Il Marocco pensa a cambiare i manuali di testo religiosi: a essere in gioco è il posto dell’Islam nella politica e nella società

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:03

In una serie di articoli scritti all’indomani dell’11 settembre, il celebre editorialista del New York Times Thomas Friedman indicava nell’istruzione l’arma più efficace contro il fondamentalismo islamista: “Bin Laden è una questione secondaria, ma dobbiamo farci i conti. La vera guerra per la pace in questa regione – affermava Friedman a proposito dell’Afghanistan e del Pakistan – è quella che si combatte nelle scuole. Ecco perché dobbiamo portare rapidamente a termine le nostre operazioni militari contro Bin Laden e poi andarcene. Quando torneremo, e dobbiamo tornare, dovremo essere armati di libri e scuole moderne, non di carri armati”. Gli editoriali di Friedman, che gli sarebbero poi valsi il premio Pulitzer, insistettero per alcuni mesi su questo tema e il giornalista americano finì per prendere di mira anche il sistema educativo saudita, immaginandosi una lettera aperta in cui il presidente americano George W. Bush scriveva al gran mufti di Arabia Saudita: “Non possiamo dirvi come istruire i vostri bambini, ma possiamo dirvi che diverse migliaia di bambini americani sono oggi orfani di un genitore che è caduto vittima di islamisti radicali educati nelle vostre scuole”. Sfumato “l’effetto 11 settembre”, non si è più parlato molto di questo al di fuori dei circoli accademici, finché l’ascesa dello Stato Islamico non ha riacceso i riflettori sul legame tra radicalismo religioso e programmi scolastici. In Egitto, ad esempio, tra il 2014 e il 2015 alcuni intellettuali hanno polemizzato contro l’insegnamento impartito negli istituti della moschea di al-Azhar, accusata di custodire e trasmettere un patrimonio religioso non dissimile da quello a cui si rifanno ideologi e militanti dell’Isis. Oggi la questione si ripropone in Marocco, dopo che nel gennaio scorso è stata firmata a Marrakech una “Dichiarazione sui diritti delle minoranze religiose nel mondo islamico”, un documento che tra le altre cose invita istituzioni e autorità educative musulmane a operare “un esame coraggioso dei programmi d’insegnamento per rimuovere in modo onesto ed efficace qualsiasi contenuto che inciti all’estremismo”. Dieci giorni dopo la firma della dichiarazione, il re Mohammad VI ha chiesto al governo di intraprendere una riforma dei programmi e dei manuali d’istruzione religiosa islamica, materia obbligatoria dalla scuola primaria fino alla fine delle superiori. Le parole del re hanno innescato un vivace scambio di opinioni e accuse tra favorevoli e scettici. Il 16 febbraio, Khaled al-Jam‘i ha pubblicato sul sito al-Aoual un articolo intitolato “Chi semina wahhabismo raccoglie Isis”. In realtà l’articolo non parla né di wahhabismo, né di Isis, ma descrive le “mille ore” di insegnamento religioso a cui è sottoposto ogni scolaro marocchino come un “indottrinamento vero e proprio”, in cui “non c’è spazio per la discussione, per il pensiero e per gli interrogativi”. Per porre fine a questo stato di cose, al-Jam‘i invoca un ripensamento radicale dell’insegnamento religioso, prendendo a modello la riforma realizzata all’inizio degli anni 90 in Tunisia dall’allora ministro dell’educazione Muhammad Charfi, intellettuale prestato alla politica e convintissimo fautore della riconciliazione tra Islam e modernità. All’articolo apparso su al-Aoual ha risposto Ahmad al-Raissouni, influente ideologo islamista del Movimento dell’Unicità e della Riforma e del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (PJD) oggi al governo. Raissouni contesta ad al-Jam‘i alcuni riferimenti impropri alla tradizione islamica, gli rimprovera di non suffragare con esempi concreti i suoi attacchi all’insegnamento religioso attuale e soprattutto respinge con un ribaltamento di prospettiva la proposta di riforma secondo il modello di Charfi: “Perché – scrive Raissouni – le generazioni che, dall’asilo all’università, si sono formate assorbendo il progetto politico, culturale ed educativo di Charfi, sono oggi le più ricettive nei confronti dell’Isis, e sia in Iraq e in Siria sia nella stessa Tunisia sono le più aggressive ed estremiste? […] E perché i giovani che sono nati e sono stati educati nelle società e nelle scuole europee […] diventano improvvisamente militanti dell’Isis o di al-Qaida”? Non troppo diversi da questi sono gli argomenti usati in altri due articoli pubblicati sul popolarissimo quotidiano online Hespress, sempre marocchino. Nel primo, il predicatore e studioso di scienze islamiche Muhammad Buluz sostiene che i rischi di radicalizzazione non provengono dall’insegnamento dell’Islam, ma dal suo abbandono. L’autore del secondo, Muhammad Awam, accusa al-Jam‘i di fornire una rappresentazione caricaturale della “sharia” e una visione parziale della “ragione”, di fatto ridotta alla “ragione illuminista”. Ma aggiunge anche che l’eventuale riforma dell’insegnamento religioso spetterebbe unicamente agli ulema e ai professori competenti in materia. Si ripetono in questo modo i termini del dibattito che nei primi anni 2000 aveva portato alla riforma del codice di famiglia (la cosiddetta mudawwana), un passo importante verso la parità di diritti tra uomo e donna. All’epoca la contesa non verteva soltanto sulla definizione del ruolo della donna, ma riguardava anche la concorrenza tra i vari attori che rivendicavano una competenza esclusiva sulla questione. Anche in questo caso in gioco non è tanto il contenuto dei manuali scolastici, quanto il posto dell’Islam nella politica e nella società marocchina.