Beirut. Nella città che ogni giorno rinasce e ogni giorno rischia, intervista con Georges Corm. Cristiano maronita, politico, scrittore, docente, polemista: un uomo polivalente che, come capita a tanti suoi connazionali, ama andare controcorrente. Il “suo” Libano è diverso dai cliché e dalle interpretazioni tradizionali e brilla per la sua vitalità intessuta di dolore e di dramma.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:40

Intervista raccolta da Martino Diez

In copertina del suo libro sulla storia del Libano contemporaneo (Jaca book 2006) Georges Corm ha messo una veduta della collina di Achrafieh negli anni ’20: villette immerse in una vegetazione lussureggiante. Nulla di più contrastante con la modernissima architettura del centro di Beirut, dove Oasis lo ha incontrato a fine febbraio. Già ministro delle finanze tra il 1998 e il 2000, docente universitario e consultore di numerose organizzazioni internazionali, Georges Corm è un fiume in piena. Tra un sigaro e l’altro dipinge il passato e l’attualità del suo Paese, a partire da una prospettiva particolare: il comunitarismo politico non è l’unico destino possibile per il Libano.

Professore, è opinione comune che il Libano costituisca un modello di coesistenza fra religioni e comunità differenti. Si ritiene in genere che la convivenza sia garantita dal sistema di spartizione del potere che è così caratteristico del Paese. Nei Suoi studi Lei mette in discussione quest’idea. Che cosa c’è dunque di autentico e che cosa di falso nell’idea del comunitarismo libanese?

Il comunitarismo è un prodotto della modernità. È una categoria della sociologia tedesca che opera una distinzione tra comunità (l’universo chiuso) e società (l’universo aperto). Io dico sempre che il Libano è una società nel senso pieno del termine e non un semplice agglomerato di comunità. D’altra parte nei miei scritti non uso né la parola popolo né la parola nazione, concetti ampollosi figli del XIX e del XX secolo. Ciò che in Libano si designa col nome di comunitarismo è il risultato degli interventi ottocenteschi francesi e inglesi negli affari della montagna libanese, il Monte Libano. Essi provocarono ovviamente anche un forte intervento dei turchi ottomani per mantenere le loro posizioni.

Si riferisce al sistema del millet, che garantiva alle comunità l’autonomia interna?

In verità la montagna libanese godeva di totale autonomia rispetto all’Impero ottomano; il sistema del millet si applicava soltanto alla costa. Peraltro tale sistema per l’epoca era estremamente avanzato. Tutelava le specificità dei cristiani e degli ebrei e la libertà religiosa, così come la libertà di educazione, ma agiva anche nell’amministrazione per le questioni legate allo statuto personale (matrimonio ed eredità). Questa libertà tuttavia non si applicava alle comunità musulmane eterodosse, non sunnite. È chiaro comunque che questo regime è stato superato dall’evoluzione generale della regione e in particolare dalla diffusione delle idee nazionaliste e democratiche europee. È per questo che non è riuscito a sopravvivere e negli ultimi anni dell’Impero ottomano ha persino contribuito a creare l’atmosfera propizia ai massacri inter-comunitari che hanno avuto luogo all’epoca. Le passioni etniche e nazionaliste venute dall’Europa hanno contagiato le comunità dell’Impero causando un’aspirazione all’omogeneizzazione della popolazione su un dato territorio. E da questo non ne siamo ancora usciti. Tanto più che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano si sono aggiunte altre complicazioni: la creazione ex nihilo di uno Stato in Medio Oriente che si definisce tramite la sua religione, l’Ebraismo, e il ruolo molto importante dell’Arabia Saudita che pure si definisce tramite la religione. E poi, ultima nata, la rivoluzione iraniana. Insomma, ovunque si vive immersi in una strumentalizzazione forte della religione, che svolge un ruolo identitario sempre più importante sostituendosi al nazionalismo e all’etnicismo del XX secolo e rafforzando nuovamente i comunitarismi.

Per tornare al Libano, che cosa c’era allora sulla montagna?

La montagna godeva di una forte autonomia perché era governata da una feudalità tributaria, cioè un’organizzazione gerarchica di notabili locali che prelevavano imposte sulla popolazione per riversarne una parte al Sultano ottomano come tributo. Non c’era dunque comunitarismo politico perché i signori feudali tenevano sotto di sé indistintamente i contadini di tutte le comunità.

E qui si colloca, secondo Lei, la specificità libanese.

C’erano altre regioni del Medio Oriente e dei Balcani che si trovavano nella stessa situazione. Naturalmente c’erano anche regioni dell’Impero in cui il potere ottomano era molto più duro. Si dovrebbe aggiungere che, a partire da inizio Ottocento, le pressioni europee perché l’Impero Ottomano si riformasse, nel periodo detto appunto dei Tanzîmât, hanno prodotto un effetto estremamente destabilizzante. Perché? -Perché da un lato si raccomandava all’Impero Ottomano: «Dovete realizzare l’uguaglianza perfetta tra tutti i vostri cittadini o tra tutti i vostri sudditi», e dall’altro si diceva, in modo contraddittorio: «Ma non dovete toccare i privilegi tradizionali di cui godono i membri dei diversi millet cristiani ed ebrei». Quest’ambiguità ha provocato tensioni. C’è a mio avviso un’analogia sorprendente tra le pressioni esercitate dagli Stati Uniti nel periodo della presidenza di George W. Bush per una riforma del Medio Oriente in senso democratico e quelle poste in atto dalle potenze coloniali sull’Impero ottomano nell’Ottocento. In entrambi i casi si è trattato molto più di interventi negli affari interni degli Stati con lo scopo di accrescere un potere regionale, piuttosto che di espressioni di un sincero amore per la democrazia e i diritti dell’uomo. Per tornare al nostro tema, sotto la pressione europea gli Ottomani hanno introdotto il comunitarismo politico, che è altra cosa dal regime del millet, il quale accordava unicamente dei diritti civili. Quando hanno organizzato le prime elezioni municipali, gli ottomani si sono preoccupati che i cristiani e gli ebrei fossero rappresentati in proporzione al loro peso demografico. Ed è qui che io vedo i prodromi del comunitarismo politico nella regione, istituito in Libano nel 1864 nella gestione politica, sotto il controllo delle potenze coloniali europee. In Libano si tende a pensare che il sistema comunitario protegga le “minoranze”, ma bisogno rendersi conto che è proprio questo sistema che ha finito per innescare i massacri e le migrazioni forzate delle popolazioni, prodottisi in diverse regioni del Medio Oriente. Che si tratti dei greci o degli armeni in Anatolia, che si tratti dei libanesi nel 1840, 1845 o nel 1860, e poi nel 1958 e ancora dal 1975 al 1990, per non parlare della Palestina, scusatemi ma non vedo dove mai il comunitarismo abbia svolto una funzione protettiva.

Tuttavia questo sistema ha anche dei vantaggi.

Si può fare in Libano un bilancio degli effetti positivi del comunitarismo, a condizione di mettere il termine “positivo” tra virgolette. Anche l’affermazione che il comunitarismo impedirebbe il dominio di una comunità sull’altra non è così scontata. Uno Stato ha sempre bisogno di una forza che garantisca la coesione nel funzionamento. Per molto tempo in epoca recente sono stati i maroniti a svolgere quel ruolo che è ora dei sunniti (e in precedenza fu dei drusi e prima di loro degli sciiti, nel Medioevo). Ogni volta che una comunità assume la direzione di uno Stato multi-comunitario ciò crea un malcontento esplosivo tra le altre comunità. Ciò non toglie che questo sistema impedisca il realizzarsi di un colpo di stato militare, anche se talvolta – sto per dire qualcosa che non Le piacerà – una dittatura militare, nel caso in cui un paese sia ingovernabile o troppo mal governato, può ricondurre la gente alla ragione. Non parlo di dittature alla Saddam Hussein in Iraq o alla Pinochet in Cile: se potessimo avere dei militari capaci di intervenire per due o tre anni per mettere in atto le innumerevoli riforme di cui il paese ha bisogno per poi restituire il potere ai civili, forse il Libano potrebbe essere gestito meglio di quanto non sia accaduto finora, evitando i massacri inter-comunitari a ripetizione.

Il problema è proprio questo: sapere se dei militari riconsegnerebbero effettivamente il potere ai civili.

Sono d’accordo che spesso le cose non vanno così, se parliamo in termini generali, ma nel caso del Libano una dittatura militare non potrebbe durare a lungo. In ogni modo, un colpo di stato militare in Libano è difficile che si realizzi. Perché, ancora una volta, chiunque intervenga in politica si ritrova immediatamente addosso un’etichetta comunitaria, ciò che limita la sua autorità morale sull’insieme della popolazione.

Tornando al bilancio degli aspetti positivi del comunitarismo, potremmo metterci anche una certa libertà di espressione…

No, la libertà di espressione è attualmente molto debole in Libano. Prima di tutto i libanesi sono costantemente soggetti al terrorismo di quei capi miliziani che sono ancora molto potenti sulla scena politica. Criticare un capo miliziano, anche oggi, non è cosa da poco. In secondo luogo essi sono preda del ricatto del denaro. Chi mai si permetterebbe di criticare il tale o il tal altro che sono così ricchi da poter offrire un lavoro o una borsa di studio a mio figlio? Inoltre siamo sottoposti al lavaggio del cervello da parte dei media regionali e internazionali. No, a proposito della libertà di espressione io sono molto meno ottimista di Lei. Per giunta, l’attuale sistema conduce a riprodurre sempre le stesse famiglie politiche regnanti sulle loro comunità, così come una marcata polarizzazione delle tensioni politiche riguardo alla questione del posizionamento del Libano sullo scacchiere regionale. Per questo oggi si registra una polarizzazione accentuata, ma non nuova, tra quanti si sentono vicini al blocco pro-occidentale, che vogliono un Libano allineato all’Arabia Saudita, all’Egitto, alla Giordania e ai paesi occidentali, e il blocco opposto che rifiuta un’egemonia occidentale che protegge scandalosamente le occupazioni israeliane dei territori palestinesi, siriani (il Golan) e libanesi (alcuni chilometri quadrati non sono ancora stati evacuati da Israele). Questa forte polarizzazione contribuisce a rafforzare il potere delle famiglie politiche, soprattutto in occasione delle elezioni parlamentari in cui cinque capilista (il generale Aoun, Walid Joumblatt, Saad Hariri, Nabih Berri e Hezbollah) scelgono e impongono i loro candidati. Così a conti fatti il cittadino comune si sente ben poco coinvolto, soprattutto se non si riconosce in questi capilista. Malgrado questo, alle ultime elezioni la mobilitazione è stata notevole, perché ciascuno dei blocchi ideologici diceva che era questione di vita o di morte.

E poi si è costituito un governo di unità nazionale.

Questo fa parte degli accordi raggiunti in Qatar in seguito ai fatti del 7 e 8 marzo 2008. La crisi che si è aperta dopo l’assassinio di Hariri si può riassumere così: prima c’era un condominio siro-saudita che si spartiva il controllo del Libano, con la benedizione degli Stati Uniti. Hariri era l’incarnazione di questo equilibrio. Poi, in seguito alla risoluzione 1559 del settembre 2004, tutto cambia; gli americani e i sauditi dicono alla Siria: «Fuori, ci riprendiamo il Libano al 100%». Ci sono voluti i quattro anni successivi di destabilizzazione, l’intervento di Hezbollah nel maggio 2008 a Beirut e il vertice di Doha per ricreare un certo equilibrio. L’accordo di Doha è stato reso possibile dal fatto che alcuni governi arabi hanno ritenuto che l’Arabia Saudita si fosse spinta troppo oltre nei suoi interventi in Libano, tanto più che la politica americana di George W. Bush in Medio Oriente si stava rivelando un evidente fallimento. È in questo contesto che i leader del Qatar hanno potuto prendere posizione in favore della stabilità del Libano.

E come va il nuovo governo?

Sa, i governi in Libano non funzionano bene. Non c’è niente di nuovo. Tuttavia la tensione è calata di molto. Pensi a com’eravamo prima, durante il periodo 2005-2008, e a come stiamo attualmente, grazie all’equilibrio realizzato tra i due campi opposti. Il Libano è molto calmo, come vede.

Hezbollah è presente da molto tempo sulla scena libanese. Si è verificata una certa evoluzione al suo interno, rispetto alle origini, il movimento è diventato più libanese, o continua ad essere…

Non mi piace questo linguaggio, per me Hezbollah è composto da libanesi. Perciò non posso rispondere a una domanda posta in questi termini. Lei può chiedermi quale sia l’influenza dell’Iran su Hezbollah e la sua evoluzione – questa è una domanda più neutra – ma non se Hezbollah è diventato più libanese. Ho un problema ricorrente con gli amici europei, tutte persone di buona volontà, e consiste nel fatto che il loro pensiero può essere preconfezionato in partenza. Mi perdoni, ma tutte quelle persone che sono morte per liberare il sud del Libano da 22 anni di occupazione israeliana non erano iraniane, erano giovani libanesi originari delle regioni occupate da Israele che hanno dato la vita per il loro Paese. Se volete che in Medio Oriente torni la pace, occorre saper usare le parole: con parole totalmente ideologiche ed emotive la pace non si farà mai. Detto questo, possiamo parlare dell’evoluzione di Hezbollah. Tutti dimenticano che la nascita di Hezbollah si deve all’imam Mussa al-Sadr, che non era per niente anti-occidentale e che era venuto dall’Iran al tempo dello Shah per combattere il comunismo in Libano. Bisogna pur avere un po’ di memoria. In seguito al-Sadr è stato fatto sparire in Libia nel 1978 per oscure ragioni, mai esplicitate. Hezbollah è come Hamas, è il prodotto della lotta contro i partiti nazionalisti laici e contro i partiti comunisti arabi. La gioventù della comunità sciita negli anni ’60 era, in massa, comunista, panaraba, laica...sono stati loro il nerbo della resistenza all’occupazione israeliana in Libano. Hezbollah è nato nel contesto della nuova invasione israeliana del 1982, che si è aggiunta ai territori già occupati nel 1968. Proprio mentre l’esercito americano (arrivato come forza multinazionale con contingenti francesi, italiani e britannici) stazionava in Libano, le armi sono liberamente affluite verso un Hezbollah in corso di costituzione, mentre i resistenti laici all’occupazione israeliana erano disarmati e imprigionati dall’esercito israeliano. Questo vantaggio militare ha permesso a Hezbollah di inserirsi nella scia di quella resistenza e continuarla. Tra l’altro all’epoca era appena esplosa la rivoluzione iraniana e l’Arabia Saudita a sua volta fomentava in tutti i modi il revival islamico secondo i dettami fondamentalisti wahabiti. In questo modo il Libano è caduto in quest’atmosfera di strumentalizzazione del fatto religioso. Certo, l’influenza iraniana è stata forte. La rivoluzione, per via del suo anti-imperialismo, ha ispirato molti libanesi, e non solo gli sciiti. All’epoca passavo le mie giornate a discutere con numerosi amici, musulmani e cristiani che ammiravano la rivoluzione iraniana, compreso il defunto Edward Said. Anche in Francia due o tre grandi filosofi hanno approvato la rivoluzione islamica.

All’inizio…

Sì, all’inizio. Penso si sia trattato di un malinteso, perché gli americani e i francesi che hanno contribuito alla presa del potere da parte dell’imam Khomeini credevano che avrebbero ottenuto un Islam compiacente, anticomunista, come quello del Regno Saudita. È vero che l’Islam di Khomeini era anticomunista, ma restava anche antimperialista, e questa sì che è stata una brutta sorpresa! Per giunta Khomeini ha ripreso il vocabolario marxista, ma in chiave islamica.

Mi perdoni, ma il problema mi sembra più complesso. Hezbollah non riconosce ufficialmente il principio di wilâyat al-Faqîh che, dal 1979, costituisce il fondamento ideologico dell’Iran?

Si tratta di un principio ispiratore. Anche su questo argomento si parla a vanvera. I comunisti italiani, o i comunisti francesi, che pensavano che il marxismo interpretato da Mosca fosse la verità suprema, non per questo smettevano di essere italiani o francesi. Inoltre all’interno della comunità sciita, tanto in Libano -quanto altrove, incluso l’Iran, sono molte le autorità religiose che contestano questo principio di organizzazione politico-religiosa. Non credo proprio che avremo un regime di wilâyat al-Faqîh, in nessun’altra parte del mondo. È una realtà specificamente iraniana che non ha alcuna possibilità di riprodursi altrove, discuterne è dunque una perdita di tempo. D’altra parte il giorno della liberazione del sud del Libano, nel maggio del 2000, mentre tutti avevano una paura tremenda dei massacri tra cristiani e sciiti, io ero sul posto alle cinque del mattino per assicurarmi che non si verificassero vendette comunitarie e collettive. È stato allora – ero all’epoca Ministro delle Finanze – che ho potuto rendermi conto della disciplina di Hezbollah e del suo comportamento esemplare: ai collaborazionisti (o alle loro famiglie) non è stato dato nemmeno uno schiaffo. Sono stati affidati allo Stato per essere giudicati dalla giustizia del nostro Paese, come promesso da Hezbollah al governo di cui facevo parte. Va detto infine che all’interno del partito, come in tutti i partiti, non vige il monolitismo, ci sono i duri e ci sono i moderati. Sayyed Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, rappresenta la tendenza mediana. Certo, in molti dei suoi discorsi pubblici fa la tirata sull’importanza della wilâyat al-Faqîh e ringrazia anche l’Iran per il suo aiuto (e la Siria). Ma non bisogna dimenticare che dalle parti di Rafik Hariri e di suo figlio non è meno radicata l’abitudine di profondersi in ringraziamenti all’Arabia Saudita a ogni pie’ sospinto, mentre altri partiti politici esprimono il loro appoggio, per non dire la loro ammirazione, alla politica americana ed europea in Medio Oriente. Personalmente non mi stupisco che si ringrazi l’Iran. È stato l’Iran ad aiutare il Libano a liberare un territorio che né le Nazioni Unite né le grandi democrazie europee e americana hanno aiutato a liberare. Inoltre tutti dimenticano un problema basilare, quello dei rifugiati palestinesi ai quali Israele rifiuta il diritto al ritorno e il fatto che dal 1968 l’esercito israeliano ha bombardato ogni giorno il Libano. E dopo aver praticato un’occupazione sanguinosa di diverse porzioni del territorio dal 1978 al 2000, ancor oggi continua a effettuare ricognizioni aeree quotidiane e illegali sul territorio. In compenso ci fanno una testa così con l’Iran… Non è indice di una grande serietà!

Nel suo libro Lei parla spesso della situazione economica, soprattutto per quanto riguarda il periodo postbellico. Ora la crisi economica è mondiale.

La crisi economica mondiale non ci ha toccato per niente. Siamo un’economia che non dipende dal commercio internazionale o dalla circolazione delle tecnologie, visto che, purtroppo, non produciamo molto. Abbiamo una borsa che conta meno di niente, una cosa ridicola. Non potevamo essere colpiti dalla crisi. Per essere colpiti dalla crisi occorreva essere un grande attore della globalizzazione. Ma noi non abbiamo niente, non abbiamo industria, non esportiamo per miliardi di dollari, al massimo abbiamo alcuni emigranti che tornano in patria perché hanno perduto il lavoro. Semplifico la questione: in Libano ci sono dai 50 ai 60 chilometri quadrati dove regna una ricchezza pazzesca: edifici di lusso, appartamenti da un milione di dollari, auto che gareggiano in lusso, ristoranti esclusivi, alberghi sfarzosi. E poi ci sono 10.400 chilometri quadrati sulla soglia della povertà. Così, a considerare i 50-60 chilometri quadrati, verrà da esclamare: «ah, il miracolo libanese!». Se invece si guarda al resto del territorio, ai 10.400 chilometri quadrati, ci si domanderà come tanta ricchezza insolente e concentrata in poche mani possa convivere con una tale povertà. L’entroterra è desertificato, al nord c’è una povertà che presenta tratti drammatici e là si è creato un vivaio per il reclutamento dei takfiristi alla saudita. Verrebbe da chiedersi se la gente non venga impoverita proprio per questo… A Sidone è lo stesso. C’è il campo palestinese dove prospera il radicalismo islamico sunnita.

Le prospettive non sono buone. Come uscire da questa situazione, a Suo parere?

Al contrario la situazione mi sembra eccellente se paragonata al succedersi di eventi drammatici dal 2005 a oggi (gli omicidi in serie, i massicci interventi esterni americani e sauditi, il brutale attacco israeliano del 2006, l’attacco nel 2007 in un campo di rifugiati palestinesi contro l’esercito libanese nel nord del Paese da parte di Fath al-Islâm). Mi indichi un paese che abbia una tale capacità di resistenza. Si ricordi che tra il 1975 e il 1990 abbiamo vissuto quindici anni di violenza caotica e ininterrotta senza che il Paese venisse smembrato, mentre altre realtà, come la Jugoslavia che adoravo, sono scomparse.

E perché voi siete ancora sulla scena?

Perché nessuno riesce a dominarci in modo duraturo. Perché la gente cambia posizione. È un gioco che dura dal 1840. Un giorno stai con l’America, il giorno dopo cambi di campo. Non è la mia società ideale, ma quando mi paragono ad altri paesi che subiscono aggressioni esterne o destabilizzazioni interne… L’Ucraina per esempio stava per esplodere dopo che nel 2004 i media americani ed europei avevano arbitrariamente diviso la popolazione del Paese tra filorussi e filoeuropei. Da noi hanno tentato la stessa cosa dopo l’assassinio di Hariri quando i decision makers occidentali e i media ci hanno classificati tra i “cattivi” filo-siriani e “buoni” anti-siriani, adoratori della democrazia. Il modo con cui i media trattano i problemi della nostra regione è scandaloso. Per esempio adesso tutti si occupano dei cristiani, ma non di quelli che vivono in Iraq. Quando Obama ha pronunciato il suo discorso al Cairo nel giugno 2009, ha preteso di proteggere le minoranze, citando peraltro solo i copti egiziani e i maroniti libanesi, come se si trattasse di specie rare, panda da proteggere dal pericolo di estinzione. Ma non ha detto una sola parola di cordoglio per i 500.000 cristiani iracheni che hanno dovuto lasciare il proprio paese dopo l’invasione americana, mentre quelli che restano vengono minacciati o aggrediti ogni giorno. È difficile prendere sul serio quello che si racconta in molti media o che si sente dire dai responsabili politici.

Quindi Lei si augura che per il futuro le cose rimangano come sono?

Io non mi auguro niente, sono uno che lavora sul campo per impedire che la gente si azzuffi o tenga un discorso fanatico. Faccio il pompiere insomma, un lavoro di prevenzione. Purtroppo, se si è oggettivi, è difficile credere che questa regione conoscerà la pace. Trovo indecente che si continui a imbonire le folle dicendo che dopo 18 anni di negoziati diretti tra palestinesi e israeliani gli Stati Uniti incoraggeranno ora l’attuazione di negoziati indiretti; è semplicemente grottesco. Finché continuerà questa sceneggiata, non c’è nessuna possibilità che quest’area del mondo si plachi. Il problema libanese, nemmeno i libanesi lo afferrano pienamente, perché sono obnubilati dal comunitarismo. Il vero problema non è che i cristiani sarebbero turbati dalla possibilità dei musulmani di avere quattro mogli – fenomeno peraltro molto marginale. E il problema, per i musulmani, non risiede nel fatto che i cristiani credano alla Trinità. Il problema profondo del Libano, oggi come ieri, è quello del posto che esso deve occupare nelle lotte per l’influenza regionale. Non solo tra Stati occidentali e orientali, ma anche tra diversi Stati della regione e nei confronti di Israele. Oggi la divisione che corre tra i libanesi è totalmente transcomunitaria. La principale forza cristiana, che è quella del generale Aoun, è alleata con Hezbollah nella resistenza alle pressioni cosiddette occidentali sul Libano. Questo non ha niente a che vedere con la religione. In passato era anche peggio, come nel 1840 e nel 1860, quando gli inglesi, alleati con gli Ottomani, esercitarono pressioni sulla comunità drusa perché si opponesse alla comunità maronita, la quale era entrata nell’orbita di una Francia intenzionata a creare in loco uno Stato cristiano. Ed è perciò che, già a quell’epoca, alla diplomazia britannica venne l’idea di creare uno Stato ebraico in Palestina, cinquant’anni prima del movimento sionista.

Ma la logica della contrapposizione religiosa e l’odio sono diffusi anche tra i libanesi.

C’è una dicotomia tra la violenza verbale e la realtà fattuale. Ci sono persone estremamente fanatiche nei loro discorsi che poi corrono personalmente dei rischi per andare a salvare un vicino cristiano o musulmano, per estrarre dalle macerie i feriti. Il vero problema è la grande povertà in certi strati della popolazione. La stessa degli anni ’70, quando si sono costituite fasce di povertà attorno a Beirut, per via di una forte emigrazione rurale. È molto pericoloso lasciar incancrenire le situazioni di povertà. Solo che oggi quasi non ci si preoccupa più della giustizia sociale e dell’etica. Per fortuna c’è il Papa. Ma chi ascolta il Papa? La sua ultima enciclica, Caritas in veritate, è straordinaria. Dovrebbero meditarla tutti i cristiani del mondo.

In ottobre si svolgerà il Sinodo sul Medio Oriente.

Qui si è tenuto un grandissimo Sinodo della Chiesa maronita, dal 2003 al 2005. Le risoluzioni sono eccellenti. Tre sono i testi principali: uno sulla Chiesa e l’economia, il secondo sulla Chiesa e la questione sociale, il terzo sulla Chiesa e la terra. Dentro c’è tutto: è un programma delle principali riforme economiche per il Paese nell’ottica della giustizia sociale e della creazione del pieno impiego per frenare l’emigrazione e far restare i cristiani, così come i musulmani, nel Paese. Si tratta di vedere se il prossimo Sinodo a Roma si baserà sul lavoro che è stato fatto qui e chiederà alla gerarchia delle Chiese libanesi di applicare le raccomandazioni formulate.

Secondo la Sua esperienza, come è cambiato l’Islam, e che cosa pensa dei movimenti fondamentalisti? Quale influenza esercitano in Libano?

La reislamizzazione del Libano è iniziata già prima della guerra ‘75-‘90. Il fenomeno Hariri, come agente principale di influenza dell’Islam saudita in Libano, si situa nella stessa logica di lotta contro il comunismo e l’influenza iraniana antimperialista. Attualmente l’intero spazio mediatico è occupato dall’Islam fondamentalista, per il solo fatto della preponderanza politica, economica e finanziaria dell’Arabia Saudita in tutta la regione. «L’Islam dei Lumi» continua però a esistere, ma i suoi sostenitori sono ignorati dai media e dalle ricerche accademiche. Il riformismo islamico non è una novità. È cominciato all’inizio del XIX secolo. Poiché però l’Arabia Saudita, così come il Pakistan, è uno dei principali alleati degli Stati Uniti nella geopolitica mondiale, si tace sulla natura fondamentalista e radicale dell’Islam che sta alla base delle Costituzioni dei due Paesi.

Parlando del Libano è impossibile non evocare il dramma della guerra. Non è facile capire come, durante la guerra, in mezzo a una quantità impressionante di violenze, una parte della popolazione potesse continuare a lavorare.

Non solo continuava a lavorare, ma cristiani e musulmani continuavano ad aiutarsi l’un l’altro. Io sono maronita e vivevo a Beirut Ovest. Peraltro sono stato uno degli ultimi maroniti a restare a Beirut Ovest. E però ho perduto uno zio (scomparso), e carissimi amici. C’erano i professionisti della violenza, i cecchini: appartenere a una milizia era diventato un mestiere remunerativo. Non si trattava di tutta la popolazione libanese. C’è un’altra storia della guerra che è ancora tutta da scrivere, quella della resistenza della maggioranza dei libanesi alla violenza criminale dei miliziani e alla divisione del Paese su basi comunitarie.

Si è iniziato a scriverla, quest’altra storia, o non ancora?

No, non molto. Prima di tutto la gente è ancora molto traumatizzata dalla guerra. Quando ero ministro mi ero fatto carico delle rivendicazioni del Comitato dei parenti degli scomparsi. Tra il 1975 e il 1990 sono spariti 18 mila libanesi. Ho sostenuto alcune di queste rivendicazioni davanti al Consiglio dei Ministri, ma si è valutato che era meglio non riaprire le ferite della guerra. Io penso che prima di tutto lo Stato libanese dovrebbe dichiarare morti gli scomparsi, così che le famiglie possano vivere il loro lutto definitivo. E poi è necessario che in ogni villaggio e a Beirut ci siano lapidi con i nomi degli scomparsi e di quanti sono stati uccisi (150 mila civili). Infine occorre risarcire le famiglie. E soprattutto bisogna che una generazione di atroci miliziani, che occupano ancora la scena politica, si tolga di mezzo.

In particolare tra i più giovani c’è il grande problema dell’emigrazione. L’istruzione non garantisce sempre l’accesso al mondo del lavoro. Ci sono molti giovani che studiano qui, poi lasciano il paese per andare a lavorare all’estero. Si sente dire spesso che il problema dell’emigrazione colpisce in maniera particolare le comunità cristiane.

Questo era vero una volta, ma ora l’emigrazione colpisce tutti indistintamente: sunniti, drusi, sciiti. I cristiani hanno una base demografica più debole perché da molto tempo la loro natalità è calata. Una delle richieste che io trovo del tutto legittime è che i libanesi che si trovano all’estero e godono ancora della nazionalità attiva abbiano diritto di voto. Ma quelli che si trovano in questa condizione sono probabilmente musulmani e cristiani in pari misura. Se è così che si sperano di ristabilire gli equilibri politici interni, si rischia di andare incontro a grandi delusioni. In Libano c’è una cultura dell’emigrazione come ideale. I libanesi sono convinti che l’emigrazione sia un destino ineluttabile e che sia una buona cosa perché permette di mandare denaro al Paese. È un calcolo sbagliato. Da un punto di vista strettamente materiale è sbagliato perché i genitori spendono molto per offrire la migliore istruzione possibile ai figli. E poi, appena i figli diventano produttivi, a trarre profitto dal loro valore aggiunto è il paese che li accoglie. E qui arrivano soltanto le briciole.

Si continua a ripetere che l’emigrazione va fermata...

Non si ripete abbastanza che l’emigrazione va fermata.

A me sembra il contrario. Quando organizziamo degli incontri con i cristiani orientali ci dicono sempre che la prima urgenza è fermare l’emigrazione.

Parlavo dell’emigrazione in generale. Il problema è che non si parla abbastanza di una riforma economica indispensabile per passare da un’economia con il 3-4% di ricchi che vivono di rendita a un’economia pienamente produttiva, basata sulla giustizia sociale. Senza questa transizione, sarà impossibile fermare l’emigrazione. D’altra parte i cervelli che emigrano, cristiani o musulmani, io vorrei tenermeli tutti. Non riesco a ragionare in categorie…

Comunitariste…

Comunitariste, impossibile, impossibile. Non ce la faccio proprio ad avere riflessi comunitaristi.

 

Tra gli Ottomani e Khomeini

Pur estendendosi per soli 10.452 km2, il Libano è un Paese estremamente variegato. Lo Stato riconosce ben 18 confessioni religiose e un complesso equilibrio regola la distribuzione delle cariche pubbliche tra le denominazioni cristiane e musulmane. Il sistema del millet, caratteristico dell’Impero Ottomano, prevedeva che per lo statuto personale ogni comunità religiosa riconosciuta si gestisse autonomamente. Il Libano, dopo aver fatto parte dell’Impero Ottomano, godendo spesso di ampia autonomia, alla fine della prima guerra mondiale è stato affidato alla Francia. Divenuto indipendente nel 1943, il Paese è stato travagliato da scontri interni (1958) e ha conosciuto una sanguinosa guerra civile tra il 1975 e il 1990, con interventi dei paesi confinanti (Israele e Siria) e delle forze di pace internazionali. Attualmente il Paese è polarizzato attorno a due gruppi: l’alleanza del 14 marzo, guidata da Saad Hariri, figlio del presidente assassinato nel 2005, e il raggruppamento dell’8 marzo capeggiato da Hezbollah. Nel novembre 2009 è stato costituito un governo di unità nazionale. Il principio della wilâyat al-Faqîh cui si fa riferimento nell’intervista è una dottrina dell’imam Khomeini che teorizza la concentrazione del potere politico nelle mani delle autorità religiose sciite.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Geroges Corm, Provate a prenderci! Vi spiego perché nonostante tutto nessuno riesce a intrappolare noi libanesi, «Oasis», anno VI, n. 11, giugno 2010, pp. 71-79.

 

Riferimento al formato digitale:

Geroges Corm, Provate a prenderci! Vi spiego perché nonostante tutto nessuno riesce a intrappolare noi libanesi, «Oasis» [online], pubblicato il 10 giugno 2019, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/provate-a-prenderci-vi-spiego-perche-nonostante-tutto-nessuno-riesce-a-intrappolare-noi-libanesi.

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