Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:58
Le parole sono più veloci e possono essere perfino più efficaci dei fatti. Uno dei primi ad accorgersene è stato Ian Buruma. Storico, studioso dell’Estremo Oriente, grande esperto di giornalismo internazionale, appartiene all’élite più ristretta dell’accademia anglosassone, ma non ha mai rinnegato le sue origini olandesi. Forzando appena la mano, lo si potrebbe definire un intellettuale che vive a New York, provvisoria capitale dell’impero globale, ma che porta dentro di sé un’eredità imperiale alternativa, in virtù della quale la globalizzazione stessa perde ogni connotato di novità: la praticava già nel Seicento la Compagnia delle Indie, precoce e perfetto esempio di multinazionale capace di annullare ogni distinzione fra politica e affari.
Assassinio a Amsterdam di Buruma (2006) è un documento indispensabile per comprendere che cosa è accaduto e che cosa sta accadendo nel rapporto fra il sistema dei media e il fondamentalismo islamico, tra la modernità accelerata della comunicazione contemporanea e l’ingannevole arcaismo di cui si ammantano i predicatori del jihad armato. Dal punto di vista formale, il libro di Buruma è un reportage, sia pure di alta classe. L’autore lo realizza all’inizio del 2005, a poche settimane di distanza dall’omicidio del regista Theo Van Gogh, abbattuto a colpi di pistola e poi sgozzato nella tragica parodia di un’esecuzione rituale. Succede per strada ad Amsterdam il 2 novembre 2004 ed è il segnale che esiste un’altra versione del terrorismo di matrice islamica, meno spettacolare e più insidiosa di quella messa in scena da al-Qaida a New York e Washington l’11 settembre 2001. L’assassino di Van Gogh è un cittadino olandese di origine marocchina, Mohammed Bouyeri, e la sua formazione religiosa è molto precaria, come Buruma ha modo di dimostrare. Per quanto abborracciate, le convinzioni di Bouyeri lo hanno comunque spinto a provare indignazione davanti a
Submission, il cortometraggio che Van Gogh ha realizzato in collaborazione con l’attivista somala Ayaan Hirsi Ali e nel quale alcuni versi del Corano sono scritti con l’henné sul corpo nudo di una donna, a denunciare il carattere discriminatorio e violento dell’Islam più intransigente. In questo contesto il fatto che Bouyeri sia quello che solitamente i telegiornali definiscono “cane sciolto” o “lupo solitario” (Hans Magnus Enzensberger ha parlato, più correttamente, di “perdenti radicali”) non è affatto un elemento rassicurante.
Il contesto, appunto. Il grande assente nel racconto mediatico di questi anni. Buruma lo ricostruisce collegando l’uccisione di Van Gogh a quella di Pym Fortuyn, il politico olandese la cui ascesa fu brutalmente stroncata il 6 maggio 2002 da un militante ambientalista, Volker van der Graaf, a sua volta esasperato dalle dichiarazioni antislamiche dello stesso Fortuyn. Massima espansione dei diritti individuali e minima accoglienza nei confronti degli immigrati, specie se di fede musulmana: una quindicina di anni fa il programma di Fortuyn sembrava una bizzarria, oggi rischia di imporsi come modello per le politiche europee.
In Assassinio a Amsterdam, però, Buruma non si accontenta di collegare tra loro i due fatti di sangue. Torna ancora più indietro nel tempo, per esattezza al 1964, quando un altro programma televisivo (
Submission è stato trasmesso dal servizio pubblico olandese nell’agosto del 2004) aveva suscitato un’analoga ondata di indignazione e risentimento. Solo che in quel caso la satira non era rivolta all’Islam ma – assai blandamente, fa notare Buruma – al Cristianesimo. Si trattava di una riscrittura molto disinvolta del Decalogo e di altri brani della Bibbia, con la parola “Dio” metodicamente sostituita dalla parola “schermo”, nel tentativo di mettere in ridicolo la crescente mania per la tv.
Che cosa è successo nel mezzo secolo che corre tra quella remota bagarre mediatica e la morte di Van Gogh? La domanda di Buruma pare trovare una risposta abbastanza immediata nella rapidità che il processo di secolarizzazione ha assunto in gran parte d’Europa.
Non per niente in Assassinio a Amsterdam vengono riportate alcune affermazioni della stessa Ayaan Hirsi Ali, relative alla necessità che nella cultura islamica si producano «libri, telenovelas, poesie e canzoni che mostrino come stanno le cose e si prendano gioco dei precetti religiosi». Ci vuole una versione musulmana di
Brian di Nazareth dei Monty Python, commenta con un certo
aplomb Buruma.
Quello che abbiamo avuto, invece, sono state le vignette dissacranti di Charlie Hebdo, peraltro equanimemente distribuite fra le diverse confessioni religiose disponibili. Il quadro di riferimento tracciato da Buruma aiuta solo in parte, purtroppo, a comprendere l’accelerazione di cui siamo stati testimoni nel corso del 2015, un’
escalation che va dalla calcolata decimazione del 7 gennaio, quando a cadere per mano dei fratelli Saïd e Chérif Kouachi sono proprio i redattori di
Charlie Hebdo, alla strage indiscriminata del 13 novembre, di cui sono vittime gli spettatori del teatro Bataclan e altri frequentatori delle serate parigine. Le coordinate restano quelle individuate in
Assassinio a Amsterdam (secolarizzazione europea, radicalismo islamico, tolleranza e intolleranza verso il ruolo che la religione può assumere sulla scena pubblica), ma a subire una trasformazione altrimenti impensabile è stato il paesaggio al quale la mappa dovrebbe aderire: nel decennio che ci separa dalla pubblicazione del libro di Buruma infatti, non soltanto il fondamentalismo islamico ha assunto connotazioni del tutto inedite, ma lo stesso sistema dei media è entrato in una crisi senza precedenti, che ne sta minando in modo drammatico l’autorevolezza e la consapevolezza.
Una tempesta perfetta, dunque, nella quale la fragilità dell’apparato comunicativo occidentale – ulteriormente incrinato dagli esiti della crisi finanziaria del 2008 – viene a rafforzare le posizioni di organizzazioni terroristiche ormai persuase che, anche per quanto riguarda l’avanzata del califfato, la diffusione di un messaggio bellicoso è già di per sé un atto di guerra. Da questo punto di vista, il testo che andrebbe oggi affiancato all’ormai classica indagine di Buruma è
Parole armate di Philippe-Joseph Salazar (2015), singolare trattato di retorica che permette di decifrare con esattezza i sottintesi e le finalità dei proclami di al-Baghdadi e delle pubblicazioni propagandistiche diffuse in rete dall’Isis nelle maggiori lingue europee. Un’analisi che conferma, ampliandone la portata, il principio generale che trovavamo già esposto con chiarezza in
Assassinio a Amsterdam: «Il
pathos collettivo è la via più facile per trattare questioni che preferiremmo non guardare direttamente in faccia» (p. 202).
I saggi raccolti in questo e-book costituiscono, al contrario, un tentativo di non abbassare lo sguardo. Il fenomeno è osservato da prospettive diverse, sulla base di competenze e sensibilità differenti, ma comunque accomunate dal desiderio di verificare la possibilità di un meticciato di culture ai tempi del califfato e di
Charlie Hebdo, nell’epoca in cui la pervasività dei social media si intreccia con la tenace resistenza opposta da forme di comunicazione più lenta e circostanziata.
L'articolo è un estratto dell'e-book
Il tablet e la mezzaluna. Islam e media al tempo del meticciato