Dopo il viaggio negli Emirati, il Papa visita il Marocco. Due Paesi che promuovono una lettura moderata dell’Islam e ospitano comunità cristiane legate all’immigrazione

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:36

Sulla mappa del mondo arabo, Abu Dhabi e Rabat si trovano agli antipodi: all’estremo oriente e affacciata sul Golfo persico la prima, all’estremo occidente e proiettata verso l’Oceano atlantico la seconda. Nei prossimi giorni, la loro distanza geografica sarà simbolicamente colmata dalla presenza di Papa Francesco, che è stato nella capitale emiratina a inizio febbraio e si appresta ora a visitare quella marocchina. La sequenza straordinariamente ravvicinata di questi viaggi papali non sembra tuttavia una semplice coincidenza. I due Paesi hanno infatti in comune diverse caratteristiche.

 

La prima è rappresentata dal loro impegno nel contrasto dell’estremismo religioso. Marocco ed Emirati, che condividono peraltro l’appartenenza alla scuola giuridica malikita, hanno reagito con decisione alla sfida lanciata dal terrorismo jihadista, promuovendo in patria e all’estero una lettura aperta e conciliante dell’Islam. La monarchia marocchina è stata la prima a muoversi, rispondendo agli attentati di Casablanca del 2003 con una significativa riforma della struttura religiosa del Paese. A differenza del Marocco, che ospita una delle università islamiche più antiche del mondo (la Qarawiyyin di Fes) e il cui capo di Stato è anche “Comandante dei credenti”, gli Emirati non dispongono di istituzioni religiose tradizionali altrettanto prestigiose. Tuttavia, nel contesto segnato dalle rivolte arabe del 2011 e poi dall’affermazione del jihadismo terrorista, Abu Dhabi ha dato impulso alla creazione di nuove organizzazioni religiose, che stanno rapidamente trasformando gli Emirati in un centro di riferimento del mondo musulmano contemporaneo.

 

Nel 2016 lo sforzo dei due Stati ha assunto la forma di un’iniziativa congiunta: la Conferenza di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nel mondo islamico, promossa dal Ministero marocchino degli Habous e degli Affari islamici e dal Forum per la Promozione della Pace nelle Società musulmane, una fondazione con sede negli Emirati Arabi Uniti diretta dallo shaykh di origine mauritana Abdullah Bin Bayyah.

 

Non è un caso che nei suoi viaggi Papa Francesco abbia visitato e visiterà due luoghi simbolo della politica religiosa dei due Paesi: il Consiglio dei Saggi musulmani di Abu Dhabi, una rete di ulama presieduta dal Grande Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyeb e l’Istituto Muhammad VI per la Formazione degli Imam di Rabat, nato nel 2015 per formare guide religiose attrezzate contro le interpretazioni fondamentaliste.

 

Ma l’affinità tra Emirati e Marocco non si limita all’Islam che essi promuovono. A caratterizzare i due Paesi è anche la presenza, sul loro territorio, di consistenti comunità di immigrati. Verso il Paese del Golfo convergono milioni di persone provenienti per lo più dai Paesi dell’Asia (India, Filippine, Bangladesh, Pakistan, etc.); il Marocco è invece territorio sia di residenza che di transito dei migranti che arrivano dall’Africa subsahariana. È a questo fenomeno che è legata la presenza della Chiesa sia nel Golfo che nell’estremo occidente nordafricano. Sappiamo quale rilievo abbiano queste realtà per il Papa, che ci ha abituati a guardare il mondo a partire dalle sue periferie. E per capire in quale considerazione il Pontefice tenga queste comunità cristiane, che vivono il Vangelo silenziosamente ma con fedeltà esemplare, basta leggere l’omelia da lui pronunciata durante la messa celebrata ad Abu Dhabi.

 

Uno degli intellettuali più apprezzati da Papa Francesco, il pensatore uruguayano Alberto Methol Ferré, leggeva i rapporti tra Chiese europee e Chiese latino-americane alla luce della distinzione tra “Chiesa-fonte” e “Chiesa-riflesso”: l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio segna in questo senso la consacrazione della tradizione latino-americana quale “fonte” per tutta la Chiesa universale.

 

Con i suoi viaggi il Papa argentino non si limita a tracciare la strada del dialogo interreligioso. Ma sembra anche voler indicare che le Chiese dell’Asia e dell’Africa hanno a loro volta iniziato la transizione da “riflesso” a “fonte” e hanno perciò molto da dire alle Chiese europee.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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