L’esperienza nella penisola araba di monsignor Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale. I rapporti con l’Islam e le lezioni per il Cristianesimo d’Occidente
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:03
Recensione di Paul Hinder, Un vescovo in Arabia. La mia esperienza con l’Islam, EMI, Verona 2018
Quando si pensa agli Emirati Arabi Uniti, come a qualsiasi altro Paese del Golfo, si tendono a immaginare società tendenzialmente omogenee dal punto di vista religioso, o al limite segnate da divisioni tutte interne all’Islam, come quella tra sunniti e sciiti, o a quelle rappresentate dalle diverse anime dell’Islam sunnita. Il libro Un vescovo in Arabia di monsignor Paul Hinder permette di correggere questa percezione: se i “nativi” sono nella quasi totalità musulmani, è altrettanto vero che in alcuni luoghi, e negli Emirati in particolare, la presenza cristiana è un dato anche numericamente significativo.
Dal 2005 Paul Hinder è vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, una giurisdizione che, dopo una riorganizzazione avvenuta nel 2011, comprende oggi Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen. La narrazione delle vicende storiche del vicariato e una prima introduzione alla realtà del luogo è affidata al giornalista tedesco Simon Biallowons, che descrive gli Emirati come «una terra dove si vede un lusso incredibile unito allo spreco più sfacciato e che in qualche modo è ancora più lontana dall’Europa delle sei ore di aereo che servono per arrivarci» (p. 18-19). Biallowons non indugia e immediatamente cita monsignor Hinder per riassumere la realtà emiratina e la situazione dei cristiani, siano essi i pochi westeners o i molti che arrivano da Filippine e India: «Qui non c’è libertà religiosa, questo deve essere chiaro. Eppure godiamo di una libertà di culto assai ampia. E, in ogni caso, qui c’è dialogo. Dialogo tra le culture e anche tra le religioni» (p. 18).
Inizialmente il libro ripercorre le vicende della Chiesa nella penisola arabica, nelle quali svolse un ruolo decisivo un missionario cappuccino, Monsignor Guglielmo Massaia, al tempo vicario apostolico dei Galla, in Etiopia. Già nel 1851, descrivendo la realtà di Aden, nell’attuale Yemen, il futuro cardinale metteva in luce le stesse caratteristiche che oggi contraddistinguono il Cristianesimo nel vicariato di Paul Hinder: «In questo momento ci sono a Aden oltre mille cattolici, ma di tante e tali nazionalità distinte da richiedere l’opera di almeno tre sacerdoti» (p. 36). Dopo Monsignor Massaia arrivava nella penisola araba padre Lewis Gonzaga Lasserre e, nel 1858, il Vaticano affidava ufficialmente la prefettura di Aden ai cappuccini, «che già da tempo erano gli animatori principali dell’evangelizzazione di queste regioni» (p. 37), un affidamento ancora in vigore con Paul Hinder, anch’egli cappuccino.
Un’altra data chiave nello sviluppo della chiesa del Golfo è il 1937: in quell’anno Giovanni Battista Tirinnanzi, «il padre della chiesa degli Emirati», venne nominato vicario apostolico d’Arabia, dandosi da fare «soprattutto per portare il Cristianesimo sulle sponde del Golfo Persico» (p. 39). Nel 1938, poi, lo storico evento: l’emiro del Bahrein regalò ai missionari cappuccini alcuni terreni, su cui fu costruita la prima chiesa cattolica nel Golfo Persico, consacrata al Cuore di Gesù. Il Bahrein ricopre da quel momento un ruolo chiave nello sviluppo della Chiesa del Golfo, anche se nel 1967 la sede ufficiale del vicariato viene trasferita ad Abu Dhabi.
Così descrive Paul Hinder la realtà cattolica dei territori sui quali esercita la sua cura pastorale: «qui nel Golfo si va espandendo una chiesa giovane e vitale alimentata dagli immigrati, che soffre […] di carenza di strutture. La nostra chiesa conta il 50% di tutti i cattolici del Medio e Vicino Oriente. Fedeli di oltre 100 nazioni e innumerevoli lingue e riti. I fedeli di rito latino pesano per circa l’80%, il restante 20% appartiene a diversi riti cattolici d’Oriente» (p. 40). Ma Un vescovo in Arabia non si limita a descrivere la realtà ecclesiale locale. Al contrario, ampio spazio è dedicato al racconto personale di come Monsignor Hinder ha vissuto la nomina a vicario apostolico: un cappuccino originario della verde regione svizzera della Turgovia, che dopo il primo impatto con la realtà emiratina si ritrova a pensare «io qui non potrei e non vorrei vivere. Troppo caldo, troppa polvere, forse troppo estraneo. Troppa sabbia e cemento, niente verde, niente natura» (p. 47). Ma che alla fine, quando il cardinal Sepe, al tempo prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, gli comunica la decisione di Benedetto XVI di nominarlo vicario apostolico nel Golfo risponde soltanto «sia fatta la tua volontà» (p. 61).
Comincia così un viaggio che porta Monsignor Hinder in Yemen, Oman, Arabia Saudita, oltre che negli Emirati sede del vicariato. I cattolici che vivono in questi Paesi si trovano a «operare in stati con Costituzioni decisamente islamiche e le società che ci circondano sono altrettanto fortemente islamiche. Al tempo stesso la percentuale dei cattolici cresce, non solo costantemente ma anche parecchio in fretta» (p. 68-69). Un dato che pone un problema pratico per i governanti, spiega il vescovo: le istituzioni «sanno di non poter trascurare del tutto le necessità spirituali degli uomini, non foss’altro per il fatto che ne hanno bisogno come forza lavoro» (p. 69). Naturalmente questo avviene con forme e sfumature diverse a seconda dei Paesi, lungo una gamma che va dall’Arabia Saudita, dove le messe devono essere celebrate in segreto, all’effettiva libertà di culto vigente negli Emirati Arabi e in Oman.
Lo sguardo di Hinder è caratterizzato dal costante paragone con l’affaticata realtà del Cristianesimo europeo. Il paragone si esprime ad esempio osservando il differente ruolo dei laici: nelle parrocchie del vicariato «siamo al punto che può non esserci neppure un sacerdote per amministrare i sacramenti e ciononostante la chiesa vive, perché ci sono uomini e donne che fanno catechesi, che danno la comunione, che cantano nel coro, che preparano i cresimandi. Questa è una chiesa del domani, che ha un futuro perché ha le persone» (p. 76). Un osservatore occidentale che partecipasse una delle tante messe che si celebrano ad Abu Dhabi avvertirebbe immediatamente la grande differenza nel modo con cui i fedeli partecipano alla liturgia. Scrive infatti Hinder che «nel mondo occidentale, la mentalità del settore dei servizi si è estesa anche al servizio liturgico, e da entrambe le parti: il fedele viene con un’aspettativa precisa: ricevere una prestazione. Dall’altro lato, i preti vedono sé stessi come erogatori di servizi, messi lì per soddisfare dei bisogni» (p. 78). A fare la differenza, nella “Chiesa d’Arabia” è il fatto che «la gente è più grata, per una semplice messa, e soprattutto si vergona di meno a esprimere i propri sentimenti» (p. 78). Pur sottolineando i tanti aspetti positivi del modo con cui i cristiani del Golfo vivono la propria fede, il racconto di Hinder è tutt’altro che apologetico, e non nasconde le insidie e le difficoltà che vivono i fedeli provati dalla dura vita lavorativa, distanti dalle famiglie, e che subiscono le insidie di alcol e sesso (p. 93).
Ampia parte del libro è dedicata al rapporto con l’Islam. Hinder sa che le sue esperienze di rapporto con l’Islam e con i musulmani vanno lette da una particolare prospettiva, «perché sono state fatte in un contesto ben preciso», e cioè nel privilegiato contesto emiratino. Tuttavia, pur con momenti di alti e bassi (come le difficoltà seguite al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona) egli non ha dubbi: «il colloquio tra le religioni [è] uno dei fattori decisivi per il futuro sviluppo del nostro mondo» (p. 103). Le difficoltà tuttavia non mancano. Pesa l’incapacità degli europei di dare il buon esempio, che si ripercuote sul modo con cui i musulmani del Golfo guardano ai cristiani che vivono al loro fianco: «vietare le moschee non fa sorgere le chiese in Arabia Saudita» (p. 146). E resta il problema del riconoscimento reciproco delle fonti, come esemplifica il caso della lettera indirizzata dal religious adviser di Abu Dhabi al Papa in cui si faceva riferimento «al Vangelo di Barnaba come fonte autentica per un dialogo interreligioso comune e sicuro» (p. 120). O il fatto che la stessa parola in contesto cattolico indichi qualcosa di diverso rispetto a quello che intendono i musulmani, o ancora che noi cristiani «dal punto di vista religioso siamo dei senza storia, e quindi nel dialogo interreligioso siamo spesso incapaci di parlare» (p. 160).
Ma tutte queste difficoltà non tolgono nulla alla necessità del dialogo, «medicina preventiva [e] non curativa» (p. 167), che deve evitare che lo scambio tra culture diventi uno scontro.