Teheran avrà anche vinto, al momento, la partita contro l’Arabia Saudita, ma i costi economici e diplomatici si stanno dimostrando quasi insostenibili
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:30
Quando in Occidente si è finalmente focalizzata l’attenzione sulle proteste scoppiate in Iran, si è subito scomodato il precedente delle imponenti manifestazioni del 2009, quelle della famosa “Onda Verde”, che avevano scosso il nizam, come viene chiamato il sistema di potere della Repubblica islamica dell’Iran.
Al tempo, a milioni erano scesi in piazza per protestare contro l’evidente manipolazione dei risultati elettorali che aveva portato alla rielezione del presidente ultraradicale Mahmud Ahmadinejad. E allora come oggi, i pasdaran – le potentissime guardie rivoluzionarie – avevano represso le proteste con brutale determinazione.
Ma le similitudini sembrano fermarsi qui. Perché i meccanismi che hanno portato all’esplosione di una collera popolare anche violenta sono profondamente diversi. In questi giorni non si sono mobilitati – se non successivamente, sull’onda di quanto stava avvenendo – i ceti medio-alti urbani di Teheran e, in particolare, gli studenti universitari, da sempre una spina nel fianco del regime.
Da tempo essi chiedono più democrazia, libertà politica e dei costumi individuali, si lamentano della chiusura del Paese verso l’esterno ma continuano ad avere scarsa attenzione verso i più disagiati economicamente (l’Iran è – a dispetto della retorica islamista – ancora socialmente molto classista e stratificato).
I mostazafin
Chi ha riempito in questi giorni le piazze e scosso il sistema proviene invece in massima parte dai ceti sociali più deboli. Questi ultimi sono da sempre usati dal regime, e dal clero politicizzato in particolare, come “massa di manovra”, grazie alla pervasività del sistema clientelare statale iraniano, che ha distribuito ingenti quantità finanziarie proprio per tenere legati a sé le fasce più povere della società. I mostazafin, i diseredati, sono stati del resto l’architrave dell’ideologia radicale del khomeynismo.
Eppure proprio da essi si è propagata la protesta, motivata non già dall’insoddisfazione di una stereotipata “società civile” che si nutre di libertà e democrazia, quanto piuttosto dalle catastrofiche condizioni economiche dei ceti sociali più deboli, che sono stati ulteriormente impoveriti dalle decisioni del regime. Gli anni in cui si elargivano sussidi a piene mani sono infatti finiti.
L’economia iraniana è corrotta, clientelare, inefficiente, dominata dalle fondazioni religiose e dalle società economiche dei pasdaran che operano in condizioni di favore, distorcendo il mercato, e impedendo la libera concorrenza. A ciò si sono aggiunti i costi enormi delle sanzioni internazionali degli scorsi anni, che hanno forzato l’Iran a un difficile compromesso sul nucleare, e le ancor più ingenti spese per sostenere lo sforzo militare in Siria e Iraq contro lo Stato Islamico e contro i sunniti.
Gli anni in cui si elargivano sussidi sono finiti
Teheran avrà anche vinto, al momento, la partita geostrategica contro gli arci-nemici dell’Arabia Saudita, le cui mosse geopolitiche nel Levante si sono rivelate catastrofiche, ma i prezzi economici e diplomatici si stanno dimostrando quasi insostenibili.
Il bilancio statale è piagato dal declino del prezzo del petrolio e dai costi delle avventure militari in Medio Oriente. Il governo del presidente moderato Hassan Rouhani sta cercando da tempo di ridurre le storture economiche, ma con scarsi risultati. Del resto Rouhani ha margini di azione troppo ristretti: non può intaccare i privilegi delle fondazioni religiose; non può sfidare lo strapotere dei pasdaran, sempre più forti all’interno di un nizam diviso e litigioso; non ha potere reale nelle scelte strategiche e militari.
La decisione del suo governo di ridurre i sussidi e di alzare i prezzi dei generi di prima necessità è stata di fatto obbligata. È probabile, come si dice, che l’inizio delle proteste sia stato in qualche modo manipolato dai gruppi ultraconservatori, proprio per mettere in difficoltà il governo dei moderati.
Le periferie e la questione settaria
Ora, però, il livello di rabbia popolare e di insoddisfazione contro tutto il regime è tale che le manifestazioni sono sfuggite a ogni controllo. Si è aggiunto poi, nelle regioni più periferiche, anche un’allarmante tensione settaria.
In Iran, accanto alla maggioranza persiana e sciita, convivono molti gruppi etnici e religiosi minoritari, fra cui comunità arabo-sunnite, baluci e curdi. Da tempo sauditi, americani e israeliani soffiano sul fuoco della loro insoddisfazione, che in questi giorni sembra essersi mostrata, frutto anche della grande polarizzazione fra sunniti e sciiti. Una radicalizzazione che finora ha permesso a Teheran di rafforzarsi nel Levante, ma che rischia di indebolire la Repubblica islamica all’interno dei suoi confini.
L’insieme di queste motivazioni spiega anche la violenza delle manifestazioni e le brutali repressioni da parte dei pasdaran. Ma segnala anche la lontananza di queste proteste da quelle del 2009. E il silenzio delle voci riformiste, le quali, pur se controllate e limitate, hanno sempre trovato la via per far sentire il proprio appoggio soprattutto quando si chiedeva più libertà e non più pane.