Papa Francesco in Egitto ha condannato la violenza che usa la religione come giustificazione

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:55:18

Il viaggio di Papa Francesco in Egitto alla fine di aprile offre alcune chiavi di lettura originali per comprendere il futuro non solo di questo Paese, ma di tutto il Medio Oriente e più in generale per favorire la convivenza tra mondo occidentale e islamico nel secolo che stiamo iniziando. Molti sono gli indizi di quanto sia fragile questa convivenza, quando non immersa in un conflitto permanente. Per citare solo alcuni esempi, il tentativo di Donald Trump, a fine gennaio, di approvare un decreto presidenziale tramite cui vietare o limitare l’ingresso negli Stati Uniti di cittadini di vari paesi musulmani non è stato un fatto isolato.

Nella sua campagna elettorale per le elezioni presidenziali francesi, Marine Le Pen ha bollato come “insopportabile” l’influenza islamica e ha descritto la Francia come un Paese chiamato a una “scelta di civiltà”. E non è l’unica in Europa. Altri leader politici hanno parlato apertamente contro l’Islam. La diffidenza e la sfiducia sono molto profonde, alimentate dal terrorismo islamista che colpisce indiscriminatamente e dai sospetti generalizzati che accompagnano i processi d’immigrazione di massa verso l’Europa e l’America originati nelle guerre in Iraq e in Siria. La questione è delicata perché non è chiaro se si stanno paragonando culture e civiltà in generale o se si allude a una problematica specificamente interreligiosa. Di primo acchito sembra che i protagonisti degli episodi citati percepiscano la religione nelle sue inevitabili implicazioni per la vita sociale e politica. Per questo, per affrontare la questione con qualche speranza di successo, servirebbe un dialogo a più voci, che coinvolga attori secolari e religiosi.

Tra le voci secolari, Jürgen Habermas è da tempo un difensore della necessità d’intraprendere un simile dialogo e anche Peter Sloterdijk e altri si stanno muovendo nella stessa direzione. Fino a non molti anni fa noi occidentali ci eravamo abituati a pensare che le “perturbazioni” che la religione produceva nella vita pubblica fossero gli ultimi rantoli di un mondo antico che andava a morire per lasciar definitivamente posto al mondo moderno e secolarizzato. Per usare le parole di Ulrich Beck, era «l’idea che con l’avanzare della modernizzazione l’elemento religioso si sarebbe autoliquidato». La realtà ci indica che le cose non sono andate esattamente così.

Per menzionare solo l’ultimo rapporto del Pew Research Center circa l’evoluzione della religione nel mondo, la somma di Cristianesimo e Islam, senza contrare le altre religioni, rappresenterà nel 2060 quasi il 63% della popolazione mondiale. A fronte di dati empirici di questo tenore, figure molto importanti della sociologia della religione avvertono che la tesi di un processo di secolarizzazione universale e ineluttabile non è più sostenibile. Di conseguenza alcuni di essi reclamano un ruolo pubblico delle religioni nel mondo moderno (José Casanova) o rivelano i numerosi altari della modernità (Peter Berger) o alludono a una seconda modernità con differenti tipi di secolarizzazione (Ulrich Beck).

A livello mondiale la religione non scompare, ma anzi conserva molto vigore e si espande. In Occidente, si sentono poche voci che mettono in guardia circa l’ambivalenza di questa diffusione sociale della religione. La maggiore vitalità della religione può tradursi in un contributo efficace alla pace o, al contrario, in una moltiplicazione della violenza. La questione in sé è estremamente complessa e non possiamo trattarla qui. Ci limitiamo a proporre alcuni spunti che possano favorire – così speriamo – questo dialogo. Nell’orizzonte che abbiamo tratteggiato le evoluzioni interne del Cristianesimo e dell’Islam, nella loro relazione reciproca, non possono non suscitare interrogativi all’intero del dibattito proprio delle società occidentali secolarizzate. Se le scienze sociali, l’opinione pubblica e le autorità politiche, così come i credenti e le autorità religiose, devono misurarsi con questo fenomeno – impensabile 30 o 40 anni fa – può risultare d’interesse generale porsi una domanda concreta a partire dalla cronaca recente: che contributo offre il viaggio del Papa in Egitto per una migliore comprensione reciproca tra cristiani e musulmani lungo questo secolo XXI? Offriamo alcuni criteri d’interpretazione. Il primo dato notevole è l’accento che il Papa ha posto sull’importanza storica dell’Egitto nell’attuale congiuntura socio-politica.

Rivolgendosi alle autorità politiche, il Papa ha attribuito loro un compito molto impegnativo:

«L’Egitto è chiamato a condannare e a sconfiggere ogni violenza e ogni terrorismo; è chiamato a donare il grano della pace a tutti i cuori affamati di convivenza pacifica, di lavoro dignitoso, di educazione umana». E ha aggiunto: «Dalle nazioni grandi non si può attendere poco!»

Per cogliere la portata delle espressioni di Francesco, è bene non dimenticare il grande orgoglio nazionale che caratterizza gli egiziani, radicato in migliaia di anni di civiltà ininterrotta, dal tempo dei faraoni in avanti. Non è strano che essi affermino compiaciuti: «Misr umm al-dunya, l’Egitto è la madre dell’universo». Si può però suggerire che il Papa, oltre a stimolare la coscienza storica della nazione egiziana, parlando in questi termini abbia messo in gioco la sua concezione “geopolitica” del concetto, a lui così caro, di “periferia”. Nell’impostare i rapporti con l’Islam, ha scelto di passare attraverso una nazione molto grande dal punto di vista demografico (100 milioni di abitanti), ma povera. Una società in cui, d’altra parte, esiste un’ampia tradizione di convivenza a livello di popolo (conflittuale finché si vuole, ma reale) tra musulmani e cristiani.

Qualcosa di simile era accaduto anche nelle visite ad altri Paesi con caratteristiche analoghe in fatto di povertà e in cui ci sono forme precarie di convivenza tra cristiani e musulmani, come la Repubblica Centrafricana, l’Albania e la Bosnia. In tutti questi Paesi, d’altra parte, il pericolo della crescita del fondamentalismo è molto reale, quasi sempre a partire da predicatori finanziati e formati in Paesi arabi più ricchi e esportatori di versioni fondamentaliste dell’Islam. A partire da questa premessa il Papa è entrato in rapporto con le autorità politiche e anche religiose dell’università sunnita dell’Azhar. Ha potuto pronunciare parole molto esigenti circa il terrorismo e le forme di violenza che accampano una giustificazione religiosa. È risuonato con particolare solennità l’appello a privare i fanatici fondamentalisti di legittimità sociale o religiosa:

«Abbiamo il dovere di smascherare i venditori di illusioni circa l’aldilà, che predicano l’odio per rubare ai semplici la loro vita presente e il loro diritto di vivere con dignità, trasformandoli in legna da ardere e privandoli della capacità di scegliere con libertà e di credere con responsabilità»

Francesco però non si è limitato a denunciare il fondamentalismo, per quanto questo sia un’evidente preoccupazione nel mondo intero. Il terzo elemento che spicca nel suo viaggio è la proposta di un modo alternativo di vivere l’esperienza religiosa. Alcune piste di straordinario valore le ha lasciate nella celebrazione della Messa con i cattolici egiziani, a cui hanno partecipato circa 30.000 fedeli, cioè circa uno su dieci di tutti i cattolici d’Egitto. Davanti a loro ha pronunciato alcune frasi realmente categoriche: «L’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità; qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!». Ancora, ha sottolineato il rifiuto delle forme fossilizzate della religione, puramente convenzionali e ideologiche: per Dio «è meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita», perché «non serve tanta religiosità se non è animata da tanta fede e da tanta carità».

L’omelia, pronunciata in italiano e subito dopo letta in arabo, è stata trasmessa in diretta dalla televisione egiziana. L’immagine del Papa, vestito di bianco e con il capo coperto da uno zucchetto bianco, contrasta totalmente con il discorso dei telepredicatori fondamentalisti che invadono le reti satellitari egiziane e del mondo arabo. Anche loro sono avvolti in vesti bianche e con il capo coperto, ma qualsiasi osservatore non può non notare evidenti differenze... Sicuramente queste affermazioni rappresentano il cuore di tutto il viaggio. Gli altri interventi hanno, per così dire, dissodato il terreno, per permettere a parole di questo calibro di penetrare nel cuore degli ascoltatori, disseminati in tutto il Paese. Che effetto reale avranno? Non lo sappiamo, chiaramente. I movimenti sociali a volte nascono impercettibilmente e crescono poco alla volta, incidono nella vita quotidiana, finché d’improvviso irrompono nella piazza, arrivando alle istituzioni. Probabilmente si può ancora aggiungere un ultimo elemento in questo bilancio della visita: le parole e i gesti di Francesco si sono trovati in totale sintonia con la testimonianza pacifica e disarmata dei cristiani copti-ortodossi d’Egitto. La menzione dell’ “ecumenismo del sangue” che avvicina i cristiani copti e i cattolici non è stata per nulla retorica.

Papa Tawadros II, massima autorità religiosa copta-ortodossa, aveva dichiarato recentemente dopo uno dei sanguinosi attentati contro le sue chiese: i terroristi «vedranno questo perdono immenso che i copti offrono ogni volta che sono colpiti, la tolleranza davanti alla violenza dei cattivi. E sono sicuro che i loro cuori si muoveranno». Non è dunque strano che l’incontro tra Tawadros II e Francesco sia stato tanto cordiale e sia arrivato fino al punto di una Dichiarazione comune. Se il dialogo interreligioso intrapreso dal Papa con il mondo musulmano e il dialogo ecumenico con i copti continueranno a progredire, ne guadagneranno la convivenza in Egitto e in Medio Oriente, sarà favorito il rispetto della dignità delle persone e cresceranno le aspettative di pace e progresso sociale nel mondo durante questo XXI secolo che ha già accumulato molte sofferenze e minacce nei suoi due decenni scarsi di vita.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in spagnolo dalla rivista Jot Down.