Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:45

Un testo luminoso e coraggioso. Questi i due aggettivi che si affacciano spontanei leggendo la lettera che il Patriarca dei Caldei Louis Sako ha inviato al clero della sua Chiesa nel maggio scorso, in preparazione al Sinodo celebrato nel successivo mese di giugno. Eletto il 31 gennaio 2013 alla guida della più importante comunità cristiana irachena, il Patriarca Sako aveva enunciato il suo programma già nelle tre parole scelte per il suo stemma: “Autenticità, unità e rinnovamento”. Erede della tradizione siriaco-orientale (tradizionalmente detta “nestoriana”), ma in comunione con Roma, la chiesa caldea raduna l’80% dei cristiani d’Iraq. Ma se nel 2003, l’anno della caduta di Saddam Hussein, i cristiani raggiungevano il milione, oggi ne sono restati in patria meno della metà. Gli altri sono dovuti emigrare a causa della guerra civile che, tra alti e bassi, non ha mai veramente abbandonato l’Iraq. A questa difficoltà generale si è aggiunta la persecuzione esplicita che i terroristi jihadisti hanno messo in atto, con minacce, uccisioni e attentati eclatanti. Ma non tutti i problemi sono venuti dall’esterno, perché quando una minoranza è sotto assedio, è forte la tendenza a chiudersi in sé stessi. Così i cristiani iracheni, caduto Saddam, si sono divisi secondo linee etniche e linguistiche risuscitando identità non di rado anacronistiche. Indicativo il fatto che la costituzione del 2005 non parli di una «comunità cristiana», ma delle comunità «caldea e assira» come se si trattasse di due realtà etniche, al pari dei turkmeni o dei curdi. Una scelta politicamente suicida, che ha contribuito a indebolire ulteriormente una presenza messa a dura prova dall’emigrazione. Già come Arcivescovo di Kirkuk, dal 2003 in avanti, Mons. Sako si era opposto alla tendenza a “etnicizzare” le Chiese orientali, evocando il paradigma del primo periodo abbaside in cui i cristiani iracheni si erano aperti alla realtà dei conquistatori arabi. Pur rimanendo fermi nella professione di fede, e anzi componendo importanti opere apologetiche rivolte ai musulmani, questi cristiani avevano dato un contributo fondamentale per l’edificazione di un umanesimo sovra-confessionale, in primo luogo nel campo delle traduzioni dal greco, della filosofia e delle scienze. E proprio sulla scia di questo modello, Mons. Sako è da anni impegnato in un dialogo islamo-cristiano che mette in luce i punti di comunione e i campi di azione condivisa, senza fare sconti sulle differenze dogmatiche. È su questo sfondo che si colloca la lettera. Il testo non si rifugia nell’evocazione del passato glorioso della Chiesa caldea, ma esordisce con una netta presa d’atto della grave crisi in cui essa versa. Una crisi tuttavia che, nel momento in cui è riconosciuta, si apre a un rinnovamento possibile, attingendo al Concilio Vaticano II e rifiutando le sirene del nazionalismo esclusivista. «La Chiesa cattolica caldea è stata e sarà aperta a tutte le nazioni e le lingue. […] Oggi in essa ci sono assiri, arabi e curdi: dobbiamo “caldeizzarli”? E che dire poi dei musulmani caldei?», si domanda il Patriarca Sako. Animato da una passione ecumenica, in primo luogo nei confronti della chiesa assira d’Oriente (gemella della caldea, ma non unita a Roma), non teme di denunciare le mancanze interne e non cede al ricatto di «suonare la campana ogni momento per provare che sono caldeo». E così porta una ventata di novità nella Cristianità orientale, mostrando che fedeltà alla propria tradizione e tensione universale, continuità con la propria storia e apertura al presente, possono convivere in una dimensione cattolica sempre da riguadagnare. Per approfondire: Herman Teule, Les chrétiens d’Irak : quelle place dans la société?, «Œuvre d’Orient - Perspectives & Réflexions» 1, 2013, 5-18.