Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:43:02

Come prevedibile, l’accordo raggiunto in extremis alla conferenza sul clima (Cop28) di Dubai è stato ampiamente celebrato dalla stampa emiratina. Le prime pagine del quotidiano al-Ittihad uscito il 14 dicembre sono un florilegio di encomi e di titoli in tinta verde, colore ufficiale della conferenza e simbolo delle energie rinnovabili: «successo storico degli Emirati»; «l’accordo storico degli Emirati pone il mondo sulla retta via»; «un nuovo percorso per la costruzione di un futuro migliore per i popoli». Sulla stessa linea anche al-‘Ayn al-Ikhbariyya: «Gli Emirati hanno offerto un modello nuovo e unico incarnando il senso di responsabilità umana e culturale a livello mondiale».   

 

Visione del tutto disincantata per il panarabo filo-emiratino al-‘Arab, che ha coperto la cronaca dell’evento giorno per giorno, mostrando tutte le difficoltà e gli ostacoli per l’approvazione del testo finale. Il quotidiano ha anzitutto sottolineato l’iniziale rifiuto dell’Arabia Saudita a riconoscere gli idrocarburi come causa principale del riscaldamento globale: «la Cop28 si trasforma in un terreno di scontro a causa della trattativa sui combustibili fossili. Molte critiche ai tentativi dell’OPEC di limitarsi a ridurre le emissioni» (10 dicembre). Successivamente il giornale ha messo in risalto i pericoli derivanti dallo stallo della trattativa – notando con malcelato disappunto l’assenza del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman all’apertura dei lavori – e ha sottolineato gli sforzi degli Emirati nel raggiungere un compromesso: «qualsiasi lettura storica attribuisce agli Emirati il ruolo di garante degli accordi. La sua leadership si muove con molta cautela prima di compiere importanti passi politici. Ma, una volta che si attiva, le parti in causa si rendono conto della sua determinazione nel raggiungere un accordo e della sua capacità di offrire garanzie a entrambi […]. La cerimonia di apertura si è tenuta il 1° dicembre, ma il principe ereditario saudita non vi ha preso parte […]. Niente può turbare la stabilità della relazione speciale tra Arabia Saudita ed Emirati […]: come in tutti i Paesi del mondo, le relazioni bilaterali hanno sempre alti e bassi. Può darsi che la priorità delle relazioni tra i due Stati consista nel superamento di qualsiasi “gelo”, sia esso legato alla situazione in Yemen o alla gestione da parte di Riyad di alcune questioni politiche, economiche e regionali. Sembrava che la questione fosse già stata chiusa e risolta» (11 dicembre). Il giorno seguente la preoccupazione si è trasformata in vera e propria irritazione quando i Paesi dell’OPEC+ si sono riuniti a Doha per rimarcare il loro rifiuto all’eliminazione drastica (phase out) dei combustibili fossili, come traspare dal titolo della prima pagina del 12 dicembre: «i Paesi arabi dell’OPEC gettano via l’opportunità di formare un fronte unito alla Cop28. Perplessità sulla riunione che si è tenuta a Doha invece che a Dubai, sotto gli occhi degli attivisti del clima». Nell’articolo l’incontro nel Qatar è stato paragonato a una «fuga da tutti gli impegni internazionali volti ad affrontare il cambiamento climatico, dimostrando che quei Paesi avevano già scelto di coltivare i propri interessi; nel mentre, gli Emirati hanno mostrato una matura consapevolezza riguardo alla questione climatica, bilanciando la tutela degli interessi con la preoccupazione del mondo di restare compatti sul contenimento dell’aumento della temperatura» globale. Dopo un’altra giornata tesa e caratterizzata dall’aspra trattativa tra i due blocchi («l’intransigenza pervade la Cop28. Fine del petrolio oppure clima da inferno. La conferenza è stata prolungata di un giorno nel tentativo di arrivare a un accordo», 13 dicembre) il giornale ha commentato, senza troppa enfasi, la dichiarazione finale: «Cop28. Accordo senza vincoli che potranno essere interpretati a seconda degli orientamenti e degli interessi. Accordo storico, ma il suo successo dipenderà dalla disponibilità ad applicarlo» (14 dicembre).

 

Molto fredda e concisa la reazione della stampa (filo)qatariota. Al-‘Arabi al-Jadid, in maniera simile alla testata gemella anglofona The New Arab, ha criticato il fatto che la Cop28 non si sia occupata a sufficienza del disastro ambientale della Striscia di Gaza, sensibilmente peggiorato dopo gli attacchi dell’esercito israeliano: una realtà, questa, che «non ha ricevuto la minima attenzione». Al-Quds al-‘Arabi da una parte ha riconosciuto la portata storica dell’accordo, ma dall’altra ha espresso dubbi sul raggiungimento degli obiettivi riportando i dubbi da parte di tecnici e scienziati. Al Jazeera interviene sul dibattito tra “transizione” ed “eliminazione” degli idrocarburi bollando quest’ultima proposta come «utopia occidentale». La causa della transtitioning away perorata dal Golfo è, a suo dire, l’unica opzione realista in un mondo ancora alimentato per l’80% dal fossile. La testata si unisce alle numerose critiche della stampa internazionale sulla controversa figura dell’emiratino Sultan al-Jaber, presidente sia della Cop28 che della compagnia petrolifera ADNOC, e per questo soprannominato «la volpe che fa la guardia al pollaio».      

 

La stampa saudita evita di esporsi sull’argomento, ma un articolo apparso su al-Sharq al-Awsat a firma del giornalista iraniano Amir Tahiri e intitolato “il riscaldamento globale e la colpevolizzazione del petrolio” è piuttosto caustico: che la Cop28 fosse destinata al fallimento era già chiaro fin da prima dell’inizio dei lavori; sarebbe quindi ingeneroso addossare tutta la colpa ai Paesi arabi dell’OPEC+. Questi, spiega Tahiri, «rappresentano poco più di un terzo della produzione mondiale di petrolio. Tra i più grandi produttori di idrocarburi ci sono gli Stati Uniti, la Russia, il Canada e solo due grandi Stati arabi, l’Arabia Saudita e l’Iraq […]. Dei venti Paesi che consumano più petrolio, soltanto due, Iran e Indonesia, appartengono all’OPEC. Se esistesse la piovra del “petrolio grande e cattivo”, allora i suoi tentacoli si estenderebbero oltre i Paesi arabi dell’OPEC, toccando India, Cina, Unione Europea, Stati Uniti, Canada, Messico e Brasile». Per il giornalista è quindi in atto un processo di demonizzazione dell’oro nero col quale si sono costruiti il «cosiddetto “mondo contemporaneo”» e lo sviluppo scientifico, tecnologico e politico dell’Occidente. «Tra le contraddizioni più evidenti vi è il fatto che molti ambientalisti occidentali che incriminano il “petrolio grande e cattivo” si siano dimenticati di tutto ciò», osserva sarcastico Tahiri.      

 

Critica della critica agli “intellettuali occidentali” [a cura di Chiara Pellegrino]

 

A due mesi dallo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, la questione palestinese continua a essere onnipresente sui media arabi, che tuttavia ne discutono da prospettive piuttosto divergenti. Sul quotidiano panarabo londinese al-Arab, tradizionalmente ostile ai movimenti islamisti, lo scrittore algerino Hamid Zanaz commenta la lettera aperta che il 24 novembre scorso un gruppo di intellettuali arabi ha indirizzato agli “intellettuali occidentali”, invitando questi ultimi a denunciare i crimini israeliani e sostenere «i diritti del popolo palestinese sulla loro terra». Ai colleghi, Zanaz muove critiche di contenuto e di metodo. Respinge la loro idea che l’attacco del 7 ottobre rappresenti una forma di resistenza legittima e li rimprovera di non riconoscere in Hamas «la causa diretta della tragedia che sta vivendo il popolo di Gaza» in questi mesi. Ma li accusa anche d’incoerenza, dal momento che essi sono pronti a criticare l’Occidente di avere doppi standard, mentre «non hanno speso una sola parola sulla barbarie e la brutalità di cui sono stati vittime i civili il 7 ottobre». Infine la nota di metodo. Zanaz contesta la genericità del destinatario dell’appello, cioè «gli intellettuali occidentali»: «parlare di “intellettuali occidentali” è una sorta di generalizzazione, perché l’Occidente è variegato in tutto, anche nel pensiero e nella cultura». Gli autori della lettera, domanda lo scrittore algerino, «sanno che non esiste alcun intellettuale occidentale, ma esistono solo intellettuali francesi, tedeschi, norvegesi, americani e giapponesi? Il messaggio non arriva se il destinatario e l’indirizzo sono errati!» Peraltro, prosegue l’editorialista con un eccesso di benevolenza verso l’Occidente, «forse sfugge agli intellettuali arabi che la maggior parte degli intellettuali occidentali fa parte della sinistra sostenitrice dei diritti dei popoli e della pace, mentre la destra ha assunto posizioni estremiste vero l’Islam e gli arabi a causa del terrorismo islamista che ha barbaramente colpito in Europa e America?». Zanaz conclude con una provocazione, sfidando i pensatori che ritengono Hamas «il vero rappresentante del popolo palestinese» a trasferirsi a Gaza se un giorno il movimento islamista dovesse riuscire a vincere e fondare il suo Stato governato dalla legge islamica.

 

Molto diversi i toni sul sito d’informazione libanese Asas Media, dove Muhammad al-Sammak, per anni protagonista del dialogo interreligioso nel Paese dei Cedri, paragona la campagna militare d’Israele a Gaza a ciò che Hitler e il nazismo fecero agli ebrei in Germania. E scrive: «L’annientamento. Questo è ciò che sta accadendo oggi nella Striscia di Gaza per mano dei discendenti degli ebrei immigrati sopravvissuti alla “soluzione finale”». Secondo Sammak, si tratta di una colpa tanto più grave dal momento che «viene commessa da uno “Stato” che aveva aderito a un trattato contro il genocidio» – la Convenzione sul genocidio approvato dalle Nazioni Unite in seguito all’Olocausto – «e che si fondava principalmente sul fatto che il suo popolo era stato vittima di genocidio per mano del nazismo».

 

Più analitico, sempre su Asas Media, un altro studioso libanese, Ridwan al-Sayyid, secondo il quale Israele si trova davanti a una duplice sfida: quella esistenziale e quella della guerra permanente. Il suo articolo parte da una constatazione: «Ogni volta che l’Europa o i palestinesi chiedono agli Stati Uniti di far pressioni sullo Stato ebraico per un cessate il fuoco, anche solo per ragioni umanitarie, l’amministrazione statunitense, e in particolare Blinken, si mettono a spiegare le “ragioni razionali” della necessità israeliana di proseguire la guerra per qualche settimana o mese». La prima di queste ragioni è ovviamente l’attacco del 7 ottobre di cui Israele è stato vittima, «che minaccia il presente e il futuro» del Paese. In quest’ottica, «la campagna militare non mira solo a eliminare Hamas, ma anche e soprattutto a ripristinare la fiducia degli israeliani nell’esercito, nei servizi di sicurezza e nel loro governo» perché, se questo non dovesse avvenire nel breve periodo, Israele correrebbe il rischio di vedere emigrare la metà dei suoi cittadini. Ma il non detto in tutta questa faccenda, scrive al-Sayyid, è che dietro ogni successo israeliano c’è da sempre il sostegno militare americano. Questa verità taciuta contribuisce a mantenere viva l’illusione israeliana di poter in qualche modo riconquistare la fiducia dei propri cittadini (due terzi dei quali hanno altre nazionalità). Ma questa idea, commenta ancora l’intellettuale, è una pia illusione perché, anche qualora Israele dovesse riuscire a distruggere Hamas, gli israeliani non sarebbero comunque al sicuro «in mezzo a sette milioni di palestinesi che da decenni vengono perseguitati, discriminati, uccisi, imprigionati, e le cui terre vengono occupate e confiscate». Israele, conclude al-Sayyed, «è diventato uno Stato in guerra permanente […]. In tempo di pace c’è il timore della guerra, e in tempo di guerra c’è il timore che l’America lo abbandoni e la vittoria non sia schiacciante».

 

L’Egitto alle urne, ma è solo una formalità [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Intanto, questa settimana in Egitto si sono tenute le elezioni presidenziali. I risultati non sono ancora stati resi noti, ma si pensa che confermeranno le previsioni, ovvero la rielezione di ‘Abdel Fattah al-Sisi.

 

Sul al-Arab, il giornalista egiziano Muhammad Abu Fadl ha riflettuto sulla campagna elettorale del presidente uscente, che sembra essere stata perlopiù incentrata sulle questioni interne e poco sulla dimensione sicuritaria, un ambito in cui «negli ultimi nove anni il presidente ha ottenuto dei risultati tangibili» e che è drammaticamente tornato sotto i riflettori con il conflitto tra Israele e Hamas. Fin dalle prime ore dello scontro, Sisi è rimasto fermo sulle sue posizioni, negando la possibilità del trasferimento dei palestinesi di Gaza nel Sinai. Contro ogni aspettativa, però, non è sembrato particolarmente interessato a trarre beneficio da questa contingenza, che avrebbe potuto effettivamente garantirgli un grande vantaggio elettorale: «L’aggressione israeliana contro Gaza è una narrazione pronta e comoda attraverso la quale Sisi potrebbe superare senza difficoltà le elezioni presidenziali, ma non ha ricevuto grande attenzione perché questa è una guerra che l’Egitto non ha cercato, in cui non vuol essere coinvolto e in cui non vuole investire». Alla politica estera il presidente in carica ha preferito quella interna, promettendo ai cittadini di lavorare per migliorare le condizioni economiche del Paese, perché in fondo «gli egiziani non dubitano della capacità del regime egiziano di proteggere la sicurezza nazionale, ma della possibilità di realizzare un progresso rapido alla luce della sofferenza che sperimentano quotidianamente per i prezzi elevati, l’aumento dell’inflazione e il mancato allineamento tra il reddito e la capacità di spesa». Sisi è consapevole, scrive l’editorialista, che qualsiasi discorso sulla sicurezza non può cancellare gli effetti della crisi economica; perciò, ha incentrato la sua campagna elettorale sulle questioni interne.

 

Su al-‘Arabi al-Jadid, quotidiano panarabo tra i più critici verso il regime egiziano, lo scrittore filo-islamista Mohamed Tolba Redwan ha denunciato lo scarso interesse che le elezioni presidenziali hanno suscitato a livello internazionale. «Non c’è paragone tra le “vere” elezioni del 2012, quando il mondo ha seguito le battaglie dell’Egitto in attesa dei risultati» e le presidenziali del 2023, avvenute nella più totale indifferenza della comunità internazionale. Quest’ultima, scrive l’editorialista, è pronta a «considerare “legittimo” un risultato scontato [la vittoria di Sisi], ciò che è l’ennesima macchia che va ad aggiungersi alla lista delle cospirazioni internazionali, insieme ai crimini dell’occupazione nella nostra regione, ovvero l’occupazione israeliana a Gaza e l’occupazione locale in Egitto», in riferimento al colpo di Stato con cui nel 2013 il generale Sisi depose il governo islamista guidato da Muhammad Mursi.

 

«Si è concluso il terzo atto della commedia delle elezioni presidenziali in Egitto», ha scritto il predicatore egiziano Issam Talima sul sito d’informazione filo-islamista ‘Arabi21. Ed è stata una commedia in tutti i sensi, sia a livello politico, sia a livello dei simboli e delle istituzioni religiose. Con la sola eccezione della moschea di al-Azhar, le personalità islamiche e cristiane, tra cui anche il Papa copto Tawadros, si sono tutte prodigate per «intonare un inno politico a senso unico, lodando Sisi e mobilitandosi per votarlo».

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