Per anni il principale partito islamista tunisino si è opposto frontalmente ai regimi di Bourguiba e Ben ‘Ali. Dopo la rivoluzione è dovuto scendere a patti con le forze politiche laiche e oggi cerca un difficile equilibrio tra il pragmatismo dei suoi dirigenti e il dogmatismo del suo elettorato storico

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:30

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Anne Wolf, Political Islam in Tunisia. The History of Ennahda, Oxford University Press, New York 2017

 

 

In Political Islam in Tunisia: The History of Ennahda Anne Wolf fornisce un’accurata descrizione dell’evoluzione di al-Nahda sia dal punto di vista strutturale che ideologico. L’approccio critico e multidisciplinare della ricercatrice inglese, che intreccia scienza politica, storia, sociologia, studi islamici e, soprattutto, interviste e ricerca documentale, colma una grande lacuna nella conoscenza del principale attore islamista della Tunisia post-rivoluzionaria, spesso analizzato senza considerare il suo background storico e politico. In particolare, la ricerca ha il merito di mettere in luce la doppia anima della Tunisia: se, infatti, da una parte si è consolidata l’immagine del Paese come «fortezza della laicità» (p. 1), l’emergere del partito islamista al-Nahda e di altri movimenti salafiti più conservatori dopo la rivoluzione sottolinea l’esistenza di una dimensione religiosa profondamente radicata nella società.

 

L’analisi della storia di al-Nahda, e più in generale dell’Islam politico in Tunisia, inizia considerando il modo in cui la centenaria tradizione islamica della Tunisia, patria di alcune tra le più prestigiose università islamiche del mondo, si è rapportata a partire dalla fine del diciannovesimo secolo con l’influenza francese. Il periodo del Protettorato (1881-1956) ha infatti contribuito a sviluppare il «mito di una Tunisia laica» (p. 11), un paradigma abbracciato da molti e che diverrà dominante dopo l’indipendenza del Paese. Questa nuova realtà suscitò un acceso dibattito all’interno degli ambienti religiosi, che vedevano nell’influenza europea una minaccia all’identità islamica e araba tunisina. Dal confronto tra il modello culturale e politico europeo e gli ambienti religiosi emersero due realtà culturali distinte: da una parte si sviluppò una tendenza politica laica di matrice occidentale, dall’altra una dimensione culturale religiosa che cercava di preservare i valori islamici all’interno di una società in profondo cambiamento.

 

L’indipendenza ottenuta nel 1956 segnò l’inizio di una massiccia campagna di modernizzazione del Paese. Il governo di Habib Bourguiba, che si era formato in ambienti francesi, promosse un vasto progetto di secolarizzazione fondato sull’esclusione della dimensione islamica dal discorso pubblico secondo il modello della laïcité francese, che relega l’espressione religiosa nello spazio privato. Nonostante le forti limitazioni statali, tuttavia, la tradizione islamica tunisina non si dissolse ma assunse nuove forme. Di fondamentale importanza in questo processo di riorganizzazione degli spazi religiosi fu l’influenza esercitata dalla Fratellanza Musulmana, che contribuì a indirizzare i musulmani osservanti verso forme più articolate di attivismo islamico. E mentre il governo concentrava i propri sforzi sulle crescenti manifestazioni dell’estrema sinistra, gli attivisti religiosi riuscirono ad accrescere il proprio consenso, arrivando a costituire al-Jamā‘a al-Islāmiyya (il Gruppo Islamico), un’organizzazione che aveva l’obiettivo di riportare l’Islam all’interno dello spazio pubblico e di promuovere la creazione di uno Stato fondato sulla sharī‘a. Alla creazione del gruppo partecipò anche Rachid Ghannouchi, attuale presidente di al-Nahda, che insieme ad alcuni collaboratori fondò la rivista al-Ma‘rifa, destinata a discutere temi sociali e religiosi. Benché agli inizi il gruppo non si dedicasse direttamente alla politica, gli sviluppi geopolitici a livello internazionale – in primis, la rivoluzione islamica del 1979 in Iran – e le crescenti tensioni sociali all’interno del Paese contribuirono a politicizzare il movimento, che intraprese un percorso di opposizione silenziosa al regime.

 

Cambiando il proprio nome in Movimento della Tendenza Islamica (MTI), il gruppo ottenne il sostegno di ampi segmenti della popolazione, tra cui molti giovani che portarono la battaglia ideologica anche all’interno delle università, dove gli scontri tra studenti religiosi e studenti di sinistra divennero sempre più frequenti. Durante gli anni ’70, inoltre, molti membri dell’organizzazione cominciarono a prendere le distanze dai Fratelli Musulmani in un contesto di crescente consapevolezza dell’unicità dell’esperienza islamista tunisina, molto diversa da quella egiziana: come afferma l’autrice, infatti, «mentre la strategie di altre organizzazioni [islamiste] nella regione rientravano in una dimensione internazionale della Fratellanza Musulmana, ciò era più difficile nel caso della Tunisia, dal momento che Ghannouchi era più indipendente dal punto di vista intellettuale» (p. 50). Nonostante il Movimento continuasse ad operare e svilupparsi prevalentemente nell’ombra, la risposta del governo non tardò ad arrivare: temendo che il successo del movimento islamista potesse minare le fondamenta del regime, lo Stato intraprese una battaglia sempre più violenta contro gli attivisti islamici, sfociata nella loro persecuzione e in arresti di massa.

 

Dopo il colpo di stato “medico” nel 1987, Zin al-‘Abidin Bin ‘Ali assunse una linea più moderata nei confronti della sfera religiosa, insistendo sull’identità arabo-islamica della Tunisia per rafforzare la propria legittimità. Tuttavia, il successo del movimento islamista, divenuto Harakat al-Nahda (Movimento della Rinascita) nel 1989, in occasione delle elezioni parlamentari indette nello stesso anno, spaventò il presidente, che intraprese una battaglia contro ogni manifestazione religiosa pubblica. «Le elezioni furono per Bin ‘Ali per capire meglio al-Nahda, da chi fosse composto e quale fosse la sua forza. Il risultato fu una catastrofe, iniziò allora la nostra era più buia» (p. 71), sostiene un’attivista, intervistata dall’autrice, che aveva vissuto questa drammatica fase di transizione del movimento. Il nuovo governo, infatti, adottò una linea ancora più dura nei confronti di al-Nahda: i membri del movimento furono obbligati a operare in segreto, molti vennero arrestati e torturati, la leadership fuggì all’estero e molti membri, persa la fiducia nell’ideologia del movimento, si unirono a gruppi più violenti.

 

Il ventennio che seguì la presa del potere di Bin ‘Ali fu un momento di profondo cambiamento per al-Nahda, il quale vedeva i propri membri sparsi in più Paesi e perseguitati in patria. In particolare, Wolf si sofferma sul dibattito interno al movimento, già iniziato negli anni ’80, sulle strategie da adottare per rispondere alle violenze e ai soprusi del regime. Da una parte si trovavano i membri più radicali che, incoraggiati dallo sviluppo del jihadismo internazionale, invocavano la rivoluzione e la lotta armata per abbattere il regime tunisino, e dall’altra la maggior parte della leadership in esilio, che promuoveva una politica riformista non violenta per incoraggiare il dialogo nazionale. Benché, infatti, all’inizio del suo percorso lo stesso Ghannouchi avesse sostenuto l’instaurazione dello Stato islamico in Tunisia, contemplando anche la via rivoluzionaria, l’immobilismo politico aveva persuaso lui ed altri leader di al-Nahda ad accettare il sistema democratico di matrice occidentale, arrivando a promuovere, negli anni 2000, un movimento di denuncia del regime in coalizione con altre forze laiche di opposizione. Tuttavia, come sottolinea l’autrice, mentre al-Nahda intraprendeva un percorso di graduale moderazione politica e ideologica, in risposta al vuoto religioso lasciato dal regime altre forme di attivismo islamico nascevano in Tunisia, con la creazione di diverse cellule di matrice jihadista e salafita.

 

Pur non avendo partecipato attivamente alle rivolte del 2010, al-Nahda è emerso come il più influente attore politico dopo la caduta di Bin ‘Ali grazie all’immagine ormai consolidata di vittima del regime e, soprattutto, al percorso di moderazione intrapreso nel corso degli anni precedenti. Le vaste reti mantenute in patria e la capacità di rivolgersi ad ampie fasce della popolazione hanno permesso ad al-Nahda di ottenere risultati notevoli alle elezioni per l’Assemblea costituente del 2011, diventando l’azionista di maggioranza della troika di governo incaricata di condurre questa prima fase di transizione democratica. Ciononostante, la stessa capacità di ottenere un ampio consenso elettorale si è rivelata, una volta al potere, il «più grande errore tattico [del partito islamista], poiché ha rafforzato la diffidenza dei suoi oppositori» (p. 134). In nome, inoltre, della necessaria unità nazionale, promossa da al-Nahda per portare a termine la difficile transizione democratica, il partito ha disatteso le aspettative di gran parte del suo elettorato, scendendo a patti con le istanze dei partiti laici, i quali temevano una radicale islamizzazione del Paese. Particolarmente critica per il sostegno al partito è stata la rinuncia da parte dei leader islamisti a introdurre la sharī‘a in Costituzione, una scelta che ha provocato una disaffezione di parte del suo elettorato più conservatore, composto soprattutto da giovani che hanno scelto di unirsi a gruppi jihadisti e salafiti più fedeli ai valori islamici.

 

Il pragmatismo dimostrato da Ghannouchi, definito dall’autrice come un abile stratega politico, ha portato progressivamente al-Nahda a dissociarsi anche dall’ideologia dei Fratelli Musulmani, mentre il timore di essere escluso dal gioco politico lo ha spinto ad abbandonare l’etichetta di partito islamista per abbracciare quella di “democrazia islamica”. Secondo Wolf, l’operazione di rebranding dei vertici del partito non trae origine da un sostanziale cambiamento nell’orientamento politico, bensì è stato dettato dal timore di essere associato al progetto politico sostenuto dallo Stato Islamico e da altre forme di jihadismo transnazionale. Come sottolinea l’autrice in conclusione, la vera sfida che deve affrontare oggi al-Nahda, in un momento di graduale scollamento tra la sua leadership pragmatica e il suo bacino elettorale più dogmatico, consiste nel conciliare le sue politiche liberali con i fondamenti ideologici di riferimento del suo elettorato, al fine di promuovere una crescita economica inclusiva e una maggiore sicurezza (p. 167).

 

L’analisi di Anne Wolf risulta di fondamentale importanza per capire le dinamiche sociali e politiche della Tunisia contemporanea, fornendo uno strumento valido e accurato per la comprensione di uno dei suoi principali attori politici. Il processo evolutivo di al-Nahda ripercorso dall’autrice mette in discussione le tesi sul post-Islamismo, secondo cui qualsiasi esperienza politica di matrice islamista, concepita come un progetto ideologico e coerente volto a creare uno Stato islamico, è destinato a fallire. Al contrario, l’autrice fonda le proprie riflessioni sull’affermazione secondo cui l’Islam, concepito come tradizione discorsiva, evolve storicamente secondo le pratiche e le istituzioni delle società nelle quali è radicato (p. 6). In questa prospettiva, i cambiamenti intrapresi da al-Nahda si profilano come la naturale evoluzione di un movimento che interagisce con il contesto sociale in cui si sviluppa. Ciononostante, il lavoro di Wolf presenta alcune lacune strutturali e tematiche, soprattutto riguardo al periodo post-rivoluzionario. Se l’autrice si concentra particolarmente sull’evoluzione storica, politica e ideologica del movimento fino al 2011 (tenendo conto anche delle diverse voci che si sono pronunciate all’interno del movimento e non concentrandosi solamente su quella di Ghannouchi), l’analisi degli sviluppi interni al partito dopo la rivoluzione risulta meno articolata. In particolare, l’ultima sezione del libro sembra concentrarsi esclusivamente sull’interazione tra al-Nahda e gli attori politici laici, tralasciando un’analisi più approfondita delle altre espressioni di Islam politico che si sono sviluppate nel Paese e le cui dinamiche sono strettamente collegate a quelle del partito islamista. Un approfondimento di questo tipo avrebbe il pregio di mettere in luce le influenze che al-Nahda, in quanto protagonista dello scenario politico tunisino, potrebbe esercitare sulle altre forme di attivismo islamico. Nonostante queste osservazioni, Political Islam in Tunisia rimane uno strumento essenziale per comprendere il ruolo dell’Islam politico in Tunisia e l’evoluzione del suo maggiore interprete.

 

 

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