La generosità è mossa dall’ansia di sfuggire al grande abisso della morte

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:06:58

Figura leggendaria di poeta-cavaliere di poco anteriore all’Islam, Hātim al-Tā’ī è proverbiale modello di generosità ospitale, non solo nella letteratura araba, ma in tutto il mondo islamico. Tra le moltissime opere in cui ricorre il suo nome, si è scelto di tradurre quasi integralmente una delle fonti più antiche, la voce a lui dedicata nel Libro della poesia e dei poeti di Ibn Qutayba (m. 889), che racconta in poche pagine di una prosa tersa e schietta i principali eventi di cui Hātim è protagonista. Si è comunque tenuta presente anche la narrazione parallela, più prolissa, del Libro dei canti, la grande enciclopedia poetico-musicale di Abū l-Faraj al-Isfahānī (m. 967).

Se nel caso di Ibn Qutayba e al-Isfahānī abbiamo a che fare con due classici della letteratura colta di età abbaside, tesa alla costruzione di un “umanesimo arabo”, alcuni di questi motivi saranno ripresi anche nella produzione popolare, come l’aneddoto sull’ospitalità post mortem di Hātim finito nelle Mille e una Notte[1]. Ma le gesta del capo tribù arabo hanno saputo valicare il mare, entrando nel Decameron di Boccaccio per il tramite «d’alcuni genovesi»[2], e – diversi secoli più tardi – nel Divano occidentale-orientale di Goethe: «Nicht Hatem Thai, nicht der Alles Gebende Kann ich in meiner Armuth seyn» («Non Hatem Thai, non colui che tutto dona posso essere nella mia povertà»).

Perché questa enorme fortuna, anche oltre il contesto arabo-islamico? Senza dubbio perché Hātim è un archetipo universale, da accostare quindi in chiave antropologica più che storica. Al tempo stesso la sua è un’universalità che si raggiunge passando attraverso il particolare, in questo caso la cultura araba nomade anteriore all’Islam. Per agevolare lo sforzo di “migrazione culturale” che tale radicamento impone al lettore occidentale, ci permettiamo di suggerirgli di sostituire mentalmente, alle cammelle e cammelline che abbiamo mantenuto per filologico scrupolo, le pecore e gli agnellini della sua propria traduzione arcadica: tutto suonerà immediatamente più familiare. Viceversa suonerebbe importuno precisare, come pure è, che i beni di cui Hātim si spoglia sono in gran parte il frutto delle sue razzie.

Come illustra bene l’aneddoto dei tre poeti, la generosità di Hātim è mossa dall’ansia di sfuggire al grande abisso della morte. «O tu che mi rimproveri perché mi sprofondo nella guerra e nei piaceri, tu puoi farmi immortale?», aveva cantato un altro grande poeta preislamico, Tarafa[3]. In Hātim questo anelito è portato agli estremi: in un aneddoto non conservato da Ibn Qutayba, un nemico gli grida, nel pieno di una mischia furibonda: “Donami la tua lancia!”. E subito il capo tribù si spoglia della sua arma, esponendosi così al rischio di morire. La morte è in realtà onnipresente in questi aneddoti, si pensi solo alla scena del sacrificio del cavallo in tempo di carestia.

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Posto di fronte all’intransigenza di un ideale totalizzante, l’Islam nascente sceglie la strada della moderazione. Certo, sull’esempio dell’Abramo coranico e del suo trattamento dei misteriosi ospiti di 51,24-27 (e 15,51-56) e forse ancor più sulla base delle usanze arabe fatte proprie da Muhammad e dai suoi primi Compagni, di cui la toccante storia di Abū Talha offre una bella esemplificazione, l’ospitalità è eretta a chiave di volta del sistema etico islamico: «Chi crede in Dio e nell’Ultimo Giorno onori l’ospite». E tuttavia di questa ospitalità sono anche precisati i limiti, con grande senso pratico: tre giorni, il primo con un banchetto speciale, gli altri due con un trattamento normale. «Dopo è carità». Non paghi, i giuristi si domanderanno se i tre giorni vadano presi come un precetto vincolante, al pari della preghiera o del digiuno, concludendo che si tratta soltanto di una raccomandazione.

Significativa appare quindi la valutazione contrastata della figura di Hātim in due tradizioni riportate da al-Isfahānī: nella prima ‘Alī esprime un giudizio favorevole (e molto moderno) sulle virtù umane che preparano alla fede, ma nel secondo il Profeta dell’Islam, senza tanti giri di parole, dichiara al figlio di Hātim che suo padre è legna da ardere all’inferno, censurando così nel modo più netto il movente pagano che animava la sua ricerca del “bel gesto”. Ma c’è da dire che l’autore del Libro dei canti, che di diritto s’interessa assai poco, dà implicitamente la preferenza ad ‘Alī, riportando il suo hadīth in posizione privilegiata.

Gli hadīth e ancor più la loro esegesi giuridica tradiscono dunque la difficoltà di attuare praticamente il valore della generosità ospitale. Già allora, potremmo dire. E tuttavia, l’ospitalità è restata nei secoli una virtù tipicamente araba e l’irrisolto oscillare tra idealità e sua razionalizzazione ha qualcosa da dire anche ai nostri, disincantati, giorni.


[1] Le Mille e una notte, edizione a cura di Francesco Gabrieli, Einaudi, Torino 2006 (prima edizione 1948), vol. II, pp. 165-166.

[2] Si tratta della novella di Natan e Mitridanes (giornata X, novella 3). Nonostante sia ambientata nel favoloso Catai, la quasi identità di trama con un aneddoto del ciclo di Hātim non può essere casuale. Cfr. Georges Thouvenin, La légende arabe d’Hatim Ta’ï dans le Décaméron, «Romania» 59 (1933), pp. 248-269. Il problema principale è l’individuazione della fonte esatta: Thouvenin ipotizza il Bustān del poeta persiano Saadi (m. 1291), ma vista la natura dei contatti tra Oriente e Occidente nel tardo Medioevo sarebbe preferibile una trasmissione meno letteraria e più popolare.

[3] Mu‘allaqa, v. 56, edizione di Pierre Larcher (Fata Morgana 2000).

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