Giordania, Berlino, Ankara e Zurigo: gli attentatori agiscono in nome di una religione che non conoscono

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:06:46

Berlino, Ankara, Zurigo e al-Karak, in Giordania. Quattro attentati, quattro obbiettivi diversi e altrettante diverse modalità di azione, ma un solo punto di convergenza: uccidere in nome dell’Islam. Si tratta tuttavia di una interpretazione distorta della religione islamica, come ha spiegato a Oasis Roman Caillet, esperto francese di salafismo, che in passato ha preso posizione a favore di istanze jihadiste per poi dissociarsene pubblicamente, non senza creare molte controversie in patria. Caillet cura il blog Jihadologie sul sito del quotidiano francese Libération. Nel video diffuso dai mass media dell’attentato all’ambasciatore russo Andrej Karlov, ucciso ad Ankara il 19 dicembre in un attacco non ancora rivendicato, si sente il giovane attentatore declamare in arabo un detto del profeta dell’Islam: Noi siamo coloro che hanno giurato fedeltà a Muhammad per il jihad [nahnu alladhīna bāya‘ū Muhammad ‘alā al-jihād]”. Si tratta qui di un hadīth collegato al versetto coranico che recita “O profeta, incita alla battaglia i credenti” (8,66) e contenuto nella raccolta canonica di al-Bukhārī. “Nel corso della storia – spiega Romain Caillet – questo detto è stato molto citato. Oggi è menzionato un po’ da tutti, non soltanto dai jihadisti, ma anche dai Fratelli musulmani e da Hamas”. Come del resto molti altri detti del Profeta dell’Islam, anche questo hadīth è stato più volte riproposto in diversi nashīd, gli inni di battaglia dei jihadisti, al punto che, ricorda Caillet, la maggior parte dei militanti lo conosce soltanto attraverso di essi e ignora che si tratta in realtà di un hadīth. Questa diffusa difficoltà a risalire alle origini delle espressioni utilizzate nelle rivendicazioni degli attentati o nei video testimonia già da sé una conoscenza superficiale della religione in nome della quale i jihadisti agiscono. L’attentato all’ambasciatore russo è anche prova di interpretazioni estemporanee e contrarie alla Tradizione e di un uso distorto della legge islamica. “Il diritto islamico – spiega Romain Caillet – vieta l’uccisione di ambasciatori e messaggeri che si trovino in terra d’Islam. È un concetto nato in epoca medievale. Il messaggero giungeva nelle terre islamiche in sella al suo cavallo e recava un messaggio alle autorità musulmane. Che il suo sangue non fosse lecito era espresso a chiare lettere anche nei testi fondamentalisti”. Nonostante questo, l’attentato all’ambasciatore russo – dice Caillet – ha suscitato in seno alla galassia salafita reazioni diverse e contrarie. Se i salafiti quietisti hanno condannato l’assassinio in nome della norma giuridica che vieta di uccidere gli ambasciatori, i jihadisti qaedisti hanno esultato considerando lecita questa pratica perché non ritengono la Turchia “terra d’Islam” e il suo presidente, Recep Tayyip Erdogan, un’autorità musulmana. Secondo alcuni di loro, se l’ambasciatore si fosse trovato nello Stato Islamico non avrebbe potuto essere ucciso, ma siccome si trovava in un Paese retto da un regime apostata, ucciderlo è stato lecito”. “Tra questi ultimi, un saudita ha pubblicato un video annunciando che avrebbe fatto la ‘umra, il piccolo pellegrinaggio alla Mecca, per l’anima dell’eroe che ha ucciso l’ambasciatore” – racconta Caillet.