Vali Nasr, The Shia Revival, Norton & Company, New York-London 2007

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:21

“Mezzaluna sciita” è un’espressione che ha goduto in anni recenti di crescente successo. Il termine evoca la particolare distribuzione geografica della minoranza sciita che, dal proprio centro in Iran, si diparte a ovest verso l’Iraq, la Siria, il Libano e la Turchia orientale, a sud verso il Golfo e la regione orientale dell’Arabia Saudita e a est verso il Pakistan e l’Afghanistan, costituendo così circa metà della popolazione nelle terre islamiche centrali. A questa mezzaluna, alla sua realtà presente e al suo futuro prossimo, è dedicato il libro di Vali Nasr, influente analista americano. Dopo un’introduzione in cui, con qualche concessione al pittoresco, vengono delineate le principali caratteristiche dell’ “altro Islam”, il libro si concentra sulla politica contemporanea, con una speciale attenzione all’Iraq del post-Saddam e all’Iran dalla rivoluzione khomeinista in poi. La tesi dell’autore è che la cosiddetta mezzaluna sciita, sulla cui rilevanza per gli scenari mediorientali futuri egli non nutre alcun dubbio, sia in realtà percorsa da correnti rivali: «La prospettiva di un’entità politica sciita di tipo monolitico o di un modello di regime dominato dall’Iran è remota» (184). Nato in Iran da un’importante famiglia, Vali Nasr descrive con chiarezza la rottura con la tradizione introdotta dall’ayatollah Khomeini: «Il suo era uno sciismo nuovo, interpretato da qualcuno che pretendeva di avere una conoscenza diretta della Verità» (121). Anche da alcuni aneddoti, come il silenzio misterioso osservato da Khomeini alla domanda di un membro del parlamento se egli fosse l’Imam nascosto, si comprende la portata rivoluzionaria del movimento, che risulta profondamente diverso dal fondamentalismo revivalista sunnita. L’ambizione di Khomeini era di espandere la rivoluzione anche oltre il mondo sciita giocando la carta della contrapposizione a Israele e all’Occidente, ma la strategia alla lunga non diede i risultati sperati. In pagine molto interessanti, Nasr descrive l’attuale condizione della Repubblica Islamica d’Iran, in bilico tra perpetuazione del regime rivoluzionario e istanze di cambiamento, avanzate da una società che è «stufa di essere condotta a forza in Paradiso» (219). Un particolare la dice lunga: il persiano è la terza lingua più diffusa in Internet dopo l’inglese e il cinese. Autenticamente rivoluzionario rimane invece, a giudizio dell’autore, l’atteggiamento di Hezbollah in Libano. Tuttavia – sostiene Nasr – l’invasione dell’Iraq (l’altro Paese a maggioranza sciita) ha introdotto un potenziale concorrente all’egemonia di Tehran. Uno dei meriti del libro è sicuramente ripercorrere la cronaca recente irachena, collegando tra loro una serie di episodi (l’insurrezione sunnita, gli attentati ai santuari sciiti, l’esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr etc.) che hanno avuto ampia risonanza, ma spesso in modo frammentario. Grande rilievo viene dato alla posizione dell’Ayatollah Sistani, la più alta autorità religiosa sciita del Paese, ma punto di riferimento anche aldilà dei confini iracheni. Secondo Nasr, la sua posizione prova che «la rinascita sciita è disposta positivamente verso un cambiamento democratico» (179). L’analisi si ferma al 2007 e sarebbe interessante conoscere se per l’autore gli ultimi quattro anni di politica irachena confermino o mettano in crisi questa valutazione. Il libro, dichiaratamente filo-sciita, è scritto con grande abilità. È leggibile e ricco di aneddoti, ma saldamente costruito. Si può tuttavia lamentare la quasi totale assenza di riferimenti alle minoranze cristiane, salvo un veloce accenno al Libano. Benché il volume sia dedicato alle tensioni inter-islamiche, qualche parola sui cristiani iracheni, anch’essi bersaglio del fondamentalismo terrorista, avrebbe ben potuto essere spesa. Nasr conclude che «abbandonare l’impegno per un cambiamento politico – cambiamento che porti più libertà e democrazia, anche a rischio di qualche successo islamista – non è un buon modo di cominciare» (272). A giudicare dalle ultime scelte dell’amministrazione americana, si direbbe sia stato ascoltato.

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