Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:09

Dopo le ultime elezioni egiziane, che hanno visto l’affermazione plebiscitaria dei Fratelli musulmani e dei partiti salafiti, il dibattito sull’assetto futuro del Paese non accenna a diminuire d’intensità. Anche al-Azhar, per volontà diretta dell’attuale Shaykh, Ahmad at-Tayyeb, vi partecipa attivamente. Già qualche mese fa la storica moschea-università, tradizionale punto di riferimento dell’Islam egiziano e più in generale del mondo sunnita, aveva chiamato a raccolta un gruppo di intellettuali per un’importante dichiarazione sul futuro dell’Egitto. Segue ora, dopo un documento di sostegno alla mobilitazione dei popoli arabi per la libertà e la democrazia, una nuova dichiarazione dedicata esclusivamente all’ordinamento delle libertà fondamentali. Per gli estensori del documento, esse si dettagliano in libertà di credo, di opinione e di espressione, di ricerca scientifica e di creatività artistico-letteraria. Pluralismo interno Per valutare adeguatamente il documento occorre considerare che esso ha una doppia dimensione, nazionale e internazionale. A livello egiziano, vi si legge una critica di alcune posizioni salafite, in particolare laddove si accenna ai possibili abusi del principio di ordinare il bene e proibire il male. Tale principio, di derivazione coranica, insegna che ogni musulmano ha il compito di vigilare sulla condotta della comunità per favorire la diffusione delle virtù e reprimere l’emergere dei vizi. Il problema è che, se l’indicazione viene intesa in modo giuridico e non soltanto etico, porta facilmente a un controllo invasivo dei singoli da parte di censori autonominati (si pensi alla polizia religiosa saudita), fino agli estremi di una spiccia “giustizia fai-da-te”, come avviene non di rado per le accuse di blasfemia in Pakistan. È questa la ragione per la quale la tradizione politica maggioritaria ha inteso il principio in termini non assoluti, ad esempio stipulando che “il comando del bene” possa avvenire al limite anche nella forma di una semplice condanna interiore («nel cuore»). Storicamente inoltre essa ha attribuito di preferenza la funzione della censura (hisba) a funzionari precisi piuttosto che alla comunità in genere. Il testo di al-Azhar stigmatizza i «tentativi di indagare nelle coscienze dei fedeli» (il termine per “indagare” è significativamente taftîsh, che richiama in arabo le perquisizioni della polizia) e motiva questa condanna sia sulla base degli ordinamenti costituzionali sia in riferimento alla sharî‘a. Di lì il discorso, nella conclusione del punto primo (probabilmente il passaggio concettualmente più denso dell’intero documento) conduce immediatamente alla liceità del pluralismo interno all’Islam. Esso è ricondotto allo sforzo interpretativo, che, come argomenta il successivo secondo punto, è sempre fallibile e dunque esposto a revisioni. Nessuno può pretendere di possedere la verità assoluta in materia religiosa, soprattutto là dove non vi sia un testo esplicito o un consenso di lunga data. Di fatto il problema attuale, in molti Paesi musulmani, è proprio il proliferare di interpretazioni e pareri giuridici (fatwe) contrastanti. Si comprende allora perché il documento, ancora in polemica con alcune tendenze salafite, dichiari che «nessuno ha il diritto di fomentare tensioni confessionali» e specifichi le condizioni per praticare lo sforzo esegetico: l’opinione dev’essere «scientifica», «supportata da prove», prodotta «negli ambiti specializzati» e «al riparo da tensioni». In poche parole, niente cyber-muftî. L’implicazione è naturalmente che al-Azhar stessa è l’istituzione più deputata a offrire «una comprensione mediana e retta della religione». Religioni e cittadinanza Dal pluralismo interno alla libertà di religione il passo concettuale è breve. Anche qui la prima preoccupazione è frenare le tensioni confessionali esplose in questi mesi in Egitto, per quanto il dibattito internazionale sulla libertà religiosa sia implicitamente ben presente. Il documento insiste molto sulla santità (qadâsa) e sacertà (hurma) di tutte e tre le religioni monoteiste. La citazione del versetto 2, 256 («Non c’è costrizione nella fede») certifica la nuova interpretazione di questo passo coranico rispetto alla tradizione medievale, che tendeva a limitarlo il più possibile, quando non semplicemente ad abrogarlo (cfr. Ida Zilio-Grandi, Fede e libertà. Il conflitto delle interpretazioni, «Oasis» 7). È anche molto rilevante che la libertà di religione (o più precisamente, di credo, ‘aqîda) sia impostata a livello di «ciascun individuo» e non delle comunità. Tuttavia essa non è assoluta: vi è infatti «il diritto della società di preservare le fedi celesti». Si tratta certamente del punto più delicato e ambiguo, un nodo riproposto sostanzialmente negli stessi termini anche nell’ultima sezione, dedicata alla libertà di creatività artistico-letteraria. Dal documento si ricava (e non è una novità) la tutela delle comunità religiose già esistenti, si intuisce la possibilità di un dissenso interiore del singolo (vale anche per i musulmani? Pare di sì), ma esso sembrerebbe vincolato alla massima discrezione. Quando il diritto di ciascuno «ad abbracciare le idee che vuole» diventa un attacco «alla sensibilità altrui» o alla «sacralità delle tre religioni?» In termini di antropologia cristiana, la domanda chiama in causa la polarità individuo-comunità e il nesso libertà-verità. Implica la polarità individuo-comunità, perché la libertà di espressione deve tener conto delle sensibilità altrui (cosa che l’Occidente pare aver dimenticato), e al tempo stesso tocca il nesso libertà-verità, visto che l’una non può essere concepita fino in fondo senza l’altra. Su questo decisivo punto, che ogni società – Occidente compreso – ha sempre necessità di riguadagnare, il documento di al-Azhar rimane vago (ciò che, paradossalmente, può essere anche un bene). Certamente però la questione è lungi dall’essere risolta. A livello politico, comunque, la libertà di religione si traduce nel principio di cittadinanza (muwâtana) che implica «l’uguaglianza assoluta nei diritti e nei doveri» tra tutti gli egiziani, dunque anche tra copti e musulmani. L’enunciazione di principio dovrebbe condurre a discutere le questioni dei luoghi di culto e dei matrimoni misti che, come ricordava Tewfik Aclimandos, sono le perenni fonti di tensione tra le due comunità religiose. Sulla prima, per altro, si registra già una significativa presa di posizione della “Casa della Famiglia egiziana”, immediatamente dopo i fatti di Maspero dell’ottobre scorso. Peraltro la cronaca di questi giorni, con i ripetuti attacchi alle chiese copte, non è per nulla incoraggiante. Quale ragione? Come ha rilevato Samir Khalil Samir analizzando il documento per AsiaNews, non è chiaro l’eco che questa dichiarazione avrà nel contesto egiziano. Non è detto infatti che il nome di al-Azhar sia sufficiente per accreditarlo presso l’intera società. La considerazione non sminuisce tuttavia l’importanza di alcune prese di posizione contenute nel testo. Tra di esse spicca in particolare quella che viene definita «la regola d’oro» dell’esegesi islamica: «Quando vi sia un conflitto tra la ragione e la tradizione, si preferisca la ragione e s’interpreti la tradizione». In che modo? Tenendo sempre presenti «le finalità della sharî‘a» e «l’interesse pubblico» (si parla in un altro passo addirittura del «bene comune»). La strada è sicuramente promettente e in epoca moderna si contano già molti esempi di interpretazioni di questo tipo. Una domanda su cui converrà tornare è però quale tipo di ragione abbia in mente il testo. A giudicare dal lungo punto terzo, sembra che la preminenza assoluta sia data alla ragione scientifica, se non addirittura puramente tecnologica. È invece evidente che, per una rinnovata esegesi – e più in generale per la nuova interpretazione culturale della fede islamica richiesta dalle rivoluzioni arabe – occorrerà fare appello a tutte le dimensioni della ragione umana. Non è prima di tutto una questione di successo mondano e di potenza, come il terzo punto lascerebbe intendere, anche se la dimensione politica va giustamente messa in conto. Occorre una concezione di ragione che sia in grado di «far crescere la coscienza della realtà, stimolare l’immaginazione, elevare il senso estetico, educare i sensi umani, ampliare le capacità intellettive e approfondire l’esperienza di vita e di società propria dell’uomo». Ecco enunciato il programma di un autentico umanesimo. Quell’umanesimo che la civiltà islamica, nelle sue figure più elevate, ha già dimostrato di apprezzare e praticare.