Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:55

La marcia di Haftar

 

La recente avanzata del Generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica e guida dell’Esercito di Liberazione Nazionale (LNA), verso Tripoli, sede del Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj, è solo l’ultimo capitolo di una fase turbolenta iniziata nel 2011 in Libia, e più in generale in Medio Oriente e Nord Africa. Ibrahim Al-Marashi su TRTWorld ripercorre le tappe che hanno portato alla situazione attuale, dalla caduta di Gheddafi con la conseguente lotta fra milizie culminata con l’affermazione sulla parte orientale del Paese di Haftar, all’internazionalizzazione del conflitto, fino alla spaccatura della Libia in due schieramenti, guidate dalle figure di al-Sarraj e Haftar. Al-Marashi nota inoltre come in Libia, Paese per certi versi simile allo Yemen, siano comparsi numerosi attori non statali all’interno di uno schema di alleanze variabili che rende la situazione difficile da decifrare, anche a causa di interessi sovranazionali.

 

A tal proposito, in prima linea c’è – o dovrebbe esserci – l’Italia, per cui la Libia rappresenta una priorità, in particolare nell’ambito energetico e in relazione a terrorismo e migranti, come sottolineato da Arturo Varvelli e Federico Borsari per ISPI. Se a livello politico la Conferenza di Palermo aveva portato molti esponenti del Governo a sbilanciarsi circa un nuovo ruolo dell’Italia in Libia, le frizioni con la Francia e l’adesione alla Belt and Road Initiative (la cosiddetta “Nuova via della seta”) mettono il nostro Paese in una posizione delicata, resa ancora più precaria dalla decisione di ENI di richiamare il proprio personale (cosa non successa nemmeno nel 2011). Ancora una volta, come notato da Lucio Caracciolo su Limes, quello che è mancato all’Italia è stata una strategia, che ha portato il nostro Paese ad occupare un ruolo marginale in Libia.

 

Va però notato come l’Italia avesse cercato giustamente di coinvolgere un attore chiave, ovvero gli Stati Uniti, incontrando però una certa resistenza da parte dell’amministrazione Trump. Come ricostruito dal New York Times, gli Stati Uniti, ufficialmente allineati con le Nazioni Unite nel sostegno di al-Sarraj, avrebbero l’opportunità e le risorse per offrire supporto diplomatico per raggiungere un accordo politico, come prevede il piano ONU progettato da Ghassan Salamé. Gli Stati Uniti sono però intrappolati in un dilemma. Vanno infatti considerati alcuni elementi a favore di Haftar agli occhi di Trump: le riserve petrolifere sotto il suo controllo a el-Sharara ed el-Feel, la necessità di un uomo forte con cui poter dialogare e la vicinanza di Haftar ad alcuni alleati strategici in Medio Oriente.

 

Ed è proprio su questi alleati che fa affidamento Haftar. Oltre agli interessi economici della Francia, che ha comunque smentito di essere a conoscenza del suo piano, va ricordata la vicinanza in ottica anti-islamista fra il Generale e altri Paesi della regione, come Egitto, Arabia Saudita ed Emirati – un supporto che ha creato non poco imbarazzo al Regno Unito, alleato di Abu Dhabi in Medio Oriente, ma con posizioni diverse in Libia, come evidenzia il The Guardian. Ma Haftar oggi, come al-Sisi nel 2013, ha un profondo debito di riconoscenza verso Riyadh e Abu Dhabi. Infatti, oltre al rifornimento di armi, gli alleati del Golfo permettono ad Haftar di contare sulle milizie d’ispirazione salafita. Come ricostruisce Francesca Mannocchi su Repubblica, mentre il Generale si scaglia contro gli islamisti di Tripoli, cerca – e gode – del sostegno di gruppi madkhaliti. Il madkhalismo è un tipo di salafismo quietista che si ispira agli insegnamenti di Rabi al-Madkhali e che rigetta ogni forma di democrazia, predicando la necessità di obbedire al potere in essere. D’altra parte, altre milizie salafite con sede nella Tripolitania, come le Forze Speciali di Deterrenza e il Battaglione Nawasi, hanno il sostegno di al-Sarraj, che le ha incluse nel Central Security Apparatus (CSA).

 

Oltre ai menzionati, un alleato chiave per il leader dell’LNA è rappresentato dalla Russia. Nei giorni scorsi, mentre l’Inviato Speciale del Cremlino in Libia, Mikhail Bogdanov, auspicava una soluzione politica, il Ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, denunciava dal Cairo gli attacchi aerei contro le forze di Haftar. La posizione russa, definita «apparentemente neutrale» da Al Monitor, cela in realtà alcuni interessi economici: la Federazione non solo avrebbe venduto armamenti all’LNA, ma avrebbe anche inviato numerosi mercenari del gruppo privato Wagner a sostegno di Haftar.

 

La situazione resta in evoluzione e gli scontri proseguono nei dintorni della capitale libica. Come scrivono Giorgio Cafiero e Theodore Karasik per il Middle East Institute, l’avanzata di Haftar, agevolata dalla crisi algerina e dalla sfiducia che molti attori internazionali hanno nel dialogo promosso dall’ONU, porterà probabilmente maggiore instabilità. Chi si immaginava un “modello tunisino” e un ruolo ridimensionato dei militari combatterà strenuamente contro il Generale della Cirenaica, che ha sì a disposizione una forza militare notevole, ma non sufficiente a garantirgli una vittoria nel breve periodo. Molto dipenderà comunque dalla capacità delle forze tripolitane di fare fronte comune contro Haftar, senza dimenticare la presenza sul territorio di gruppi jihadisti che hanno dato prova di trarre grande beneficio da situazioni di tumulto e caos.

 

 

Al-Sisi a Washington

 

Proprio in questi giorni, come riportato dal Washington Post, il Presidente egiziano al-Sisi è in visita alla Casa Bianca per rafforzare i legami militari (già oggi l’Egitto importa un miliardo di dollari in armamenti dagli Stati Uniti) e in tema di sicurezza, un argomento sempre di primo piano, come tristemente ricordato dall’attacco suicida di matrice jihadista condotto il 9 aprile nel mercato di Sheikh Zuweid, nel Sinai. La visita è stata inoltre l’occasione per al-Sisi di incontrare Jared Kushner, genero e uomo di fiducia del Presidente Trump e promotore del cosiddetto “Accordo del Secolo” sulla questione israelo-palestinese.

 

Sempre sul quotidiano americano si legge di come Trump non abbia espresso alcuna preoccupazione sulla situazione dei diritti umani in Egitto, nonostante gli oltre 60.000 prigionieri politici, mentre il Segretario di Stato Mike Pompeo, pressato da alcuni senatori e deputati, precisava la differenza fra una “dittatura” come quella iraniana e un “regime autoritario” come nel caso egiziano.

 

La visita è stata però anche l’occasione per molti attivisti di attirare l’attenzione dei media su quanto accade in Egitto. Il filo-Qatar Middle East Eye ha così raccolto la voce di alcuni dissidenti. Ahmed Abdel-Basit ha denunciato la conduzione di processi sommari, l’imprigionamento e a volte l’esecuzione del tutto arbitraria di molti oppositori del regime. Dello stesso avviso sono Sohayla e Nosayba Mahmoud, figlie di Ahmed Mahmoud e Raia Hassan, imprigionati e torturati dal regime per aver preso parte alle proteste del 2011. Una battaglia simile è quella che combatte dagli Stati Uniti Aayah Hosam, dopo che i suoi genitori sono stati arrestati nel luglio 2017 senza alcun capo di imputazione, ma solo per la presunta vicinanza ai Fratelli Musulmani: la mamma di Aayah è infatti figlia di Yusuf al-Qaradawi, una figura di spicco della Fratellanza.

 

A destare preoccupazione è però anche la situazione delle minoranze religiose, come analizzato da Foreign Policy. Nonostante il Presidente abbia proposto una riforma dell’Islam, entrando in un acceso dibattito con l’università-moschea di al-Azhar, e si sia presentato come protettore delle minoranze, poco di quanto promesso è stato realizzato.

 

Innanzitutto, le preoccupazioni maggiori riguardano la comunità copta, che aveva inizialmente accolto positivamente l’avvento di al-Sisi e la caduta del governo islamista guidato da Morsi. I copti (circa 8 milioni, ovvero il 10% della popolazione) sono ancora considerati cittadini di serie B. Lo si evince dalla marginalizzazione economica, soprattutto nel settore pubblico, dall’ancora attuale – e attuato – Articolo 98 del Codice Penale sulla blasfemia, dai numerosi attacchi contro i luoghi di culto e dalle restrizioni sulla costruzione di chiese. Mentre l’inaugurazione della nuova cattedrale copta, la più grande in Medio Oriente, si è mostrata un’efficace operazione di marketing, solo il 24% dei luoghi di culto che hanno fatto domanda di riconoscimento è stato ammesso dallo Stato.

 

Una condizione di marginalizzazione che riguarda anche altre minoranze religiose, come gli Ebrei, i Bahai o i Testimoni di Geova, questi ultimi due addirittura vietati dal governo di al-Sisi.

 

 

I Pasdaran sono terroristi per gli Stati Uniti

 

Gli Stati Uniti condividono con l’Egitto e con altri alleati regionali un atteggiamento estremamente critico nei confronti dell’Iran, come si può notare dalla decisione di inserire il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Iraniana (IRGC o Pasdaran) nell’elenco delle FTOs, le organizzazioni straniere che conducono attività di terrorismo. Oltre ai Guardiani, anche il capo delle Forze Quds, Qassem Soleimani, è stato definito da Mike Pompeo «un terrorista», paragonabile al Califfo del sedicente Stato Islamico. I Pasdaran, dei quali la BBC traccia un profilo dettagliato, non solo rappresentano una forza militare di un Paese sovrano, ma rivestono un ruolo chiave nella sicurezza, nell’economia e nella politica della Repubblica islamica.

 

Come analizza Cinzia Bianco su Formiche, la decisione di Washington

è molto apprezzata a Riad e ad Abu Dhabi, ma mette in seria difficoltà sia l’Oman che il Qatar, ma anche il Kuwait […] e il rischio è che questo sia un prerequisito di una lenta, graduale, ma inevitabile escalation che potrebbe portare anche a un conflitto, sebbene in low intensity.

 

L’Iran ha risposto definendo lo US CENTCOM, il comando militare americano responsabile delle operazioni in Asia occidentale, un’“organizzazione terroristica”. Come nota Annalisa Perteghella per ISPI, la decisione di Teheran ha un valore mediatico e simbolico più che pratico, legittimando l’Iran come guida dell’asse di resistenza anti-americana in Medio Oriente.

 

Allo stesso modo, come ricostruito da L’Orient Le Jour, la scelta di Washington ha contribuito a compattare le forze iraniane, riuscendo a unire le frange più moderate con quelle più radicali. Questo avvicinamento lo si può apprezzare dal meeting fra il Ministro degli Esteri Javad Zarif, il leader delle IRGC Mohammed Jafari e la guida delle Forze Quds Qassem Soleimani, dal giornale moderato Etemad che titola «Sono anche io un Guardiano» e dai membri del Parlamento di diversi schieramenti che si sono riuniti indossando la divisa dei Pasdaran.

 

 

Elezioni in Israele

 

Israele ha occupato le prime pagine dei media per le elezioni tenutesi nella giornata di martedì. Oltre sei milioni di cittadini, il 15% dei quali arabi, sono stati chiamati alle urne, con un’affluenza di oltre il 60%. Come ricostruito da Crisis Group, le incognite prima del voto riguardavano tre aspetti: la frammentazione degli schieramenti, il peso attribuito alle accuse di corruzione, frode e violazione di fiducia rivolte a Benjamin Netanyahu e la rilevanza assegnata alle tematiche di sicurezza.

 

Nonostante il testa a testa fra Netanyahu, leader di Likud, e Benny Gantz, a capo dell’alleanza Blue and White, i risultati sembrano orientarsi verso la riconferma dell’attuale Premier per un quinto mandato, come si evince da questa grafica elaborata dalla BBC:

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Una proiezione della divisione del Parlamento dopo le elezioni di martedì [© BBC]

 

La vittoria di Netanyahu, salutata negativamente da Saeb Erekat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP),  è dovuta a diversi fattori. In primo luogo, il Premier ha promosso una politica estera fondata su opposizione allo Stato palestinese, rafforzamento dell’esercito israeliano e sfida a Teheran, che ha sempre riscosso successo in patria. In secondo luogo, Netanyahu ha potuto beneficiare delle concessioni degli americani, che hanno riconosciuto le alture del Golan come territorio israeliano, e dei russi, che hanno riconsegnato con l’aiuto della Siria il corpo di un militare israeliano morto in Libano nel 1982. Infine, il Premier è ricorso, come spesso accade in questi giorni, a una retorica aggressiva.

 

 

IN BREVE

 

Sudan: il Presidente del Sudan, Omar al-Bashir, al potere da 30 anni, è stato deposto dopo che i militari hanno accerchiato il palazzo presidenziale. Il generale Awad Mohamed Ahmed Ibn Auf, a capo del consiglio militare che guiderà il Paese nei prossimi due anni, ha annunciato l'imposizione di uno stato d'emergenza e di un coprifuoco notturno dalle 22 alle 4 del mattino.

 

Turchia: dopo il terzo bilaterale di quest’anno fra Russia e Turchia, il Presidente Erdogan ha ribadito l’intenzione di acquistare il sistema antimissilistico S-400 dal Cremlino. La scelta di Erdogan fa ulteriormente aumentare le tensioni tra Turchia e Stati Uniti.

 

Istanbul: secondo il New York Times, l’AKP è pronto a chiedere un nuovo voto a Istanbul, dopo che il riconteggio ha confermato la sconfitta del candidato vicino al Presidente.

 

Arabia Saudita: gli Stati Uniti hanno reso pubblici i nomi di 16 sauditi sospettati di aver avuto un ruolo nel rapimento e nell’omicidio di Jamal Khashoggi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis