Prima e durante la visita del Papa in Medio Oriente i media del mondo si domandavano se questo viaggio avrebbe avuto un peso politico nelle vicende israelo-palestinese. Francesco, invitando a casa sua Peres e Abu Mazen, ha di nuovo sbaragliato i luoghi comuni e aperto un nuovo orizzonte.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:00

Due sono gli scenari che il politologo francese Dominique Moïsi immagina nelle pagine finali del suo libro The Geopolitics of Emotion: lo scenario della paura e quello della speranza. La data e la località sono sempre le stesse: novembre 2025, Tel Aviv; ma la differenza non potrebbe essere più grande. Nel primo caso Israele vive il trentesimo anniversario dell’assassinio di Rabin in un soffocante clima di quasi legge-marziale che spinge gli arabi e gli ebrei che ne hanno la possibilità a lasciare il Paese. Nel secondo caso invece commemora con i palestinesi il quinto anniversario del trattato di pace mediorientale, in un’atmosfera d’entusiasmo e di ritrovata fiducia. E dal Medio Oriente questo sentimento si riverbera sul resto del mondo, con risultati molto diversi: se infatti il trattato di pace mediorientale immaginato per il 2020 è reso possibile da una rinnovata azione multilaterale, lo scenario della paura è invece caratterizzato dall’incomunicabilità. L’esercizio di Moïsi è certamente poco convenzionale, ma fa comprendere con immediatezza quanto rilevante sia la questione israelo-palestinese per la regione e per il resto del mondo. È come quei processi informatici che si svolgono in background: anche quando l’utente non li vede, continuano a operare, a consumare risorse e rallentare il sistema. E sulla questione israelo-palestinese, dopo il fallimento dell’iniziativa Kerry sembrava davvero calato il sipario, fino alla visita di Francesco. Il Papa ha ricordato la posizione di principio della Santa Sede a favore dei due Stati, ma si è guardato bene dal fornire una soluzione politica preconfezionata. Lo ha detto chiaramente ai giornalisti nel viaggio di ritorno: «Io non mi sento competente per dire: “si faccia questo o questo o questo”, perché sarebbe una pazzia, da parte mia. Ma credo che si debba entrare con onestà, fratellanza, mutua fiducia sulla strada del negoziato. E lì si negozia tutto: tutto il territorio, anche i rapporti». Basta leggere i commenti alla visita per vedere quanto nervosismo si fosse accumulato intorno ad essa: accuse di mancato equilibrio, un durissimo articolo del Jerusalem Post che dichiarava ormai tramontata l’era d’oro dei rapporti tra ebrei e cristiani, la politicizzazione sempre in agguato, fin nei dettagli perché – come ha commentato P. Neuhaus, vicario patriarcale per i cattolici di lingua ebraica – «ognuno cerca di tirare dalla sua il Papa, e anche Dio». Francesco ha scelto di collocarsi su un altro piano, quello dei simboli. Nel volo di ritorno gli hanno chiesto se se li fosse preparati e ha risposto di no. «I gesti, quelli che sono più autentici, sono quelli che non si pensano, quelli che vengono, no? Io ho pensato: si potrebbe fare qualcosa…; ma il gesto concreto, nessuno di questi è stato pensato così. [...] Non so, a me viene di fare qualcosa, però è spontaneo, è così». Anche l’incontro dei due presidenti israeliano e palestinese è stata cambiato all’ultimo in un momento di preghiera. Gesto non significa però mossa sentimentale, non è un appello lanciato nel vuoto. Serve a ricostruire un minimo di fiducia reciproca, perché senza di questa sedersi al tavolo delle trattative non è solo inutile, è controproducente. I gesti hanno un valore di testimonianza (o di contro-testimonianza, come la data di Pasqua diversa tra cattolici e ortodossi, su cui Francesco ha chiesto di raggiungere presto un accordo). Muovono le emozioni, direbbe Moïsi, e quindi orientano le scelte, anche quelle politiche. È curioso che nel 2025 immaginato dal politologo francese siano nominati tutti i grandi attori mondiali (Stati Uniti, Russia, Cina, India, persino l’Unione Europea), tranne uno: i leaders religiosi. Papa Francesco ha mostrato che è un grave errore non considerarli. Sanno mobilitare le coscienze e Francesco lo ha fatto. È un grande comunicatore, ammettono tutti. In termini cristiani si direbbe: ha carisma.