L’annuncio di Ennahda divide gli islamisti, non convince i laici e apre il dibattito in Paesi dove l'esperimento della divisione tra moschea e politica è già stato fatto

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:09

Le recente decisione del partito tunisino islamista Ennahda di scindere l’attività politica da quella religiosa ha acceso il dibattito tra gli intellettuali musulmani. L'annuncio ha suscitato da una parte il disappunto sia degli islamisti, che lo considerano un cedimento, sia dei laici, che accusano Ennhada di tenere un doppio discorso. Dall’altra parte ha aperto alla riflessione: il dibattito è aperto anche in Turchia, dove il partito islamista AKP negli anni ha intrapreso un percorso simile, salvo poi conoscere recentemente un’involuzione autoritaria che ha spinto alcuni intellettuali a interrogarsi su somiglianze e differenze tra i due partiti.

Rottura nel fronte islamista

l palestinese Bashir Musa Nafi‘, tra i maggiori intellettuali islamisti, accusa Rachid Ghannouchi, leader di Ennahda, di “aver voltato le spalle all’identità politica islamica, di non considerare più la predicazione come una sua priorità” e di aver trasformato il suo movimento in “un partito laico, tunisino, nazionale che ha reciso il legame con i Fratelli musulmani”. Ennahda avrebbe commesso il primo errore nel 2011, nell'annunciare la trasformazione da movimento a partito politico, rinunciando così a svolgere la funzione di predicazione a favore di quella unicamente politica. “Ciò significa che Ennahda ha abdicato alla predicazione nel momento in cui in Tunisia è tornata a esserci una vita politica libera. Siccome l’Islam politico è necessario per la vita delle società arabe e islamiche […], il vuoto che essa lascia dietro di sé sarà colmato da gruppi nichilisti salafiti-jihadisti e formazioni vicine a Isis”.

Inoltre, per l’intellettuale islamista la presa di distanza dai Fratelli musulmani e dall’Islam politico sarebbe grave per i toni di accusa che Ghannouchi avrebbe utilizzato verso “un movimento politico di dimensioni importanti, che è la corrente politica maggioritaria in un numero considerevole di Stati arabi”. Alle forze dell’Islam politico Musa Nafi‘ attribuisce il merito di essersi battute per quasi un secolo per l’indipendenza dei loro Paesi, la libertà dei popoli e l’istituzione di un governo giusto. La novità del discorso di Ennahda risiederebbe secondo l’autore in un linguaggio che “santifica lo Stato”, più vicino al discorso di Vladimir Putin che a quello dei democratici. Questo discorso – spiega Nafi‘ – sarebbe comprensibile se la Tunisia fosse uno Stato importante o se la sua storia fosse ricca di successi. Ma non è così: la Tunisia è giovane, è nata nella metà del XVIII secolo e ha una storia costellata di fallimenti: non è riuscita a salvaguardare la propria indipendenza dalla pressione coloniale e non è riuscita a produrre la propria Rinascita (Ennahda in arabo singifica proprio rinascita). L’intellettuale islamista conclude: “Piuttosto che un discorso di santificazione, ciò che Ennahda potrebbe offrire alla Tunisia post-rivoluzionaria è il confronto critico con lo Stato”.

Le perplessità dei laici

Diffidenti sono invece i laici, secondo i quali Ennahda starebbe facendo il doppio gioco. Leila Babès, intellettuale franco-algerina docente di sociologia delle religioni all’università cattolica di Lille, ritiene che Ennahda non si sottragga all’impasse di tutti i movimenti politico-religiosi sorti nel mondo islamico. La contraddizione insita nella loro ideologia tra la ricerca del potere e la critica dell’autorità impedisce loro di pensare fino in fondo la dimensione politica, ha spiegato a Oasis. Per Babès, la mossa di Ennahda in Tunisia sarebbe dettata dalla contingenza e dalla consapevolezza della sua fragilità. A differenza dell’Egitto, in cui i Fratelli sono ben radicati e influenti, in Tunisia gli equilibri sono ben più complessi e le forze islamiste bilanciate da quelle laiche, perciò gli islamisti tunisini non avrebbero avuto altra scelta se non tentare la via della riforma.

Al di là della credibilità di Ghannouchi e del progetto di Ennahda, Babès è convinta che il Maghreb stia conoscendo una graduale secolarizzazione, se non altro per la vicinanza geografica all’Europa, ai cui valori guardano la Tunisia e il Marocco in particolare, e per l’operato di Habib Bourguiba, fondatore e primo Presidente della Tunisia moderna. È stato coraggioso Bourguiba – spiega Babès, “ha compiuto riforme audaci che all’epoca gli valsero anche una fatwa di morte dal muftì dell’Arabia Saudita, ma non ha potuto eliminare dalla Costituzione la formula ‘l’Islam è religione di Stato’ perché gli ulema della Zeytuna - la più antica moschea di Tunisi e importante luogo di studio religioso, ndr - glielo impedirono”.

Il confronto con l’AKP

a polarizzazione tra islamisti e laici, spesso entrambi ostili anche se per motivi diversi, all’evoluzione di Ennahda, è meno evidente in Turchia, dove gli intellettuali sembrano più interessati a confrontare il percorso di Ennahda con quello dell’AKP turco. Tra loro spicca Mustafa Akyol. Quindici anni fa – ricorda l’intellettuale turco – anche l’AKP aveva annunciato un cambio di rotta e i suoi fondatori avevano preso a definirsi “conservatori democratici”, che nel loro linguaggio doveva significare “musulmani praticanti democratici”. Finché il partito era debole, era “moderato”, ma nel momento in cui il leader Recep Tayyip Erdoğan è riuscito a consolidare il potere, si è rivelato autocratico. Perciò – spiega Akyol – se Ennahda si è lasciata ispirare dall’esperienza turca, come peraltro ha dichiarato più volte Ghannouchi, la sua svolta non è un segnale rassicurante. Tuttavia i fatti e l’esperienza tunisina al momento farebbero ben sperare: diversamente da Erdoğan, politico assertivo e in cerca di potere personale, Ghannouchi è un intellettuale pacato e non egocentrico e gli equilibri della Turchia, dove i militari hanno avuto un ruolo preponderante, sono ben diversi da quelli della Tunisia, che nel 2011 durante la transizione democratica ha visto la formazione del Quartetto per il dialogo nazionale, insignito del premio Nobel per la pace nel 2015. Del resto – spiega ancora Akyol – in cinque anni di esperienza democratica Ennahda ha conseguito molti più risultati rispetto a quelli conseguiti dall’AKP negli ultimi quindici anni. La sua conclusione è quindi che “Ennahda dovrebbe evitare d’identificarsi con il modello turco”.

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