Stéphane Lacroix, Les islamistes saoudiens. Une insurrection manquée, Puf, Paris 2010

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:35:54

Les islamistes saudiens. Une insurrection manquée è il risultato di una ricerca sul campo condotta tra il giugno 2003 e il maggio 2007 principalmente in Arabia Saudita, ma anche in Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania e Gran Bretagna, nel corso della quale Stéphane Lacroix ha incontrato alcune grandi figure dell’Islam politico saudita, tema questo indagato scarsamente e quasi sempre a partire da fonti secondarie. L’autore rileva innanzitutto il carattere plurale dell’Islam saudita, troppo spesso considerato un blocco monolitico, all’interno del quale hanno preso vita molteplici movimenti di matrice islamista, generalmente poco noti in Occidente. L’Arabia, sostiene l’autore, non è semplicemente un Paese esportatore d’Islam, ma è piuttosto un ricettacolo d’influenze esterne. Ciò permette di comprendere meglio la modalità con la quale si è sviluppata la cultura dell’attivismo islamico locale che, unita agli insegnamenti di ‘Abd al-Wahab, ha dato vita a movimenti islamisti autoctoni, complessi e diversificati, il più noto dei quali è la cosiddetta Sahwa islâmiyya, il risveglio islamico. Accanto a questo, Lacroix menziona anche altri gruppi, come quello degli Ahl al-Hadîth che, formato dai seguaci dello shaykh al-Albânî, auspica un wahhabismo rigenerato e purificato dall’influenza dei Fratelli Musulmani, e il jihadismo (finanziato da Bin Laden), una forma di islamismo definito nel volume “internazionalista”, emersa nel 1979 in seguito all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Il primo capitolo è dedicato all’analisi della Sahwa, movimento affermatosi negli anni ’60-’70, «un miscuglio di wahhabismo e concezioni ereditate dai Fratelli Musulmani» (42). Si tratta, in breve, di un ibrido generato dall’unione di due matrici distinte: il wahabismo di natura essenzialmente religiosa, nato per contrastare le innovazioni contrarie all’Islam (bid‘a) e la Fratellanza musulmana, fenomeno prima di tutto politico, che ha sviluppato un senso di opposizione contro l’Occidente imperialista, nella versione di Hasan al-Banna, e contro i regimi nazionalisti empi in quella di Sayyid Qutb. L’importanza di questo movimento islamista è legata agli sviluppi che esso ha conosciuto nel corso degli anni: da movimento ben integrato nelle istituzioni ufficiali dello Stato, tanto da vedersi attribuita la gestione dell’istruzione, a protagonista di una mancata insurrezione contro la famiglia reale. Buona parte del libro è dedicata proprio alla logica e alle dinamiche di questa contestazione iniziata negli anni ’80 e protrattasi fino al 1994, provocata dalla recessione economica successiva allo choc petrolifero e, soprattutto, dalla presenza militare americana nello Stato delle due città sante, Mecca e Medina, una presenza voluta dalla famiglia reale nel timore che Saddam Hussein, dopo il Kuwait, potesse invadere anche l’Arabia Saudita. L’autore analizza il fallimento dell’insurrezione sahwi in un lungo capitolo, Anatomie d’un échec, in cui illustra i metodi che la famiglia reale adottò per ridurre al silenzio i dissidenti. Tra questi la coercizione, dovuta al «paternalismo politico» dello Stato saudita che «tratta i suoi sudditi come bambini che hanno sbagliato» (238), gli arresti e le esecuzioni pubbliche, accompagnate da una politica di regolamentazione istituzionale che mirava a ridurre il flusso delle risorse materiali e simboliche destinate al movimento nel tentativo di indebolirlo. Quest’opera ha il merito d’illustrare le particolarità che caratterizzano la cultura dell’attivismo islamico saudita distinguendolo dall’Islam politico del resto del mondo arabo. Nel caso saudita, come specifica l’autore, «non si tratta di combattere un regime secolare che si rifà a un registro diverso rispetto alla religione, ma si tratta piuttosto di contendere a un potere fondato sulla religione il monopolio del divino» (4).

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