Il capo dello Stato tunisino non ha mai nascosto le sue posizioni anti-sistema e la difficile situazione del Paese gli ha dato l’occasione per forzare l’interpretazione della Costituzione. Ma la crisi viene da lontano, ed è il frutto di una progressiva degenerazione dell’assetto emerso dalla rivoluzione del 2010-2011

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:39

Non sorprende la decisione con cui il 25 luglio il presidente tunisino ha destituito il primo ministro, sospeso il parlamento e revocato l’immunità ai deputati al termine di una giornata di manifestazioni contro la classe politica del Paese, e in particolare contro il partito di maggioranza Ennahda. Sin dalla sua discesa in campo, il capo dello Stato si è presentato infatti come un candidato anti-sistema, non facendo mistero di voler trasformare il regime emerso dalla rivoluzione del 2011 e ratificato dalla Costituzione del 2014.

 

Da qualche mese circolavano voci su un possibile colpo di mano di Saied, che da mesi era impegnato in un braccio di ferro istituzionale con il primo ministro e con il presidente del Parlamento e nell’aprile scorso aveva affermato che, in quanto Comandante supremo delle forze armate, sotto la sua autorità ricadevano anche le forze di polizia e non solo quelle militari. Il 23 maggio scorso, il sito Middle East Eye aveva addirittura rivelato l’esistenza di un piano, preparato nell’entourage del presidente tunisino, che prevedeva l’instaurazione di una “dittatura costituzionale” da parte del capo dello Stato, anche se all’epoca ben pochi avevano preso sul serio il documento. Ma già nel 2019, un attivista della campagna elettorale di Saied aveva dichiarato che non sarebbe stato possibile attaccare frontalmente il sistema; occorreva piuttosto «cambiarlo entrando dalle sue crepe», utilizzando per esempio gli ampi poteri di cui la Costituzione aveva investito il presidente della Repubblica. Detto fatto: di fronte al rischio del collasso politico, economico e sanitario del Paese, Saied è passato all’azione forzando l’articolo 80 della legge fondamentale, che consente al capo dello Stato di prendere misure eccezionali in caso di imminente pericolo per le istituzioni della nazione e la sicurezza del Paese.

 

 

Una democrazia malata

 

La crisi viene però da lontano, e non è soltanto l’esito delle difficoltà affrontate dalla Tunisia negli ultimi mesi. Dopo la rivoluzione, nessuna forza politica è stata infatti capace di farsi interprete del cambiamento invocato dalle piazze, e soprattutto di rispondere al crescente disagio sociale ed economico di ampi settori della popolazione. Sono invece dilagati incompetenza, opportunismo e affarismo. Sintomi dell’inadeguatezza della classe dirigente del Paese sono state la volatilità dello spazio politico e la rapidità con cui l’elettorato ha modificato le sue preferenze elettorali. Il Congresso della Repubblica ed Ettakattol, i due partiti posizionatisi rispettivamente al secondo e al terzo posto alle elezioni del 2011 (con l’8,7% e il 7%) e che avevano espresso il Presidente provvisorio della Repubblica e il Presidente dell’Assemblea Costituente, hanno cessato di esistere o non hanno più una rappresentanza parlamentare. Nidaa Tounes, formazione creata nel 2012 da Beji Caid Essebsi – poi diventato presidente della Repubblica –, è passata dal 37,5% del 2014 all’1,5% del 2019. Il Partito Destouriano Libero, dichiaratamente nostalgico del regime di Ben Ali, non ha partecipato alle elezioni legislative del 2014, ha ottenuto il 6,6% dei voti a quelle del 2019 e i sondaggi gli assegnano oggi più del 35% delle preferenze, ciò che ne farebbe il primo partito del Paese.

 

L’unico soggetto capace di restare ininterrottamente al centro della scena politica dal 2011 a oggi è stato il partito d’ispirazione islamica Ennahda, che ha comunque pagato con una massiccia perdita di consensi la sua gestione del potere: quasi 2/3 dei voti tra le elezioni del 2011 e quelle del 2019 (da 1.500.000 a 561.000), con un calo dal 37% al 19,6% delle preferenze. Presentatasi come la forza naturalmente deputata a guidare l’uscita dall’autoritarismo in forza della sua decennale opposizione al vecchio regime, tra il 2011 e il 2013 Ennahda ha imposto alla Tunisia un estenuante dibattito sull’identità del Paese e sul rapporto tra religione e politica che ha finito per oscurare i problemi sociali ed economici che avevano innescato le rivolte. A differenza dei Fratelli musulmani egiziani, traditi dall’illusione di essersi ormai assicurati l’egemonia, il partito islamista tunisino ha comunque avuto la lucidità di venire a patti con le altre forze politiche, evitando al Paese scenari catastrofici. La sua trasformazione da partito islamista a partito “democratico musulmano”, sancita dal congresso del 2016, si è tradotta però in un pragmatismo di corto respiro che ha contribuito a condannare la Tunisia all’immobilismo. Così, dopo aver occupato per dieci anni i palazzi del potere senza riuscire a promuovere una benché minima riforma, Ennahda ha finito per incarnare i mali del sistema, al punto che il suo leader, il presidente del Parlamento Rashid al-Ghannushi, è secondo alcuni sondaggi l’uomo politico più impopolare del Paese.

 

 

La tentazione cesarista

 

In un quadro simile non è strano che la popolazione si sia fatta progressivamente tentare dalla soluzione bonapartista e dal fascino dell’uomo nuovo, non compromesso con un sistema corrotto e inefficiente. È sostanzialmente con queste credenziali che Kais Saied è sceso in campo. Professore di diritto costituzionale, attivo nei dibattiti post-rivoluzionari ma estraneo fino al 2019 all’impegno politico diretto, l’attuale presidente tunisino si è fatto conoscere al grande pubblico come analista, diventando particolarmente popolare tra quella gioventù istruita ma economicamente e socialmente emarginata che era stata protagonista della rivoluzione e avrebbe poi contribuito in maniera determinante al successo elettorale del nuovo presidente.

 

Se c’è un politico a cui si addice l’abusata etichetta di populista, questi è probabilmente Saied, che ha fatto dello slogan rivoluzionario “il popolo vuole” la sua parola d’ordine, con tutta la vaghezza che questo comporta, e che ha più volte ribadito di voler restituire ai giovani il potere sottratto loro dai partiti. Il suo progetto consiste nel superamento della democrazia parlamentare, a favore di un sistema di assemblee locali e di un processo decisionale che dovrebbe andare dalla periferia al centro e non viceversa. La vera democrazia, la democrazia del futuro, ha detto per esempio in un’intervista del 2013, «è quella locale». Il suo obiettivo dichiarato è riconciliare lo Stato con la società, passando dallo Stato di diritto a una «società di diritto», in cui la popolazione contribuisca a dare sostanza alle forme previste dalla legge: un programma, hanno notato alcuni, che ricorda da vicino l’esperienza della jamahiriyya di Gheddafi, e non promette dunque nulla di buono in termini di libertà e garanzie costituzionali.

 

Resta da vedere fino a che punto intenderà e potrà spingersi il presidente. Quest’ultimo non ha – e non vuole avere – un partito alle spalle. È però popolare e la sua iniziativa è stata accolta con sollievo, se non con esultanza, da porzioni consistenti della società. Le forze armate e la polizia hanno finora eseguito i suoi ordini. In linea con le sue convinzioni, il presidente sta dialogando con le parti sociali, mentre esibisce fermezza nei confronti di partiti, funzionari e uomini d’affari. Le prime, tra cui l’influente Unione Generale del Lavoro (UGGT), hanno preso atto della decisione di Saied, invitandolo a definire con precisione tempi e modi dell’uscita dall’emergenza. I secondi sono stati oggetto di misure più drastiche: nei confronti di tre partiti, Ennahda, Qalb Tounes e ‘Aish Tounes, è ripartito il procedimento giudiziario che li vede coinvolti con l’accusa di aver ricevuto finanziamenti esteri; diversi funzionari e governatori locali sono stati rimossi, mentre il presidente ha annunciato un indulto per gli uomini d’affari, già identificati da una commissione ad hoc, che durante l’era Ben Ali hanno commesso reati finanziari ma sono disposti a restituire il denaro sottratto “al popolo”. Saied ha inoltre chiesto a commercianti e grossisti di abbassare i prezzi dei beni di consumo evitando speculazioni e monopoli.

 

 

Un percorso accidentato

 

I partiti politici della maggioranza, screditati da anni di malgoverno e dalla crisi degli ultimi mesi, non dispongono di un grande potere negoziale e potrebbero accettare un compromesso che consenta loro di non uscire di scena: nella fattispecie una revisione della Costituzione, una nuova legge elettorale ed elezioni anticipate.

 

Al momento non sappiamo però se questo è un obiettivo condiviso dal presidente. Toccherà alla società civile, il cui ruolo è stato decisivo anche in altri passaggi critici della transizione post-rivoluzionaria, cercare da un lato di arginare pulsioni e derive autoritarie e dall’altro impedire il semplice ritorno allo status quo. Ma gli ostacoli verso un’evoluzione positiva della crisi sono molti. In questo momento il clima internazionale non è particolarmente propizio alla democrazia, non solo a causa delle difficoltà economiche e sanitarie legate alla pandemia, ma anche perché gli Stati che hanno più o meno velatamente appoggiato l’azione di Saied, come Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto, non hanno interesse al consolidamento del sistema democratico tunisino (ma neanche alla completa destabilizzazione del Paese). E il principale beneficiario di eventuali elezioni anticipate sarebbe verosimilmente il Partito Destouriano Libero, la cui leader, Abir Moussi, è sempre stata molto esplicita sulla necessità di chiudere l’infausta parentesi della Primavera araba.

 

La questione, spesso sottovalutata nelle considerazioni di osservatori e analisti, non è solo verso dove si dirige la Tunisia ed entro quale cornice istituzionale, ma chi sarà a guidarla in questo percorso. 

 

 

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