Gli sciiti nel contesto pluriconfessionale: il caso del Libano/3. Non si possono trascurare i numeri e le loro implicazioni, ma se vengono considerati espressione esauriente della società, lo Stato si frammenta per quote proporzionali, perde le ragioni della coesione e lo slancio unitario esponendosi alle influenze esterna

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:07

In Libano, come in altri paesi caratterizzati da pluralità religiosa, confessionale ed etnica, con divisione completa o parziale in minoranze e maggioranze, non si possono trascurare i numeri e le loro implicazioni. Allo stesso tempo non è nemmeno utile affidarsi soltanto ai numeri, considerandoli espressione esauriente della società e dello stato. Così facendo infatti lo stato diventa un insieme di quote e di retribuzioni da assegnare proporzionalmente alle diverse comunità ed etnie. Questo modo di vedere espone i numeri alle influenze esterne collegate a comunanze etniche, religiose e confessionali e alle ambizioni che gli attori stranieri nutrono, a spese delle ambizioni nazionali dei membri delle altre comunità locali. Un tale percorso, che parte dai timori di egemonia di una parte sull’altra per la legge del numero, se spinto al massimo, porta necessariamente a distruggere ogni entità nazionale comune e trasforma il paese in patrie o entità. A nulla giova allora la forma d’indipendenza (se così si può dire) che tali fazioni riescono a realizzare separandosi e conseguendo un’unità interna. Essa infatti prescinde da quella giustizia e crescita e da quel progresso che le varie parti erroneamente ritengono possa realizzarsi soltanto con la separazione. Forse gli esempi più eclatanti sono la secessione del Pakistan dall’India prima e la secessione del Bangladesh dal Pakistan poi: le medesime motivazioni che hanno condotto alla prima separazione possono produrre separazioni successive e portare alla nascita di sub-entità artificiali che hanno la sembianza di nazioni, così come la confusione che regna in esse potrebbe essere scambiata per indipendenza. Si può affermare con certezza che in Libano non c’è più alcun progetto esterno relativo ai cristiani e si dovrebbe approfondire la questione anche per quanto riguarda il passato. Vi era invece certamente un progetto interno portato avanti dai maroniti, ma i successivi sviluppi del progetto concorrente, di tipo nazionale e con elementi di sinistra, li hanno convinti ad abbandonare il loro progetto particolare per aderire a quello nazionale generale. Era quest’ultimo comunque a giustificare ai loro occhi e a quelli di altri al di fuori delle loro file anche il loro progetto specifico. L’adesione al progetto nazionale può da sola illuminare la pagina nera che ha macchiato la storia maronita e che trova la sua origine in scommesse basate su emozioni e sentimenti ostili piuttosto che sull’analisi dettagliata della realtà e delle possibilità libanesi. Allo stesso modo è possibile affermare che non esiste alcun progetto esterno sunnita, a favore dei sunniti libanesi, e ci si può persino domandare se sia mai esistito in passato. Tutte le azioni intraprese dagli arabi sunniti e volte a sostenere la comunità sunnita in Libano andavano infatti in tutt’altra direzione. Il supporto nasseriano pan-arabo è passato attraverso i sunniti ma non si è fermato a essi. La consapevolezza che Gamal Abd al-Nasser aveva della particolare situazione e composizione del Libano e del suo ruolo singolare gli impedì di procedere in direzione panaraba ed egli evitò di arrischiarsi in nuovi tentativi dopo quello di Sarraj [1]. Da quella prima avventura Nasser aveva tratto beneficio nella sua politica di contrasto del Patto di Bagdad (1954), analogo mediorientale della Nato; l’equilibrio con Washington fu poi raggiunto nel 1958 con l’elezione a presidente libanese di Fouad Chehab. Quanto all’Arabia Saudita, essa, al pari dei sunniti libanesi, si sentiva sicura della propria posizione all’interno dell’equazione libanese, fatta di pesi e contrappesi. L’Arabia Saudita confidava nel fatto che i paesi sunniti, numericamente, finanziariamente e politicamente egemoni, avrebbero difeso la loro posizione e che i sunniti libanesi si sarebbero accontentati di ricevere il sostegno necessario a garantire la continuità della loro presenza e delle loro attività. Ciò richiedeva aperture, dell’Arabia Saudita in particolare e degli arabi in generale, verso i cristiani, senza preclusioni, e poi verso gli sciiti, sfruttando la scelta dell’Imam Sadr di privilegiare il dialogo e la comprensione reciproca con l’Arabia Saudita piuttosto che la discordia. Furono perciò gettate le basi del dialogo, ma l’edificio rimase incompleto, nonostante gli equilibrati sforzi dell’imam sciita Shamseddin (deceduto nel 2000), volti a edificare la casa della comprensione reciproca e della collaborazione con Riyadh e con le altre capitali arabe sunnite, senza eccezione alcuna. Peraltro, questo secondo orientamento rimane vivo in un movimento di personalità religiose che hanno vissuto l’esperienza dell’imam Shamseddin e hanno condiviso molte delle fasi del suo pensiero e delle sue idee. Durante il periodo compreso tra la guerra del luglio 2006 [2] e il 7 maggio 2008 [3], l’Arabia Saudita ha tenuto un discorso rivolto a tutte le componenti della società libanese e comportamenti pratici caratterizzati da una dose ridotta di discriminazione. Tutti hanno potuto vedere prendere forma ed espressione un inizio di comprensione reciproca con gli sciiti, che però ben presto ha conosciuto intoppi, si è scontrato con varie difficoltà e alla fine si è arrestato. Tra moderazione e egemonia Questa battuta d’arresto è stata spiegata da alcuni come conseguenza del modo in cui l’Arabia Saudita aveva intrecciato relazioni che, a differenza di quanto è accaduto, avrebbero richiesto una maggiore riflessione. Le parti politiche in questione potevano vantare un passato positivo, anche se disputato, ma soffrivano di un’incapacità nel discorso, nei modi e nei mezzi del dialogo, finalizzati a costruire le loro relazioni sul campo. Esse presentavano una parvenza moderna ma una sostanza arcaica che può esser ricondotta al clientelismo politico (ovvero la concessione di servizi in cambio della fedeltà), molto simile al clientelismo che caratterizza a tutt’oggi le fazioni politiche libanesi, di governo e d’opposizione. Allo stesso tempo, l’altra proposta sciita richiedeva una maggiore pazienza, più ponderazione e unità; monopolio e frammentazione ne hanno invece accresciuto la debolezza. C’è comunque da dubitare sulla possibilità e fruttuosità della proposta sciita moderata e aperta al dialogo, in alternativa alla corrente dominante in ambito sciita, le cui forze, esterne ed interne, mirano sempre più all’egemonia attraverso un monopolio implicito e alleanze pretestuose che generano dipendenza. In realtà, la cosa migliore sarebbe stata comunque un progetto nazionale senza alcuna denominazione confessionale, che comprendesse tutti e proteggesse tutti per mezzo di tutti. In altre parole, in Libano i sunniti non sono costretti a riferirsi ai Paesi esteri sunniti se non molto limitatamente e a loro volta questi Paesi esteri sunniti non si sentono in obbligo di offrire ai libanesi sunniti un progetto specifico. Onestà vuole che si riconosca che non vi è alcun progetto arabo sunnita per i libanesi sunniti. Quello che alcuni potrebbero definire “progetto” altro non è che un appoggio a movimenti che sostengono la presenza e il ruolo sunnita, quando soffra di accidentali fenomeni di debolezza causati dalle più recenti dinamiche confessionali che possono far leva su risultati tangibili (la liberazione da Israele) e godono di grandi possibilità finanziarie e politiche. Quanto ai drusi, Kamal Jumblatt [4] si alleò da subito con la corrente nazionalista panaraba e con Gamal Abd al-Nasser fin dal momento in cui, all’inizio del 1956, guidò l’opposizione al Patto di Baghdad. In seguito Jumblatt partecipò attivamente agli eventi che nel 1958 aprirono la strada alla presidenza di Fouad Chehab, in ossequio al principio “né vincitori né vinti” e con il completo accordo statunitense-egiziano. Dopo la scomparsa di Gamal Abd al-Nasser, che in Egitto presentava Kamal Jumblatt come un “compagno di battaglia”, secondo l’espressione usata nel 1976 da Anwar Sadat durante l’inaugurazione del Parlamento egiziano alla presenza di Jumblatt stesso, l’Arabia Saudita acquisì un ruolo più forte, più attraente e attivo. È noto che il re ‘Abd Allah Ibn ‘Abd al-‘Aziz mostrò fin da giovane, prima ancora di essere nominato erede al trono, segni di apertura nei confronti di Kamal Jumblatt. La loro amicizia raggiunse una profondità insolita, i cui effetti continuano nel tempo nella relazione tra Walid Jumblatt e il sovrano saudita e più in generale l’amministrazione saudita. Il legame profondo e problematico di Kamal Jumblatt con la resistenza palestinese ebbe delle ripercussioni su Walid Jumblatt e gli fece riprendere ogni volta un rivoluzionarismo ereditato o risvegliato dopo una sonnolenza passeggera. A volte Walid Jumblatt sembra aver rinunciato al legame di vecchia data con Fatah e Abû ‘Ammâr [‘Arafat], poi torna sulle sue posizioni come se non si fosse espresso e non avesse fatto nulla. In questo era aiutato dall’affetto persistente di cui lo circondavano i sostenitori di Fatah e dalla tendenza a lasciar perdere le divergenze di dettaglio per attenersi ai principi comuni. Malgrado tutto, i drusi non si sono proposti, neppure una volta, come portatori di un progetto arabo esterno. Partecipavano piuttosto, insieme ad altri, a programmi che univano elementi esterni e interni, comunque sensibili alla loro condizione minoritaria che li costringe a una sorta di ondeggiamento politico in funzione delle varie priorità druse, regionali, arabe e mediorientali. Tale fatto indica che la loro posizione è più fragile rispetto alla posizione delle altre comunità, ciò che li costringe nella loro politica generale ad allontanarsi dall’ideologia e ad aderire al pragmatismo. Al contempo essi sono stati costretti a una certa dose d’ideologia all’interno della comunità drusa al fine di proteggerne la coesione e alleggerire l’incidenza dei cambiamenti ideologici, culturali e religiosi. Questo ha fatto sì che i drusi apparissero un complesso piuttosto singolare di ideologia e di dottrine al contempo religiose e laiche. Così essi hanno guardato con favore a ogni progresso del movimento revivalista islamico, che tuttavia ha finito per proporre una politica religiosa che li spaventa. Allo stesso modo ammirano e temono al tempo stesso la lotta di Hamas contro Israele; ammirano e temono il movimento Amal di Nabih Berri, fino a giungere addirittura allo scontro armato. Ammiravano l’Iran, poi è prevalsa in loro la paura, poi sono tornati a fargli la corte. Ammirano e temono profondamente Hezbollah con il quale sono tornati rapidamente ad allearsi di fronte al pericolo incombente per la comunità e i suoi simboli. A un certo punto, nella storia moderna, hanno anche ricercato un’alleanza con Israele, come del resto hanno fatto molti altri, per poi ritornare allo spirito militante. È noto che Walid Jumblatt ha cercato di ampliare il fossato tra i drusi palestinesi e l’amministrazione e la politica israeliana. Si è impegnato con entusiasmo in questo progetto e ha conseguito alcuni obiettivi, ma alla fine hanno prevalso delusione e amarezza. Maggioranza e minoranza A lungo termine, per la sopravvivenza del Libano e di tutte le sue componenti su un piano di parità, sulla base del principio che l’eliminazione o la marginalizzazione o la confisca o la frammentazione di una di esse costituirebbe un attentato all’insieme delle ragioni che giustificano l’esistenza del Paese, è necessario subordinare i numeri alle idee e ai valori propri di quel ruolo nazionale che le maggioranze sono chiamate ad assumere. In tal modo il Libano potrà conservare la sua condizione particolare, utile a sé e agli altri, e preservare la sua missione che è quella di opporsi alle periodiche operazioni di disgregazione, creando armonia tra le comunità. Tuttavia le attuali maggioranze sono a tal punto rissose, divise e nemiche, che ci si può chiedere se davvero possano ambire a essere maggioranze comprensive. La subordinazione al progetto nazionale dovrebbe fungere da premessa per affidare alle minoranze un ruolo superiore al loro numero, evitando di provocarle con tentativi di assorbimento che le trasformano in bombe ad orologeria, ben più potenti di quanto il loro numero farebbe sospettare. Fossilizzarsi sul rafforzamento del numero è una via molto pericolosa per tutti; non è possibile curare gli aspetti negativi scavalcando il Libano come Stato e considerando invece le singole comunità, arabo-cristiane, sciite (arabe e regionali) o sunnite (arabe e regionali). Comporre i dualismi in modo arbitrario è molto negativo per le due parti coinvolte e per gli altri attori in scena, come peraltro si è già visto. La soluzione è stipulare accordi intra-comunitari e inter-comunitari e infine tra le comunità e il loro retroterra straniero. In tal modo il Libano tornerà a diffondere il suo messaggio, espressione della particolare cultura societaria che lo distingue, a beneficio dei Paesi plurali minacciati dalla divisione e dal conflitto. La scena politica libanese ha visto, negli ultimi mesi, la trasformazione della maggioranza al potere in minoranza di opposizione in seguito al rovesciamento provocato da Hezbollah. Ciò ha costretto i suoi partner nelle forze dell’8 marzo, provenienti da tutte le comunità, a prendere il potere in quasi tutte le istituzioni, con il pieno accordo di Siria e Iran. Questo ha spinto molti osservatori a pensare che gli eventi possano condurre a una crisi politica e di governo soffocante. Il Libano ha bisogno di tornare in tempi brevi alla logica del dialogo e della comunione. Non bisogna esagerare la portata dei cambiamenti in corso in Tunisia e in Egitto, in termini di forza e vitalità iraniana, poiché gli esperti sostengono che il risveglio dell’Egitto ridimensiona per forza di cose il ruolo dell’Iran. Un’intesa tra Egitto e Iran andrebbe a beneficio di entrambe le parti e potrebbe costituire un vantaggio anche per il Libano, se Hezbollah promuoverà la concordia nazionale piuttosto che insistere nella ricerca dell’egemonia e in una politica ambigua.


[1] ‘Abd al-Hamȋd Sarrâj (n. 1925 a Hama in Siria) ebbe un ruolo di primo piano durante il breve tentativo di unione di Egitto e Siria nella Repubblica Araba Unita (1958-1961). Dopo la fine dell’esperimento politico fu imprigionato. Vive oggi in esilio al Cairo (Questa e le successive note sono del traduttore). [2] Nel luglio 2006 si ebbe il confronto armato tra Hezbollah e Israele. [3] Il 7 maggio 2008 ha visto l’inizio delle ostilità le milizie di Hezbollah e alleati da una parte, sunniti e drusi dall’altra, nella capitale libanese. [4] Leader storico dei drusi (1917-1977), sostenitore di una politica nasserista, nazionalista e filo-palestinese. Suo figlio Walid Jumblatt (n. 1947) è il leader del Partito Socialista Progressista.

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