Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:17

No, non sono tutti uguali. La protesta che ieri ha condotto all’allontanamento di Morsi dimostra che nel mondo arabo è tramontata definitivamente l’era dell’omogeneità più o meno imposta. Le scene del 25 gennaio 2011 si ripetono due anni dopo, e in scala maggiore. Allora infatti si era trattato di abbattere un regime forte dal punto di vista securitario, ma totalmente screditato presso l’opinione pubblica. In questi giorni invece, in piazza e nelle vie del Cairo e delle altre città, si sono fronteggiate correnti che hanno idee diametralmente opposte (e spesso molto confuse) intorno al futuro del loro Paese. E se i manifestanti del Fronte di salvezza nazionale hanno certamente vinto la prova di forza iniziata il 30 giugno, grazie al decisivo supporto dell’esercito, i Fratelli musulmani possono ancora contare su numerosi sostenitori. In queste ore cruciali due sono gli scenari possibili. Quello più favorevole prevede l’attuazione da parte di tutte le forze politiche, Fratelli compresi, della road map imposta dall’esercito attraverso il comunicato del generale al-Sîsî. In altre parole, si azzera tutto, a cominciare dalla controversa Costituzione, e si riparte da capo fissando le regole del gioco. Andava fatto subito, sul modello della Tunisia, ma una serie di fattori (demagogia, impreparazione, calcoli politici) hanno rimandato l’accordo a data da destinarsi. E nel frattempo, mese dopo mese, la dirigenza dei Fratelli Musulmani s’impadroniva metodicamente di tutti i principali centri di potere secondo una logica egemonica e senza alcuna ricerca seria di un dialogo con le opposizioni. Opposizioni che non erano rappresentate soltanto dai giovani del movimento di ribellione civile, ma anche da figure come lo Shaykh di al-Azhar o il Papa dei copti, difficili da liquidare in chiave complottistica come “forze straniere destabilizzatrici”. È significativo che la crisi egiziana abbia prodotto una spaccatura nella dirigenza internazionale dei Fratelli Musulmani. Secondo il quotidiano al-Masry al-Yom, ad esempio, il leader tunisino di an-Nahda, Rashed al-Ghannoushi, avrebbe raccomandato di accettare le richieste della piazza e andare a elezioni presidenziali anticipate. Ma, ancora una volta, ha prevalso la linea dello scontro frontale. Una giustificazione per questa politica i Fratelli la potevano per la verità invocare: la priorità, secondo molti, era rimettere in funzione la macchina economica del Paese, sull’orlo del collasso. Il punto però è che hanno fallito proprio a questo livello e così hanno perso la fiducia di una parte consistente del loro elettorato, mentre paradossalmente l’eccesso di poteri che si erano attribuiti e la cancellazione delle istanze di controllo li hanno privati della possibilità di un aggiustamento di rotta, oltre a incidere sostanzialmente sulla loro legittimità. Certo la rapidità del cambiamento ha sorpreso un po’ tutti: ancora nell’estate scorsa il Segretario del Partito Socialista egiziano, molto critico verso i Fratelli, pronosticava in un’intervista a Oasis 5 anni di governo Morsi, pur aggiungendo: «Mi aspetto dei mesi molto difficili […]. Nel futuro lontano tutto questo cambierà, ci sarà un’imponente rivoluzione contro l’Islam politico. Gli egiziani sono cambiati psicologicamente, non temono più nessuno. Io personalmente sono molto contento che i Fratelli abbiamo avuto la possibilità di andare al potere. Vedremo cosa sapranno fare, come risolveranno il problema della povertà, dell’immondizia nelle strade, il problema della disoccupazione di 8 milioni di giovani…» . È lo scacco dell’Islam politico, per usare l’espressione di Olivier Roy. Perché quando una religione si ideologizza, è sui risultati politici, e non più sui dati di fede, che sta o cade. Ma accanto a questa ipotesi, c’è sempre possibile lo scenario che tutti paventano, la guerra civile. Le manifestazioni hanno già lasciato diversi morti sul campo ed è noto che i Fratelli hanno storicamente sviluppato una struttura militare, anche se si ignora quanto grande ed efficace essa sia. Le opposizioni non dispongono di un progetto unitario, diversi militanti sono mossi da un desiderio di rivalsa, e la difficile situazione economica non aiuta. Le motivazioni per cui la gente è scesa in piazza sono molteplici e la frattura tra le élite (che parlano di “costituzionalismo” e “pluralismo”) e il popolo, più interessato al pane e a servizi minimamente funzionanti, è molto profonda. Ecco perché le prossime giornate sono davvero decisive. Tre insegnamenti però si possono già ricavare. Il primo è condensato in un’osservazione che la studiosa saudita Madawi al-Rasheed ci lasciò al termine di una conversazione nel novembre 2011: «Gli egiziani si illudono di aver cambiato tutto nel giro di una settimana. Sbagliano. La primavera araba è come la rivoluzione francese. Ci vorranno decenni prima che si assesti». I fatti di oggi le danno ragione e dicono che, per capire il cambiamento in corso, bisogna sapersi muovere lungo tutto lo spettro che va dal tweet in tempo reale del manifestante alle dinamiche di lungo periodo di cambiamento demografico, sociale e religioso. Il lavoro è immane e potrà essere svolto solo in modo transdisciplinare. L’alternativa è l’abbaglio continuo. Il secondo insegnamento è che i vecchi e nuovi soggetti politici protagonisti della transizione araba possono dilapidare rapidamente i loro consensi. Comunque vada a finire, è indubbio che i Fratelli hanno perso molti dei loro sostenitori per strada. Questo avvertimento, che vale anche per le altre forze politiche egiziane o per l’esercito (che ha alle spalle già una gestione fallimentare della prima transizione) non potrà non avere importanti ricadute sugli altri Paesi della regione. Dimostra infatti che anche i governi arabi usciti dalle rivoluzioni tendono a essere giudicati sulla base dei risultati che ottengono e non sulle bandiere ideologiche e identitarie che possono sventolare. Proprio questa consapevolezza risulta assente nel modo in cui Stati Uniti ed Europa hanno impostato la questione della stabilizzazione post-rivoluzionaria. Ricordo un convegno, ancora questa primavera, in cui la tesi principale difesa da quasi tutti gli oratori era che ormai l’Islam politico si era installato stabilmente sull’altra sponda del Mediterraneo e occorreva abituarsi a farci i conti. Conti che per esempio con Morsi erano stati abbastanza chiari: mediazione tra le fazioni palestinesi a Gaza in cambio del via libera al decreto presidenziale che gli conferiva poteri faraonici. Ora lo scenario sembra cambiare nuovamente. E così torniamo al punto di partenza: gli arabi non sono tutti uguali e non sono predestinati alla dittatura. Una real politik impostata su questi due presupposti, secondo l’unico metro dei rapporti di forza, è destinata fatalmente a farsi scavalcare dagli eventi. Perché riposa su un errore antropologico prima che politico.