Condannare le violenze significa anche rifiutare quell’ideologia che ha alimentato per decenni il terrorismo con la complicità di governi musulmani e non musulmani

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:38

Circa le modalità con cui si è svolta la strage di Parigi i vari frammenti iniziano a ricomporsi. Prende volto la cellula che ha pianificato l’azione, emergono particolari sulle sue modalità operative, si dà ormai per certo un legame diretto con la leadership dello Stato islamico. E ovviamente tutti vedono il nesso tra la crescita del jihadismo e l’irrisolto conflitto siro-iracheno, come pure tra gli assalti di Parigi e le azioni terroriste che hanno investito nelle ultime settimane Egitto e Libano. Ma se si vuole comprendere davvero la lezione di Parigi non basta concentrarsi sul come, occorre considerare anche l’identità, il nome direi, del mandante dichiarato delle stragi, lo Stato Islamico. Nel mondo musulmano infatti questa espressione ha un potere evocativo fortissimo, incarnando in uno slogan un’idea che negli ultimi cinquant’anni ha goduto di una straordinaria fortuna: quella appunto di costruire uno Stato moderno in cui si realizzi la perfetta identità di politica e religione, in particolare attraverso l’applicazione della sharî‘a, compresa come un insieme di norme giuridiche immutabili, e la risuscitazione del califfato. Si tratta, come ha ricordato Massimo Borghesi, di una forma di teologia politica, che si allea a volte (non sempre) con un letteralismo esasperato (salafismo) con cui condivide la negazione dell’alterità. Lanciata nel mondo islamico negli anni Trenta del secolo scorso, questa teologia politica è ben presto fallita. E di fronte al suo fallimento, ha trovato due vie di uscita, complementari: scaricare la responsabilità sull’Occidente e/o dare la colpa ai musulmani stessi, che non sarebbero abbastanza musulmani. In tal modo ogni fallimento pratico, invece di diventare una prova contro il folle progetto di governare oggi a colpi di taglio della mano ai ladri, crocifissione dei briganti, uccisione degli apostati e via dicendo, è divenuto occasione di auto-conferma. All’interno di questa parabola di progressiva radicalizzazione, l’emergere del jihadismo, a partire dagli anni Ottanta, segna però un singolare rovesciamento tra fini e mezzi, di cui gli studi magistrali di René Girard sui meccanismi antropologici della violenza offrono probabilmente la chiave teorica più adeguata. Come infatti si può osservare nelle azioni dei vari gruppi terroristici, gradualmente il metodo prende il sopravvento sull’obiettivo e la soppressione dell’altro, da strumento limitato per la realizzazione del progetto politico, diventa un fine in sé stesso. Anche per quanto riguarda lo pseudo-califfato, se le prime mosse sembrano ispirate a una logica razionale, ancorché ovviamente inaccettabile, di costruzione statuale (impadronirsi di un territorio, organizzarlo, battere moneta etc.), progressivamente la dimensione distruttiva e di negazione dell’alterità fagocita ogni altro elemento fino ad arrivare alla ricerca voluta dello scontro totale. Così, se l’ideologia dello Stato islamico appare come una sorta di profanazione, nel senso etimologico di un sacro che si mondanizza e di una mondanità che si sacralizza, circa il suo metodo sembra opportuno parlare, sulla scorta di quanto ha detto Papa Francesco all’Angelus di domenica 15 novembre, di una vera e propria bestemmia, quella della violenza in nome di Dio. La profanazione precede concettualmente, ma la violenza predomina praticamente. La vera sfida che oggi abbiamo davanti, senza voler sottovalutare la gravità della minaccia alla sicurezza, è di tipo culturale e consiste nel ripercorrere a ritroso questo cammino di radicalizzazione. Prima di tutto condannando il metodo della soppressione dell’altro, che ha condotto a Parigi all’uccisione di 129 civili inermi e che miete vittime in tutto il mondo islamico, dalla Nigeria al Pakistan. Ma subito dopo, o forse contemporaneamente, rifiutando anche l’ideologia che lo ha alimentato per decenni con la complicità di governi musulmani e non musulmani. Senza di questo continueremo ad accusare i sintomi senza curare la malattia.