Abu Dhabi è diventata un crocevia del dialogo interreligioso, e non più soltanto di commercio e turismo. Questo rafforza l’immagine degli Emirati come Paese aperto e tollerante

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:03

Durante la sua visita ad Abu Dhabi, Papa Francesco incontrerà i membri del Consiglio dei Saggi musulmani, una rete di personalità islamiche che ha la sua sede proprio nella capitale emiratina, e parteciperà a un importante incontro interreligioso sul tema della fraternità umana. Fino a qualche anno fa, un evento simile sarebbe stato semplicemente impensabile: non soltanto perché le relazioni diplomatiche tra Santa Sede ed Emirati risalgono appena al 2007, ma anche perché in passato questo Paese del Golfo non spiccava per il prestigio delle sue istituzioni religiose. È vero che lo shaykh Zayed, padre fondatore della Federazione, ha iscritto tolleranza e convivenza multireligiosa nel DNA del Paese, ma per capire come Abu Dhabi sia diventata un crocevia del dialogo tra le religioni, e non solo di commercio e turismo, bisogna tornare alla turbolenta fase post-Primavere arabe, caratterizzata prima dal momentaneo successo dei partiti islamisti e poi dall’esplosione della violenza jihadista.

 

Gli Emirati, e in particolare Abu Dhabi, vedono infatti nella Fratellanza musulmana, incarnata nel Paese dal movimento dell’Islah, la principale minaccia al loro modello socio-politico. Si tratta di un’ostilità che viene da lontano: negli anni ’60 e ’70, seguendo una traiettoria comune a tanti Paesi del Golfo, membri della Fratellanza in fuga dall’Egitto trovano rifugio nella penisola arabica, andando a ricoprire posizioni di rilievo soprattutto nell’amministrazione e nei sistemi educativi dei diversi Stati della regione. L’influenza islamista negli Emirati raggiunge il culmine alla fine degli anni ’70, quando membri dell’Islah arrivano ai vertici dei Ministeri dell’Educazione e della Giustizia e degli Affari islamici. La penetrazione del movimento all’interno della società emiratina, in particolare attraverso la diffusione tra gli studenti universitari e il controllo delle moschee, inizia allora a suscitare la preoccupazione delle famiglie regnanti. Progressivamente per l’Islah comincia a ridursi la libertà di manovra, finché nel 1994 il movimento è costretto a chiudere la sua sede di Dubai e riparare a Ras al-Khaima, dove esso viene protetto dall’emiro locale. Dopo gli attentati di New York del 2001, ai quali tra l’altro prendono parte due cittadini emiratini, la morsa del governo si stringe ulteriormente, mentre nell’ottobre del 2010 la morte dell’emiro di Ras al-Khaima Saqr Bin Muhammad Al Qasimi priva l’Islah del suo ultimo garante tra i membri delle famiglie regnanti delle Federazione. Quando le rivolte del 2011 fanno soffiare il vento del cambiamento sugli assetti politici mediorientali, aprendo agli islamisti le porte del potere in Tunisia ed Egitto, l’Islah inizia ad essere percepito come una minaccia esistenziale per la stabilità emiratina. Il movimento viene smantellato e i suoi membri diventano vittime di una dura repressione. Da quel momento l’ostilità verso la Fratellanza musulmana, che peraltro è una delle ragioni della rottura con il Qatar, diventa un’ossessione, al punto che nelle librerie di Abu Dhabi può capitare oggi di trovare una delle pubblicazioni della serie “Alla radice del complotto contro gli Emirati”, dedicata ai Fratelli musulmani ed edita da un centro di ricerca di Dubai.

 

 

Tolleranza, un marchio da esportare

Lo scoppio della nuova ondata jihadista rappresenta un’ulteriore minaccia per gli Emirati, ma allo stesso tempo fornisce alla sua leadership l’occasione per trasformare la tolleranza esistente nel Paese in un marchio da esportare all’estero. Così, nel 2012, nella capitale emiratina viene istituito il Centro Hedayah per il Contrasto dell’Estremismo Violento. Nel 2014, l’anno in cui lo Stato islamico avanza fino a proclamare la restaurazione del Califfato universale, la leadership di Abu Dhabi crea altre due istituzioni: il Forum per la Promozione della Pace nelle Società Musulmane e il Consiglio dei Saggi Musulmani, pensata come risposta all’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, la rete di studiosi fondata e presieduta (fino a pochi mesi fa) dall’influente ideologo islamista Yousef al-Qaradawi. Nel 2018 si aggiunge il Consiglio emiratino della Fatwa. Abituati a importare competenze e talenti professionali dall’estero, gli Emirati affidano queste realtà a personalità di spicco dell’Islam mondiale. A presiedere il Forum e il Consiglio emiratino della Fatwa arriva Abdallah Bin Bayyah, prestigioso shaykh di origine mauritana che ha ricoperto in patria diversi incarichi politici, è stato fino al 2013 sodale di Qaradawi nell’Unione Mondiale degli Ulema, e nel 2014 è subito in prima fila nel confutare sul piano dottrinale le pretese dell’Isis, pubblicando una lettera intitolata “Non è questa la strada per il paradiso”. A capo del Consiglio dei Saggi viene invece chiamato Ahmad al-Tayyeb, grande imam della moschea-università dell’Azhar che in Egitto ha guidato l’opposizione religiosa alla Fratellanza musulmana.

 

Il Consiglio dei Saggi e il Forum operano in modo simile, con pubblicazioni volte a confutare il pensiero jihadista, delegazioni di ulema che hanno lo scopo di diffondere una visione conciliante dell’Islam e l’organizzazione di grandi conferenze interreligiose. A differenziare le due istituzioni sembrano essere gli assi geopolitici lungo i quali esse si muovono. Il Consiglio dei Saggi, la cui azione si confonde di fatto con quella della moschea dell’Azhar, intrattiene relazioni privilegiate con il Vaticano. Il Forum, il cui vice-presidente è un discepolo americano di Bin Bayyah, lo shaykh Hamza Yusuf, ha invece rapporti più stretti con personalità del mondo religioso statunitense (evangelico, cattolico ed ebraico).

 

Diverse conferenze organizzate dal Consiglio dei Saggi e dal Forum hanno discusso e promosso il concetto di “cittadinanza”, posto al centro della riflessione per superare la discriminazione verso le comunità non-musulmane prevista dalla giurisprudenza islamica tradizionale e ferocemente riattivata dallo Stato islamico durante la sua esperienza di amministrazione dei territori a cavallo tra Iraq e Siria. La questione della cittadinanza è stata rilanciata in particolare da due grandi appuntamenti: la Conferenza di Marrakech del 2016, promossa dal Forum di Bin Bayyah e patrocinata dalla monarchia marocchina, al termine del quale è stata firmata l’omonima dichiarazione, e la Conferenza del Cairo del 2017, tenutasi all’Azhar e a sua volta conclusasi con la redazione di un documento. Può apparire paradossale che tali dichiarazioni siano promosse da un Paese in cui i non-musulmani, per la grande maggioranza lavoratori stranieri, sono di fatto impossibilitati a ottenere la cittadinanza. Ma esse non sono pensate per trovare applicazione negli Emirati, quanto per accreditare l’immagine di questi ultimi all’estero. L’apertura degli Emirati al mondo trova inoltre un sostegno concettuale nell’idea, lanciata dal Forum di Bin Bayyah e Hamza Yusuf, dell’alleanza di virtù, secondo la quale le diverse religioni, e in particolare quelle monoteiste, siano chiamate a cooperare sulla base di convinzioni etiche comuni.

 

 

Al servizio dello Stato-Nazione

Da un lato all’Islam viene così impedito di interferire con le scelte della leadership del Paese o di criticarle, ma dall’altro esso è mobilitato in sostegno di un particolare modello di Stato e di società. Una dettagliata analisi del pensiero politico di Abdallah Bin Bayyah e Hamza Yusef ha messo in evidenza come in particolare la visione di quest’ultimo sia incentrata sull’idea di un ordine metafisico chiamato a riflettersi nell’esistenza e nel riconoscimento di un ordine gerarchico terreno. Ciò significa «che il dissenso politico, come per esempio la Primavera araba, non è solo una minaccia all’ordine, ma è anche potenzialmente destabilizzante dal punto di vista cosmico». 

 

Oltre a fornire un supporto teologico alla politica emiratina della “stabilità”, secondo il principio classico che proibisce di ribellarsi contro il governante (lā khurūj ‘an al-hākim), la riflessione portata avanti all’interno del Forum per la promozione della pace contiene anche elementi innovativi. Uno di questi è il riconoscimento dello Stato-nazione quale forma privilegiata della vita politica, tema a cui è stato dedicato l’incontro annuale del Forum nel 2016, e che è stato poi ripreso anche in quelli successivi. Si tratta di un principio fondamentale per un Paese in fase di costruzione nazionale come gli Emirati, dal momento che esso contrasta radicalmente con i progetti politici transnazionali dei movimenti islamisti, secondo i quali la fase dello Stato nazione rappresenta soltanto un momento dell’edificazione di un ordine islamico universale. Ma esso è anche un efficace argomento da utilizzare nelle relazioni con gli Stati non-musulmani che ospitano al loro interno popolazioni musulmane, che sono invitate a riconoscersi nel sistema politico e giuridico del Paese di accoglienza e a cooperare con esso.

 

Per uno Stato che ha fatto del soft power una dimensione strategica della sua politica estera, l’Islam rappresenta una potente risorsa di legittimazione e proiezione internazionale. È un fenomeno comune a molti Stati musulmani, ma che ad Abu Dhabi ha trovato una realizzazione particolarmente attenta ed efficace.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

Testo di Michele Brignone, L’Islam, strumento del soft power emiratino, «Oasis» [online], pubblicato il 4 febbraio 2019, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/islam-e-politica-religiosa-degli-emirati-arabi-uniti.

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