fu nominato direttore dell’Œuvre des Écoles d’Orient. In Siria, intrecciò i suoi primi legami con dei musulmani. Tra questi vi era l’Emiro Abd el-Kader, che arrivò a Damasco nel 1855 e protesse i cristiani durante le rivolte del 1860. Da questa prima esperienza orientale, Lavigerie trasse la seguente lezione: non poteva esserci conversione forzata dei musulmani, troppo radicati nella loro fede, anche se al suo arrivò ad Algeri scoprì che l’Islam algerino era sensibilmente diverso da quello praticato in Siria. Dovremmo dedurne che Lavigerie avesse abbandonato ogni velleità di proselitismo? Resta in effetti una certa ambiguità, perché durante le carestie o le epidemie – comuni in quel periodo in Algeria – gli orfani che furono accolti vennero anche battezzati. Furono anche creati due villaggi cattolici nell’area di Orléansville: Saint-Cyprien des Attafs e Sainte-Monique, con un chiaro riferimento al passato preislamico di questa terra nordafricana. L’azione caritatevole nascondeva quindi un’attività missionaria e del proselitismo? Per l’amministrazione coloniale francese, la quale temeva che il proselitismo potesse provocare disordini tra le popolazioni musulmane, la risposta fu ovviamente positiva: le conversioni dei musulmani al Cristianesimo dovevano essere evitate. Davanti all’ordine coloniale e alle critiche formulate dai Bureaux Arabes (Uffici coloniali arabi), Mons. Lavigerie fu obbligato a difendersi. Affermò quanto segue:

 

Invece di abbondonare gli indigeni, per paura di un fanatismo in gran parte immaginario, alla loro barbarie e al loro Corano, che li separa da noi con un abisso insuperabile, dovremmo assimilarli: i bambini, attraverso le scuole francesi; gli adulti, attraverso una predicazione prudente, preparata da un’ampia distribuzione dei benefici della carità[9]

 

L’Arcivescovo di Algeri, inoltre, portò lo scontro al livello della libertà della Chiesa: se i colonialisti avevano la libertà di intraprendere nuove attività, la Chiesa aveva la libertà «di praticare la carità verso i più poveri, come aveva fatto fin dall’inizio»[10]. È in questo spirito che egli ha fondato la Società dei Missionari d’Africa. Con la sua casa madre ad Algeri, questa nuova società si proponeva di inviare missionari non solo in Nord Africa ma anche al di là del Sahara che, ormai conquistato, permetteva alla Francia di collegare il Mediterraneo all’Africa Nera. Per la Chiesa Cattolica Romana, Lavigerie poteva ora pretendere di essere riconosciuto come “Primate d’Africa”.

 

Vicini alle popolazioni musulmane, i Padri Bianchi erano allo stesso tempo rispettati per le loro attività nel campo della sanità e dell’insegnamento e oggetto di diffidenza in quanto sospettati di voler battezzare i più deboli e isolati. Le prescrizioni del fondatore hanno tuttavia subito un’evoluzione. Per esempio, per quanto riguarda l’apostolato nei confronti dei cabili, Mons. Lavigerie proibì i crocifissi nelle aule, le preghiere e i segni della croce all’inizio e alla fine delle lezioni: raccomandazioni troppo difficili da seguire per i gesuiti, che in Cabilia vennero sostituiti dai Padri Bianchi nell’estate del 1873. Lavigerie invitò infatti i Padri Bianchi a «guardarsi da ogni tipo di proselitismo; a non parlare mai della religione ai cabili, fatta eccezione per i dogmi che essi riconoscono e per le loro antiche tradizioni cristiane; a limitarsi a curare gli ammalati e istruire i bambini», «a vincere i cuori», a praticare «il metodo storico» come un catechismo e sopratutto ad «adattarsi». Il dovere di adattarsi all’ambiente venne chiaramente presentato dal fondatore della Società dei Missionari d’Africa come «un vero ascetismo apostolico». Subito dopo veniva il dovere di studiare le lingue (arabo, berbero, etc.), per rispettare le culture e l’identità africane in tutta la loro diversità. In breve, si trattava di un nuovo atteggiamento verso le popolazioni colonizzate in un periodo in cui la tendenza dominante era più quella di assimilarle alla civiltà occidentale.

 

Non mancarono dei degni successori: Mons. Livinhac e Padre Voillard nell’Africa nera, per esempio. Ma gli orientamenti introdotti dal fondatore iniziarono a essere messi in pratica in modi abbastanza vari, per non dire contraddittori, che risultavano dalle sue stesse esitazioni. Questo spinse il Capitolo del 1912 a ribadire i principi del fondatore[11]. Durante questo incontro, Henri Marchal fu eletto come assistente del Superiore generale, e poi rieletto per lo stesso incarico fino al 1947. Non è dunque errato dire che fu soprattutto grazie alle direttive e al lavoro di questi altri missionari francesi che i Padri Bianchi fecero la scelta del dialogo con i musulmani.

 

L’elaborazione del dialogo

Ricoprendo una posizione di autorità e responsabilità all’interno della Società dei Missionari d’Africa, Henri Marchal fu obbligato a «tradurre in linee guida pratiche i principali orientamenti dati dal fondatore sia per quanto riguarda l’apostolato in Africa in generale che per le sue ripercussioni sul mondo musulmano in particolare»[12]. In realtà, quando la Chiesa cattolica iniziò a rendersi conto dell’impasse in cui si trovava il progetto missionario, Marchal sviluppò una vera e propria «tecnica di apostolato per i Musulmani»[13]. Se il trionfalismo del Cristianesimo occidentale si affermò in pompa magna nel 1930 durante il Congresso Eucaristico di Cartagine e in occasione del centenario della colonizzazione dell’Algeria, progressivamente emerse un modello alternativo di missione, illuminato dalla luce di astri spesso solitari: Charles de Foucauld (1858-1916) al crocevia della contemplazione, Louis Massignon (1883-1962) sulle strade dell’orientalismo e Jules Monchanin (1895-1957) al di fuori del mondo islamico.

 

Per Henri Marchal i momenti di crisi erano anche momenti favorevoli. Per questo egli ritenne opportuno recuperare le intuizioni del Cardinal Lavigerie[14]. Nelle Grandes Lignes de l’Apostolat des Pères Blancs en Afrique du Nord, pubblicato nel 1938, Marchal insistette, come Lavigerie prima di lui, sull’adattamento dell’apostolato alle persone a cui si rivolgeva la politica di conversione, sottolineando, in particolare, l’importanza della cautela dei missionari verso le autorità francesi e i musulmani. Per Henri Marchal, il cuore dell’apostolato consisteva nelle «verità essenziali» da rispettare più che nel sacramento del battesimo: era più importante e necessaria la «conversione a Dio» che quella al Cristianesimo. Secondo il suo libro Les rayons (1936) la missione funzionava anche mediante «irradiamento». Il primo obiettivo rimaneva la «defanatizzazione», non solo per mezzo di opere spirituali ma anche attraverso attività profane. Il missionario, col suo esempio, doveva mostrare di essere un «uomo di Dio», ciò che da un lato lo avrebbe distinto dai coloni e dalle autorità coloniali e, dall’altro, avrebbe attratto molti musulmani verso la fede cristiana. Henri Marchal elaborò quindi un metodo che seguiva la «predicazione di Cristo»: il missionario doveva innanzitutto essere accettato dalle popolazioni musulmane «nella logica dell’Incarnazione» piuttosto che impegnarsi esclusivamente nel cammino di conversione, preferendo l’abbandono della propria vita e della propria persona nelle mani di Dio e mettendo così in pratica un dogma comune all’Islam e al Cristianesimo. Alla fine, l’obiettivo della conversione al Cristianesimo come sistema religioso fu quasi del tutto abbandonato nel breve periodo.

 

Guidati da Henri Marchal, i Padri Bianchi furono quindi progressivamente portati a concepire la loro presenza in Nord Africa a fianco dei musulmani come una «relazione di accompagnamento», il cui fine non è convertire i musulmani, ma aiutarli a vivere un Islam aperto e «cristianizzato»[15]. La diffusione del metodo marchaliano fu in primo luogo osservata in occasione del Capitolo del 1926, quando Marchal riuscì a dar vita al progetto di un centro di studi arabi destinato alla formazione linguistica e culturale dei religiosi e delle suore che sarebbero andati a vivere nei territori musulmani. Creata il 18 novembre del 1926 a Tunisi, questa Casa dell’Unità e dello Sforzo indirizzava i suoi studenti alla conoscenza dell’arabo letterario e dialettale. I primi scaffali della biblioteca vennero dedicati a ciò che riguardava la vita tunisina, la religione musulmana e la letteratura araba[16]. Lo scopo, ad ogni modo, era l’incontro con l’altro più che un sapere erudito, che sarà invece prerogativa dei domenicani del Cairo. Tuttavia, rievocando i dubbi provocati da certe posizioni del Cardinal Lavigerie sulla questione delle conversioni, il progetto portato avanti da Henri Marchal incontrò la reticenza di alcuni suoi colleghi. Infatti, se la nuova creazione tunisina doveva essere un mezzo per guadagnarsi la simpatia della popolazione locale, i Padri Bianchi Roberto Focà e Joseph Sallam, che ne furono i primi responsabili, provocarono «polemiche deliberatamente apologetiche per mostrare ai tunisini la debolezza della loro fede musulmana»[17]. Questo approccio improntato alla disputa intellettuale non era condiviso da tutti gli studenti, specialmente dal giovane André Demeerseman. Inoltre, l’organizzazione del Congresso Eucaristico di Cartagine del 1930 accentuò i disaccordi all’interno della comunità. Nel gennaio del 1931, Henri Marchal riuscì a imporre André Demeerseman come direttore di quello che sarebbe diventato l’Institut des Belles Lettres Arabes (IBLA): un centro di ricerca che permise ai Padri Bianchi che vivevano in Tunisia di dar vita a una ricca storia di cooperazione accademica con le università tunisine, tra cui la Zeituna, promuovendo l’amicizia islamo-cristiana anche durante la lotta nazionale contro la Francia. Anche se Marchal rimase un uomo del suo tempo, quello del colonialismo, e non parlò esplicitamente di dialogo con i musulmani, fu lui a mettere la Società dei Missionari d’Africa su questa strada.

 

La garanzia del dialogo

A partire dalla fine degli anni ’50 e dalla decolonizzazione, il ruolo dei Padri Bianchi potrebbe essere descritto come quello di “garanti” della relazione dialogica con l’Islam. Eppure, il processo di decolonizzazione comportò scelte dolorose per la Società dei Missionari d’Africa, a partire dal trasferimento della Casa Madre da Algeri a Roma. Ma questo spostamento fu anche un’opportunità di scambio fruttuoso con altre famiglie missionarie impegnate nella relazione con l’Islam, non solo in Africa ma anche in Medio Oriente, Asia meridionale ed Europa. Gli incontri delle Giornate romane organizzati presso la Casa Madre della Società a partire dal 1965 permisero ai Padri Bianchi di aprirsi alla vastità e alla pluralità del mondo islamico[18]. È necessario specificare che anche all’interno della Società dei Missionari d’Africa coesistevano due diverse tradizioni, che spesso si ignoravano a vicenda: Nord Africa da una parte e Africa sub-sahariana dall’altra. Fu solo a partire dagli anni ’50-’60, con il miglioramento dei mezzi di comunicazione, che la conoscenza e le esperienze cominciarono davvero ad arricchirsi reciprocamente. Per esempio, Padre Jacques Lanfry (1910-2000), a capo di un nuovo ufficio informazioni sull’Islam all’interno della Società, fece molti viaggi in Africa orientale e occidentale per raccogliere notizie sulle diverse realtà islamiche ed esperienze di incontri tra i membri della Società e i musulmani.

 

Per i Padri Bianchi, inoltre, il trasferimento a Roma divenne l’occasione per prendere il timone del dialogo islamo-cristiano proprio mentre la Chiesa Cattolica entrava in un nuovo rapporto con le religioni mondiali. Sostenitori, come i Domenicani al Cairo, di un tomismo aperto, Padri Bianchi come Jacques Lanfry e Joseph Cuoq (1917-1986) lottarono sia contro gli eccessi appassionati del dialogo che contro le pericolose assurdità di un fondamentalismo cattolico anti-musulmano[19]. In poche parole, negli anni ’50 e ’60, i Padri Bianchi contribuirono alla definizione di un nuovo orientamento cattolico nei confronti dell’Islam. Nel 1964, la Scuola di lingua araba fu trasferita da Tunisi a Roma: collegato all’IBLA, il nuovo Pontificio Istituto di Studi Arabi (conosciuto come PISAI dal 1981) rafforzerà il ruolo e l’influenza della Società in tutte le questioni riguardanti l’Islam. Robert Caspar (1923-2017), per esempio, collaborò alla stesura del terzo paragrafo della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate, in cui la Chiesa Cattolica afferma di guardare ai musulmani «con stima»[20]. E Joseph Cuoq assunse la responsabilità della Sezione Islam all’interno del Segretariato vaticano per i Non-Cristiani, creato nel 1964. Collegata, a partire dal Concilio Vaticano II, a importanti compiti pastorali e pontifici, la passione per il dialogo di Padri Bianchi come Jacques Lanfry, Michael L. Fitzgerald ed Étienne Renaud divenne fonte di autorità.

 

Al suo ritorno in Francia nel 1977, Jacques Lanfry pubblicò degli straordinari studi sulla lingua berbera[21] e accompagnò le attività del Servizio delle Relazioni con l’Islam della Conferenza Episcopale Francese, che era stato fondato da un altro Padre Bianco dell’IBLA, Michel Lelong. Michael L. Fitzgerald (nato nel 1937) fu nominato Segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso nel 1987, e successivamente Presidente nel 2002.

 

La traiettoria di Ètienne Renaud (1936-2013) è ancora più rilevante, per diverse ragioni. Prima di tutto, egli è vissuto in contesti musulmani molto diversi: Algeria, Tunisia, Siria, Yemen, Tanzania, Sudan. In secondo luogo, ha fatto esperienza dell’ospitalità musulmana, soprattutto in Yemen, dove è stato accolto per otto anni da una famiglia yemenita. Inoltre, è stato Superiore della Società dei Missionari d’Africa tra il 1986 e il 1992. Infine, in momenti diversi della sua vita, ha assunto la direzione sia dell’IBLA che del PISAI. La sua esperienza personale può quindi illuminare la nostra comprensione delle relazioni che in epoca recente i Padri Bianchi hanno intrattenuto con l’Islam.

 

Renaud non ha mai nascosto il suo disprezzo verso una posizione cristiana ingenua sull’Islam. Ciò si riflette nella sua “Lettera” del 1987 in cui insisteva sulla necessità di combinare la comprensione dell’Islam con «l’esigenza del Vangelo»[22]. A partire dagli anni ’70, la crescente presenza di musulmani in Europa occidentale aveva trasformato il pluralismo religioso in una questione imponente e complessa, come sottolineato da Étienne Renaud in molti discorsi. Allo stesso modo, quest’ultimo non esitò non solo a esprimere il suo fastidio verso un islamismo rumoroso e fortemente mediatico, particolarmente evidente negli attacchi dell’11 settembre del 2001, ma anche a criticare la debolezza degli inviti alla moderazione da parte delle masse musulmane. Convinto che «con l’Islam, il dialogo teologico conduca a un punto morto»[23], continuò a cercare un contatto con l’Islam popolare, al fine di incontrare le persone più che un sistema: sull’isola di Pemba (al largo della costa della Tanzania) dove ha vissuto per diversi mesi nel 2001, a Khartum sulle orme di Mahmud Taha, nei quartieri settentrionali di Marsiglia alla fine della sua vita. Fu un bravo acquarellista: attento all’umanità delle persone che incontrava, radicato nella fede cristiana dei suoi genitori, Ètienne Renaud seguiva le curve sfaccettate dell’incontro umano, contro l’intransigenza da un lato e il mescolamento dall’altro, al servizio del dialogo e della comprensione tra cristiani e musulmani.

 

Avamposto della missione cristiana in terra d’Islam, soprattutto in Nord Africa, col tempo i Padri Bianchi sono diventati un’autorità, un riferimento all’interno della Chiesa cattolica nel duplice campo degli studi islamici e del dialogo islamo-cristiano. Oggi sono i garanti di una relazione articolata con l’Islam, mentre molti di loro continuano a coltivare in vari luoghi una critica benevola. Essi rappresentano pertanto uno dei pochi legami storici tra la Chiesa cattolica e l’Islam, necessario per raccogliere con maggiore serenità e audacia la sfida attualmente posta dall’incontro con l’Islam.

 

Durante i 150 anni di esistenza della Società, queste modalità diverse di impegnarsi nel rapporto con l’Islam hanno via via tracciato un’immagine dei Padri Bianchi come trait d’union, in seconda fila sul palcoscenico della storia, ma essenziali per procedere verso una migliore comprensione reciproca. Per esempio, i Padri Bianchi che ho menzionato sono stati molto raramente dei teologi di primo piano. Ma la loro esperienza di incontro umano ha alimentato intuizioni teologiche di rara intensità. Uomini del loro tempo, furono segnati dalla tragicità della loro epoca, sia come testimoni diretti che come vittime delle diverse crisi che hanno attraversato. Come il Cardinal Lavigerie, sconvolto dai massacri di Damasco nel 1860, molti Padri Bianchi hanno continuato a comprendere l’Islam e far avanzare il dialogo nel mezzo delle guerre mondiali, delle guerre di decolonizzazione e delle crisi post-coloniali. Inoltre, la loro azione è stata portata avanti nella luce di un’esperienza spirituale cristiana autentica. Molti di loro erano “uomini di Dio”, convinti che «una persona potesse rispondere alla propria vocazione solo se profondamente e spiritualmente attenta alla grazia di Dio che agisce nei cuori e li spinge al meglio»[24]. Nell’immagine del Cristo incarnato, Gesù di Nazareth, che viveva con gli uomini del suo tempo, tener conto della profondità umana diventò anche la condizione essenziale per uno «zelo illuminato» verso i musulmani, secondo l’espressione del Cardinale Lavigerie. La convivialità condivisa con i musulmani nel Sahara, in Cabilia, in Africa Orientale e altrove, le vere amicizie costruite da molti missionari con i musulmani in tutto il mondo consentono di mitigare impeti che rischiano sempre di scivolare verso l’ideologia, sia angelica che apologetica. Infine, il rapporto dei Padri Bianchi con l’Islam non può essere totalmente compreso senza il fondamentale contributo delle Suore Bianche dal 1869. Questa dimensione femminile richiama la centralità del progetto del Cardinale Lavigerie; porre la sua opera missionaria sotto lo sguardo di Nostra Signora d’Africa.

 

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[1] Si veda la seconda parte di Henri Teissier, Histoire des Chrétiens d’Afrique du Nord, in Henri Teissier (a cura di), Mémoire Chrétienne, Desclée, Paris 1991, pp. 65-114.

[2] Pierre Vermeren, La France en Terre d’islam. Empire colonial et religions. XIXe-XXe siècles, Belin, Paris 2016, p. 49.

[3] Alain Brissaud, Islam et Chrétienté, Treize siècles de cohabitation, Robert Laffont, Paris 1991, p. 163.

[4] Ivi, p. 164.

[5] Horace Verent, La première messe en Kabylie, 1854, Musée des Beaux-Arts di Losanna. Gli archivi del Monastero di Staouëli si trovano nell’abbazia di Aiguebelle.

[6] L’abate Suchet, rappresentante del Vescovo Dupuch, incontrò l’emiro Abd el-Kader in diverse occasioni per negoziare lo scambio di prigionieri. Alphonse-Michel Blanc offre una panoramica del loro incontro in Récit d’un officier d’Afrique, A. Mame et Fils, Tours 1892, pp. 118-124.

[7] Oissila Saaïdia, Clercs catholiques et Oulémas sunnites dans la première moitié du vingtième siècle, Geuthner, Paris 2004, p. 39. Sui Padri Bianchi si veda Jean-Claude Ceillier, Histoire des Missionnaires d’Afrique (Pères Blancs). De la fondation par Mgr Lavigerie à la mort du fondateur (1868-1892), Kathala, Paris 2008.

[8] Ivi p. 14.

[9] Alain Brissaud, Islam et Chrétienté, p. 165.

[10] Joseph Cuoq, Lavigerie, les Pères Blancs et les Musulmans maghrébins, Société des Missionnaires d’Afrique, Rome 1986, p.15.

[11] Oissila Saaïdia, Henri Marchal, technique d’apostolat auprès des musulmans, in Françoise Jacquin, Jean-François Zorn (a cura di), L’altérité religieuse, un défi pour la mission chrétienne 18e-20e siècles, Karthala, Paris 2001, p. 123.

[12] Jean-Marie Gaudeul, Le Mystère de la prédication du Christ : Henri Marchal (1875-1957), in Id., Disputes ? ou rencontres ? l’Islam et le christianisme au fil des siècles. Tome 1, survol historique, Pisai, Rome 1998, p. 344. Su Henri Marchal si vedda Gérard Demeerseman, Henri Marchal, 1875-1957. Une approche apostolique du monde algérien, Société des Missionnaires d’Afrique, Rome 2015.

[13] Secondo il titolo scelto da Oissila Saaïdia, Henri Marchal, technique d’apostolat auprès des musulmans, in Françoise Jacquin, Jean-François Zorn (a cura di), L’altérité religieuse, pp. 121-137.

[14] Ivi, p. 129.

[15] Charles Mercier, Le dialogue islamo-chrétien organisé en France de la fin des années 1960 à nos jours, tesi non pubblicata, Nanterre 1999, p. 13.

[16] François Dornier, Les Catholiques en Tunisie au fil des jours, Imprimerie Finzi, Tunis 2000, pp. 543-555.

[17] Jean Fontaine, Points de suspension…, Éd. Arabesques, Tunis 2008, p. 15.

[18] Maurice Borrmans, Les “Journées Romaines” et le dialogue islamo-chrétien, «Islamochristiana», n. 30 (2004), pp. 111-122.

[19] Dominique Avon, Les Frères prêcheurs en Orient. Les dominicains du Caire (années 1910-années 1960), Le Cerf, Paris 2005, p. 613.

[20] Su Robert Caspar si veda Maurice Borrmans, Quatre acteurs du dialogue islamo-chrétien, Arnaldez, Caspar, Jomier, Moubarac, Vrin, Paris 2016.

[21] J. M. Dallet, Dictionnaire Kabyle-Français, Etudes Ethno-linguistiques, Paris 1982.

[22] Étienne Renaud, Lettre du père général, «Petit Écho», n. 4 (1987), pp. 208-209.

[23] La Croix, marzo 2008.

[24] Gérard Demeerseman, Henri Marchal…, p. 76

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