Bruno Latour, Enquête sur les modes d’existence. Une anthropologie des modernes, Éditions de la Découverte, Paris 2012

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:24

Bruno Latour, nato nel 1947, agrégé di filosofia, passato a occuparsi in seguito di antropologia, ha lavorato in Africa e insegnato negli Stati Uniti prima di ritornare in Francia, dove è conosciuto – e un po’ tenuto a distanza – come un critico della “modernità”. Latour è stato comunque invitato a tenere nel 2012 le prestigiose Gifford Lectures di Edimburgo. A renderlo famoso è stato un libro intitolato Nous n’avons jamais été modernes [Non siamo mai stati moderni] (La Découverte, 1991; nuova edizione 1997), nel quale Latour sosteneva che l’oggettività scientifica è un’illusione (se non una truffa) quando rivendica il monopolio della razionalità e definisce il senso della storia come un progresso inesorabile che divide la vita sociale in ambiti incomunicabili, professionalizzati e secolarizzati. E lo dimostrava applicando i metodi dell’antropologia alla ricerca e al suo “ambiente”. Un “fatto scientifico” risulta essere l’esito di una serie di “traduzioni” (un lavoro di squadra in un laboratorio con un’organizzazione, attrezzature e materiali, sussidi a monte e a valle, comunicazione sotto forma di articoli o conferenze, etc.), che fa emergere la rete nella quale esso acquisisce un significato e si stabilizza. Da qui la teoria dell’«attore-rete», nella quale interagiscono elementi di diversa natura, i quali non obbediscono a nessuna logica unitaria che faccia loro da matrice e s’imponga quindi come verità ultima. In questo nuovo libro, Bruno Latour riconosce i limiti del suo approccio. Non lo rinnega, ma lo trova ancora troppo sistematico, troppo “moderno” e ne propone un altro, più flessibile, più aperto all’irriducibile diversità della realtà, che consenta il dialogo invece di imporre la sottomissione a un dogma non religioso: è l’accettazione della diversità di «modi di esistenza» simultanei, ciascuno dei quali presenta un modo più o meno autonomo di essere al mondo, un «regime di verità». Ne individua quindici che, senza escludersi necessariamente a vicenda – assicura Latour – né senza essere «del tutto buoni» o «del tutto cattivi», vanno dall’arte, alla tecnica, passando per l’abitudine, la moralità, la religione e ciò che egli chiama curiosamente «doppio click», nel quale si coltiva ossessivamente un linguaggio diretto che tollera una sola interpretazione, essa stessa inconfutabile. Rispetto al sessantottino che confessa d’essere stato, l’autore riconosce di nutrire ora un vero e proprio rispetto per le istituzioni. Se esse possono essere percepite come oppressive, i loro fondamenti storici e pratici esimono dalla ricerca di basi radicalmente astratte che potrebbero ispirare un’intransigenza fondamentalista, eventualmente letale. Tuttavia, egli non crede neppure che sia onestamente possibile (né sensato, d’altra parte) fare a meno della metafisica. Non nasconde neppure di essere e rimanere cattolico, anche se ciò che sente a volte nelle chiese lo infastidisce tanto quanto il disprezzo dei “moderni” per qualsiasi religione (si veda Jubiler, ou les tourments de la parole religieuse, La Découverte, 2002). Le sue posizioni sono state accusate di pluralismo, quindi di relativismo. Lui si difende sottolineando che la pluralità dei «modi di esistenza» non è un’ideologia. Il suo libro non si presenta come il frutto maturo di una riflessione magistrale che solo gli imbecilli potrebbero non assimilare, ma come un invito a contribuire: un sito web apposito (www.modesofexistence.org) raccoglie commenti e suggerimenti per dare un seguito al libro. Non vede né spera salvezza nel XXI secolo se non dalla conversazione tra i «modi di esistenza» in quella che lui chiama una «diplomazia» da mettere in pratica. Per i credenti di ogni confessione, che la cultura mediatica, dominante solo nell’Europa occidentale, rappresenta a priori come nostalgici superati o oscurantisti retrogradi, si tratta forse di una risorsa per riconoscersi reciprocamente e restituire il rispetto a cui credono di aver diritto.