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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:02

La storica Nelly Amri, docente alla Facoltà di Lettere dell’Università Manouba di Tunisi, presenta in questo libro un’articolata indagine sulle modalità con cui, nel XIV e XV secolo, gli uomini maghrebini, in particolare dell’Ifriqiya, concepivano la vita nell’aldilà e speravano nella salvezza eterna. Lo fa attraverso una prospettiva particolare, quella dei santi intercessori – fedele in questo a un interesse che l’ha portata nel corso di precedenti studi a un’attenta esplorazione della santità nelle società islamiche tardo-medievali – e prendendo le mosse da un’epoca segnata da un profondo travaglio. Siamo infatti nel periodo in cui, i musulmani maghrebini, nonostante la ripresa economica e la stabilizzazione politica della regione dopo il fallimento del tentativo di unificazione imperiale ad opera degli almohadi, assistono praticamente impotenti alla perdita degli ultimi possedimenti arabi in Spagna e al mesto approdo, sulla sponda meridionale del Mediterraneo, degli esuli andalusi. Ma soprattutto è il momento in cui il dilagare della peste costringe gli uomini a un confronto sempre più insistente con «lo spettro della morte». Ma non furono solo queste circostanze particolari a orientare la preoccupazione degli uomini verso il destino e i fini ultimi della vita. Amri mette bene in luce come sia la teologia sia il diritto islamici si fossero da tempo dotati di un «nucleo relativamente stabile» di rappresentazioni escatologiche, a partire dall’apparizione dei primi corpora di tradizioni nei secoli VIII e IX fino alla Ihyâ’ ‘ulûm al-dîn, la summa teologica di al-Ghazâlî, la cui influenza sulla cultura religiosa maghrebina fu di primaria importanza. Quello che cambia è il grado di attenzione con cui gli uomini dell’epoca guardano alla loro sorte e a quella dei loro cari, ben espressa da una serie di domande che, benché parte dell’esperienza di ogni uomo, affiorano in questo periodo e in questo contesto con più forte insistenza: quale destino ci aspetta nell’aldilà? La beatitudine o il tormento eterni cominciano nella tomba o si manifestano soltanto dopo il Giorno del Giudizio? Che ne è dei bambini morti in giovane età? Ma soprattutto: cosa possono fare i vivi per i loro morti? E questi ultimi, una volta lasciata la vita terrena, possono ancora qualcosa per meritarsi la salvezza eterna? Da questi interrogativi scaturiscono una serie di pratiche funebri (visite ai defunti, orazioni e invocazioni a loro favore, elemosine) che rendono tombe e cimiteri luoghi di una solidarietà tra i vivi e i morti. Certo, molte di queste pratiche riemergevano evidentemente da un fondo pre-islamico molto antico, e proprio per questo furono guardate con sospetto dall’Islam prima che esso vi trovasse una giustificazione legale e una legittimazione sulla base della stessa sunna di Muhammad. Teologi e giuristi continuarono tuttavia a prestarvi una particolare attenzione e a verificarne caso per caso la compatibilità con il dettato della rivelazione. Lo dimostra il peso crescente che, nel Maghreb scosso dalla peste, finirono per assumere i temi escatologici e soteriologici nei pareri e nelle speculazioni di qâdî e ‘ulamâ’. I loro scrupoli sono infiniti e vanno dal modo in cui viene vestito il defunto, che non deve essere troppo ostentatorio, alla legittimità delle varie espressioni del lutto, all’efficacia delle elemosine versate in suffragio delle anime. Il dibattito, che raggiunge in certe circostanze il parossismo casuistico, è complicato dal fatto che istituti tipici del diritto islamico vengono piegati alle esigenze della ritualità funeraria: è legale, ci si chiede all’epoca, destinare un waqf alla salmodia del Corano sulla tomba del defunto nei sette giorni successivi al suo trapasso? E, se sì, a chi va il merito dell’azione, al defunto, al suffragante, o al salmodiatore? Il clima di incertezza e l’intento moralizzante di teologi e giuristi sono d’altra parte le condizioni in cui si realizzò, nel Maghreb, la tawbat al-A‘râb (il pentimento dei beduini), fenomeno di conversione e sedentarizzazione delle popolazioni nomadi che investì tutte le dimensioni della vita sociale. Il tajdîd al-dîn (il rinnovamento religioso), la lotta contro il fasâd (la corruzione morale), l’imitazione di Muhammad e il ritorno al purismo dei salaf (i pii antenati delle origini) divennero i temi ricorrenti di un risveglio religioso caratterizzato dal proliferare di quelle istituzioni, zâwiya e madrasa, che avrebbero segnato in modo indelebile il volto dell’Islam nord-africano. Ma l’esito più significativo di questo periodo è il ruolo che Muhammad finì per assumere nella tradizione spirituale maghrebina, non solo come Profeta e tramite della rivelazione, ma in qualità di intercessore tra Allah e i fedeli. Segno più visibile di questa venerazione fu la progressiva introduzione della celebrazione del Mawlid, l’anniversario della nascita del Profeta, e la sua istituzionalizzazione come festa ufficiale da parte di tutte le dinastie maghrebine dell’epoca, oltre che l’ossessiva esibizione della discendenza profetica da parte di personaggi e famiglie in cerca di una legittimazione religiosa. E, se anche queste innovazioni dovettero inizialmente superare le resistenze e i sospetti dei giuristi malikiti, ben più entusiasticamente furono accolte dai semplici fedeli, le cui forme di pietà finirono per essere sempre più pervase da preghiere, invocazioni e litanie rivolte al Profeta. Soprattutto si sviluppò una concezione della spiritualità sufi e della santità rigorosamente incentrate sul modello profetico: la walâya muhammadiyya. A partire da questo periodo, la relazione del santo con il Profeta – scrive la Amri – «si comprende attraverso il prisma dell’eredità spirituale, al-wirâtha, quello della filiazione e infine quello dell’educazione, dal momento che il santo è nel contempo erede del Profeta, suo “figlio” e colui che, attraverso la sua Sunna e le sue virtù, il Profeta ha educato» (p. 147). Non ci troviamo più di fronte alla spiritualità sufi primitiva, la cui espressione culminante era la fusione mistica con l’Assoluto, ma alla ricerca dell’incontro personale con il Profeta e all’attualizzazione della sua sunna tramite il takhalluq bi-akhlâq al-rasûl, l’acquisizione delle stesse virtù morali del Profeta (p. 154). È estremamente significativo in questo senso il paragone, proposto dall’autrice, tra il mi‘raj del celebre mistico andaluso Ibn ‘Arabî e quello di un ‘Abd al-Rahmân Al-Tha‘âlibî (morto tra il 1468 e il 1470). Il primo, ripercorrendo le tappe della nota salita al Cielo di Muhammad, conclude la sua ascesa mistica al cospetto di Dio; il punto finale del secondo è invece l’incontro con il Profeta stesso, motivo sempre più ricorrente di tutte le visioni oniriche. E i santi diventano messaggeri di speranza proprio perché, in un epoca in cui le domande circa il destino personale si fanno pressanti, il Profeta affida loro il messaggio dell’infinita misericordia di Dio, di quella rahma che «ha ormai un volto: quello del ghawth (il soccorso), polo d’eccellenza che occupa il vertice di una gerarchia invisibile di santi intercessori e sui quali poggia il destino del mondo e delle creature» (p. 240). In questo studio, solidamente fondato sull’analisi attenta di raccolte agiografiche, pareri giuridici e trattati teologici, l’autrice ha il merito di ricollocare il fenomeno della spiritualità sufi in una giusta prospettiva. Attraverso il tema della speranza, Amri sottrae infatti la santità sia allo spontaneismo naturalistico e folklorico in cui l’aveva relegata tanta antropologia, sia allo gnosticismo esoterico ed elitistico, mostrando come, pur nella continua dialettica con le correnti più legaliste, la tensione verso la santità faccia parte integrante dell’Islam e della sua esperienza di popolo. Michele Brignone

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