Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:50

Il convegno svoltosi venerdì scorso all’Università Ca’ Foscari sulla traduzione in arabo della Costituzione italiana nell’ambito del dialogo interculturale mostra, se mai ce ne fosse bisogno, che le istituzioni sono sempre più chiamate a fare i conti con il processo di meticciato di civiltà attualmente in atto a livello globale. Non a caso alla questione della traduzione in arabo della Costituzione italiana fa da sponda, si pensi al recente dibattito sulla nuova Costituzione irachena, quella dell’importazione di principi e categorie nati dalle esperienze giuridiche europee da parte delle costituzioni di molti paesi del Medio Oriente. Qualcuno può ritenere che si tratti di un’operazione più che altro simbolica. Ciò non toglie che la traduzione è sempre il primo passo concreto in ogni tentativo di dialogo tra quanti parlano, anche metaforicamente, lingue diverse. Nella stessa direzione, dalle lingue europee all’arabo, da alcuni anni anche la Fondazione Oasis è impegnata in un’opera di traduzione di testi in un tentativo di scambio e reciproco arricchimento sia con i cristiani che vivono nei paesi mediorientali sia con i musulmani. Il dato interessante da rilevare sulla scorta di queste esperienze è che la traduzione non può esaurirsi in un procedimento linguistico. Essa richiede alcuni prerequisiti di mutua comprensione che in un rapporto interreligioso o interculturale non sono affatto scontati. Durante il convegno veneziano è stata per esempio sollevata la questione della traducibilità di termini che trovano in arabo corrispondenze talvolta meramente lessicali. La stessa parola “costituzione”, ha sottolineato l’arabista e islamologa Ida Zilio Grandi, tradotta in arabo con Dustur perde molto del senso suggerito dall’etimo latino. Ma il problema non si limita a queste brevi notazioni. La traduzione, in senso più ampio, è anche l’operazione che i portatori di diverse visioni del mondo devono saper metter in atto non solo per entrare vicendevolmente in dialogo, ma anche per rivendicare il giusto diritto di esprimersi in uno spazio pubblico pluralista. Nel caso degli appartenenti alle tradizioni religiose, per esempio, è ovvio che non potranno proporre e applicare le rispettive formulazioni dogmatiche, pena il rischio di una radicale incomunicabilità o peggio di un’affermazione violenta, quanto essere capaci di tradurle in enunciazioni universalmente accessibili. Un cristiano, per esempio, non si riferirà direttamente al dogma della Trinità, ma dirà la bontà della relazione e la necessaria coesistenza di identità e differenza. Allo stesso modo un musulmano non dovrà far valere pubblicamente l’assoluta trascendenza e onnipotenza di Dio, ma sottolineare la natura creaturale e quindi limitata dell’uomo. È ovvio però che in questa operazione le persone in dialogo devono essere disposte mettere in gioco sia la loro identità sia i contenuti cui fanno riferimento. Ogni traduzione implica potenzialmente la trasformazione sia della lingua di partenza che di quella di arrivo. Nel caso di una costituzione o di un sistema normativo ciò implica per i soggetti che vi si confrontano di accettarne e assumerne il linguaggio. Ma significa anche che quest’ultimo potrà mutarsi per assumere nuovi contenuti e modalità espressive. Non si tratta di rinunciare ai propri principi, quanto ammettere che loro interpretazione possa variare in un processo inesauribile. A questo proposito l’Imam Pallavicini, vicepresidente della Comunità religiosa islamica italiana, invocava sul Gazzettino di venerdì scorso la necessità per i musulmani d’Italia di dotarsi di forme attraverso le quali esprimere la loro unità nella diversità della società italiana. È un’aspirazione giusta e legittima. Rovesciando i termini del problema, aggiungiamo che è necessario garantire, tanto nella società civile quanto nelle istituzioni, la diversità degli attori in campo nell’unità di uno spazio condiviso. È certo un compito arduo, ma non privo di fascino. L’integrazione fra culture diverse non può dipendere infatti dalla volontà di far rientrare tutte le differenze in un linguaggio comune deciso a priori, quanto dalla disponibilità di ogni soggetto a mettere in campo la propria libertà e creatività per trovare forme inedite di convivenza e collaborazione. *Articolo apparso su Il Gazzettino del 27 settembre 2009.