Lectio magistralis di Eugene Rogan a Venezia in occasione della dodicesima conferenza di SeSaMO

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:25

Se gli storici la chiamano prima guerra mondiale, la ragione è che non fu solo europea. Il conflitto infatti, pur avendo il baricentro nel Vecchio Continente, investì anche altre regioni del mondo, in particolare il Vicino Oriente. La constatazione è semplice, eppure spesso dimenticata. E se vale la pena richiamarla oggi, non è per puntiglio accademico, ma perché negli eventi che tra il 1914 e il 1918 sconvolsero Anatolia e Levante affondano le radici molte delle tragedie che travagliano oggi la regione. Senza dimenticare che in quegli anni e in quelle terre si consumarono i primi due genocidi del Novecento, a danno di armeni e assiri. Della “questione orientale” e dei suoi perduranti strascichi ha trattato Eugene Rogan, direttore del Centro per il Medio Oriente al Saint Anthony’s College di Oxford, in una lezione magistrale che ha inaugurato la XII conferenza di SeSaMO, la società italiana per gli studi sul Medio Oriente. Rogan, che ha appena pubblicato uno studio dettagliato sull’argomento (The Fall of the Ottomans, 2014), ha ricostruito davanti a una affollata platea di studiosi convenuti a Ca’ Foscari le scelte contraddittorie che crearono le premesse per la nascita di Stati fragili e instabili: Iraq, Siria, Libano, (Trans)Giordania, mandato palestinese. Quando la scintilla della guerra si accende a Sarajevo, è da decenni che Russia, Francia e Gran Bretagna fanno i conti con il declino dell’Impero ottomano, che nel tentativo di evitare la dissoluzione ha scelto di allearsi sempre più strettamente alla Germania. Il consiglio dei ministri dello zar, già nel febbraio 1914, considera una guerra generalizzata in Europa come la via migliore per assicurarsi i propri obiettivi storici: Costantinopoli e gli Stretti, che permetterebbero alla marina russa di entrare nel Mediterraneo. Nell’ottobre del ’14 l’Impero ottomano entra effettivamente in guerra a fianco degli Imperi Centrali e già nel marzo 1915 il Regno Unito conclude un patto con gli alleati circa i futuri assetti della regione. Contemporaneamente un giovane Winston Churchill pianifica lo sbarco a Gallipoli, nei pressi di Istanbul, per infliggere un colpo decisivo all’avversario, considerato l’anello più debole della coalizione nemica. Senonché lo sbarco fallisce tragicamente. La sconfitta, unita alla scarsa disponibilità di forze da parte degli alleati in questo teatro di guerra, conduce il Foreign Office ad avanzare proposte contraddittorie a diversi attori. Non fu malafede – sostiene Rogan – ma il semplice prevalere degli imperativi bellici immediati sulle visioni di lungo periodo. Il gioco diplomatico si concretizzò in una serie di promesse. Promesse ai francesi di ampie concessioni territoriali, per compensarli del peso enorme del fronte occidentale, attraverso gli accordi Sykes-Picot del 1916. Promesse di creare un regno arabo per suscitare una rivolta anti-ottomana (è qui che entra in gioco la figura di Lawrence d’Arabia). Promesse al movimento sionista, per la creazione di un “focolare domestico” in Palestina. Promesse a tutte le minoranze etniche (curdi) e religiose (assiri, cristiani orientali in genere). A guerra conclusa, e com’era facile prevedere, non fu facile per gli alleati conciliare i vari piani di spartizione. Ne risultarono un insieme di questioni irrisolte, come la Palestina, e di Stati dalle identità incerte. Ad esempio, dove cominciava e dove finiva la Siria? Come tenere insieme l’Iraq? Nella conclusione del suo intervento peraltro Rogan ha tenuto a precisare che il nesso tra la prima guerra mondiale e l’attualità, in particolare ISIS, non va inteso in senso diretto e meccanico. In mezzo infatti ci sta per Rogan un processo di costruzione statale protrattosi comunque per un secolo e soprattutto il fallimento delle rivoluzioni arabe del 2011. Alla lezione magistrale dello studioso britannico hanno fatto seguito ben 23 panel di discussione, che hanno coinvolto per due giorni più di 100 giovani studiosi europei, mediorientali e americani. Come ha ricordato il presidente di SeSaMO Matteo Legrenzi, si è trattato del «più grande convegno di studi sul Medio Oriente mai realizzato in Italia»: una testimonianza di quanto la questione mediorientale continui a suscitare interesse, per l’incidenza, sempre più evidente, che questi studi hanno nella comprensione di quanto accade anche nel nostro Paese. La “guera granda” non è finita a Vittorio Veneto.