Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:10

Tra le voci che si sono levate per commentare il rovesciamento del Presidente egiziano Morsi non potevano mancare quelle dei partiti e movimenti islamisti che, al pari dei Fratelli musulmani in Egitto, hanno beneficiato del processo innescato dalle rivolte e dalle rivoluzioni del 2010-2011. Sia il partito della Giustizia e dello Sviluppo in Marocco che al-Nahda in Tunisia sono prontamente intervenuti per condannare la destituzione di Morsi e scongiurare scenari simili a quello egiziano. Il partito islamista marocchino, impegnato in una crisi di governo, si è limitato a dichiarazioni di circostanza, affermando l’illegittimità della destituzione di Morsi ma segnalando allo stesso tempo le differenze tra il caso egiziano e quello marocchino. Al-Nahda e il suo presidente Rashid al-Ghannoushi si sono esposti maggiormente, prima con un comunicato, e poi con una lettera con cui l’influente leader islamista ha invitato gli egiziani, definiti «nobili discendenti» dei conquistatori islamici dell’Egitto, a continuare a manifestare per «ripristinare la legittimità, in modo che il presidente eletto, il presidente Morsi, continui a svolgere il compito che il popolo egiziano gli ha affidato». Tali manifestazioni di solidarietà suscitano più di un interrogativo sul rapporto tra il fallimento degli islamisti egiziani e le esperienze in corso in altri Paesi e più in generale sulla capacità dei soggetti islamisti di guidare la transizione verso la democrazia. Ovviamente la differenza tra il contesto egiziano e quello degli altri Paesi impedisce di tracciare facili parallelismi. In Egitto il Partito della Libertà e della Giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani, ha monopolizzato la scena politica nazionale in forza dei suoi risultati elettorali, della temporanea acquiescenza dell’esercito, della frammentazione e dell’inefficacia dell’opposizione parlamentare. Gli islamisti marocchini e tunisini hanno invece dovuto misurarsi con situazioni più articolate: necessità di formare governi di coalizione (né il Partito della Giustizia e dello Sviluppo né al-Nahda hanno la maggioranza assoluta in Parlamento) e di agire in un quadro istituzionale e sociale più vincolante, dominato in Marocco dalla presenza della monarchia e in Tunisia dall’eredità del regime di Bourguiba e dall’ostilità di ampi settori della società civile. Sull’ispirazione ideale tuttavia le differenze, soprattutto nel caso degli islamisti egiziani e tunisini, sono minori. Sia i Fratelli musulmani che al-Nahda hanno voluto presentarsi come forze “moderate”, capaci di contribuire al processo di riforma democratica in virtù della loro identità islamica. Ma proprio il nesso tra democrazia e Islam, nel quale tanti osservatori avevano visto l’apertura di una fase politica nuova per il Medio Oriente, è risultato problematico. Gli islamisti lo intendono infatti come un’identificazione tra i due elementi, in cui il primo (la democrazia) non ha una legittimazione autonoma, ma la ricava direttamente dal secondo (l’Islam, nella sua interpretazione islamista). Per questo motivo Ghannoushi può scrivere che il ritorno di Morsi al compito «che il popolo egiziano gli ha affidato» rappresenterebbe «una vittoria non solo della volontà egiziana ma anche dei principi della democrazia, della libertà e dell’Islam», senza preoccuparsi di fare i conti con i clamorosi insuccessi del presidente egiziano. La democrazia finisce così per coincidere con il processo che consente a un popolo di esprimere un governo islamico (islamista) e alle formazioni islamiste di rivendicare un ruolo egemone non solo in virtù del loro peso elettorale, ma anche della loro supposta capacità di interpretare l’identità profonda della società. In questa prospettiva, la deriva autoritaria delle forze islamiste non è l’esito di una degenerazione della loro azione politica, ma è intrinseca alla loro natura, e il suo contenimento non dipende da elementi interni ma solo dall’efficacia di forze esterne (l’esercito e la piazza in Egitto, la società civile in Tunisia). Come ha dimostrato Massimo Borghesi nel suo recente Critica della teologia politica, la democrazia non richiede l’esclusione dei soggetti religiosi dalla sfera pubblica (anzi può beneficiarne) ma esige che il momento teologico non totalizzi il momento politico, a maggior ragione in società che non hanno più una visione condivisa dei contenuti e delle implicazioni della fede. Ciò pone un problema molto serio alla transizione dei Paesi arabi post-rivoluzionari. Il rapporto tra partiti islamisti e democrazia è infatti paradossale. Da un lato essi non sono in grado di contribuire all’edificazione di un sistema autenticamente democratico. Ma dall’altro nessun sistema sarà veramente democratico se escluderà i soggetti che si sentono rappresentati dai partiti islamisti. L’Islam politico è già fallito (su questo Oliver Roy ha ragione da vent’anni), ma il suo superamento ha bisogno di attori politici che sappiano adeguatamente riformulare il rapporto tra religione e politica senza passare per scorciatoie secolariste o “diversamente-fondamentaliste” (i salafiti).