Manifestazioni popolari, ruolo degli apparati di sicurezza e ambizioni degli Stati esteri sono alcuni dei fattori da tenere in considerazione per capire quanto sta accadendo a Khartoum e Algeri
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:05
Algeria e Sudan sono attraversate, rispettivamente da marzo 2019 e da dicembre 2018, da manifestazioni di piazza che hanno portato alla caduta di Abdelaziz Bouteflika, al governo ad Algeri dal 1999, e di Omar al-Bashir, al governo a Khartoum dal 1989.
Accanto alla spinta al cambiamento dal basso si muovono anche le potenze regionali, divise lungo la linea di faglia che oppone il Qatar e la Turchia (e l’Islam politico) da una parte e Arabia Saudita ed Emirati Arabi dall’altra.
Ne abbiamo parlato con Francesco Strazzari, professore di Relazioni internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
A cura di Claudio Fontana
Cosa sta accadendo in Algeria e Sudan? Siamo di fronte a una nuova “primavera araba”?
Alcuni osservatori hanno parlato di una “fase 2” delle primavere arabe. Si tratterebbe di una nuova ondata che avrebbe in qualche modo “digerito” le lezioni della fase precedente, e in particolare gli elementi di ingenuità e le aspettative che erano state riposte nel cambiamento politico innescato nel 2011. Le similitudini non mancano: le manifestazioni sono motivate in entrambi i casi dai problemi legati al caro vita e al calo del potere d’acquisto dei cittadini, che è un fenomeno oggi evidente sia in Algeria che in Sudan, paesi fortemente vincolati alla rendita da esportazione di idrocarburi. In Sudan l’aumento del prezzo degli alimenti ha provocato delle manifestazioni che hanno raggiunto la capitale, sfociando in una forte mobilitazione per far cadere il regime. Nel caso algerino le difficoltà nella distribuzione delle rendite di gas e petrolio sono diventate conclamate in una fase declinante della vita economica. All’inizio del quarto mandato, Bouteflika si impegnò infatti con le solite promesse: sostanzialmente investire la rendita in sussidi per sostenere il potere d’acquisto della popolazione, andando contro tutte le indicazioni degli organismi finanziari internazionali. Avvicinandosi al quinto mandato il presidente ottuagenario ha provato a giocare la stessa carta, ma questa volta la popolazione non l’ha ritenuto sufficiente e la protesta contro il “sistema” è dilagata.
Oltre ai fattori economici, ci sono altri elementi che accomunano le rivolte del 2011 e quello che sta accadendo in queste settimane?
Un elemento è il protagonismo dei militari e in particolare dell’esercito. C’è poi un ruolo più oscuro giocato da altri apparati di sicurezza come le cosiddette “truppe ombra” di cui si parla nel caso sudanese. In ogni caso, sia in Sudan che in Algeria gli apparati di intelligence hanno un ruolo molto controverso. L’esercito riflette e in qualche modo cerca di intercettare la domanda che proviene dalla mobilitazione popolare. Questa azione dei militari ricorda la funzione “termidoriana” e restauratrice svolta dall’esercito egiziano con il colpo di stato contro Mohammed Mursi, che era stato eletto dopo la rimozione di Hosni Mubarak. In quel caso infatti ci furono grandi manifestazioni, che chiedevano a viva voce all’esercito di intervenire per far fronte ai fallimenti del governo legato alla Fratellanza musulmana.
C’è poi un’altra similitudine con il 2011 e riguarda l’emergere di un’opinione pubblica, di una società civile e di uno spazio transnazionale di circolazione delle idee esemplificato dal fatto che nella retorica delle piazze si osservano stendardi e manifesti in cui algerini e sudanesi si richiamano l’un l’altro. Altro elemento di comunanza è che le componenti islamiche non sono assenti dalle piazze (soprattutto in Algeria), ma non sono loro a tenere le redini delle manifestazioni.
Quali sono dunque i settori della popolazione maggiormente coinvolti nell’opposizione ai regimi algerino e sudanese?
Si tratta chiaramente del ceto urbano istruito. In entrambi i casi la fase incipiente si è caratterizzata per il protagonismo di avvocati, insegnanti, studenti, medici e persino giornalisti, con le organizzazioni professionali di categoria, tendenzialmente a ispirazione secolare e progressista. Questo ci dice che la società di questi paesi si è differenziata nel tempo molto di più di quanto non si sia differenziato l’apparato politico.
L'attivista sudanese Alaa Salah, simbolo delle proteste
Come era avvenuto con le rivoluzioni del 2011, anche in questi giorni si può osservare l’intervento di alcuni Stati esteri. Penso ad esempio agli aiuti da 3 miliardi garantiti da Arabia Saudita ed Emirati al Sudan dopo l’estromissione di al-Bashir.
Siamo in una fase politica internazionale caratterizzata da forti elementi di instabilità e incertezza, con la rivalità sempre più accesa tra gli Stati sponsor della Fratellanza (Qatar e Turchia) e gli Stati che fanno capo al duo Arabia Saudita-Emirati Arabi Uniti. Si tratta in ogni caso di Paesi che hanno investito moltissimo in Africa. Washington mantiene un ruolo talvolta indecifrabile, ma sempre più ostile alla Fratellanza, mentre la Russia esprime una forte assertività regionale.
Se entriamo in questi aspetti geopolitici, i casi di Algeria e Sudan cominciano a differenziarsi. Da questo punto di vista, il Sudan assume rilevanza assoluta, perché è il primo Paese in cui, vent’anni fa, i Fratelli musulmani arrivarono al governo insieme ai militari, in un connubio del tutto inedito oggi, visto che ci siamo abituati a vedere la Fratellanza schierata con le mobilitazioni dal basso (fu così anche nelle primavere arabe) e non dalla parte del regime. Questa situazione per molti aspetti è diversa in Algeria – altro paese-cardine per comprendere il nesso fra sistema politico, Islam politico e jihadismo di marca salafita – perché nel Paese nordafricano il partito che rappresenta la Fratellanza è un partito d’opposizione, anche più intransigente verso il regime in questa fase di transizione.
Quali Paesi hanno interessi strategici in Sudan? Perché il Sudan è importante a livello regionale e internazionale?
L’interesse materiale sul Sudan è prima di tutto cinese, tanto che qualcuno ha parlato di “golpe cinese”, paragonandolo al colpo di stato del 2017 ad Harare, in Zimbabwe. È tale la sete di risorse strategiche di Pechino che non si può non pensare che la Cina non abbia un ruolo. A emergere con maggior nettezza, tuttavia, è il legame con i paesi del Golfo. La Cina come sempre ha fatto di tutto per smentire il proprio ruolo nell’orientare le scelte politiche, ribadendo la sua linea di non intervento nella politica interna dei Paesi in cui investe. È altresì evidente che il Sudan è centrale nel grande gioco dell’Africa orientale ed è fondamentale per l’Egitto sia per la questione delle risorse idriche che per gli allineamenti/disallineamenti con il grande rivale del Cairo nella regione – l’Etiopia, dove è in corso una delicata transizione democratica.
Ci sono poi tanti fronti geopolitici aperti internamente al Sudan: non solo la questione del Darfur, che si innerva sul tema dell’immunità di al-Bashir, e quindi della governance internazionale, ma anche la questione del Nilo e del Sud Sudan.
Che ruolo hanno giocato i Fratelli musulmani in Sudan?
Negli anni gli orientamenti interni al regime sudanese si sono diversificati. C’è stato un momento in cui il Sudan ha rappresentato, con la personalità istrionica di Hasan al-Turabi, la piattaforma di un islamismo nuovo, una sperimentazione venata di populismo e aperta un po’ a tutte le correnti (ricordiamo l’ospitalità concessa a Bin Laden). Khartoum ha ospitato varie conferenze espressione dell’Islam politico, che pur aveva al tempo linee meno conosciute rispetto a oggi. I pellegrini che dall’Africa occidentale si mettevano in viaggio verso i luoghi sacri vedevano la sosta a Khartoum come un momento importante del proprio percorso, una sorta di anticipo dell’espansione dell’Islam in Africa a venire. Il Sudan venne percepito all’epoca come dotato di carica virulenta, frutto della cooperazione tra l’ideologo al-Turabi e il militare di basso grado al-Bashir, che aveva portato a parlare di connubio “moschea-caserma”. Tuttavia, quando andarono al governo, passarono mesi prima di capire che era la Fratellanza ad aver preso il potere. Quando questo venne compreso, i vicini del Sudan iniziarono a percepire come un veleno la missione internazionale degli Ikhwan, mentre il Paese veniva messo nelle liste nere di Washington.
Ma quella carica, negli ultimi anni, si è completamente persa. Se si guarda alla recente anatomia del potere a emergere è piuttosto un regime autoritario-burocratico relativamente convenzionale. Prima ancora di morire, al-Turabi era già stato emarginato ed erano emersi altri interessi, come la diversificazione di fronti interni, la questione darfurina e i janjaweed, i corpi irregolari di reazione rapida che oggi hanno conquistato il posto numero due nelle gerarchie della nuova giunta militare. Anche la posizione assunta dall’Egitto al momento dello scoppio della rivolta, a fine 2018, indica come la carica ideologica dello stato sudanese si fosse prosciugata: proprio al-Sisi, che ha fatto un golpe per estromettere dal potere i Fratelli musulmani, nei primi mesi delle manifestazioni ha fatto di tutto per sostenere al-Bashir, salvo poi acconciarsi a cercare garanzie di prevedibilità e allinearsi con Emiratini e Sauditi nel dare il benvenuto alla nuova giunta.
Ci sono una serie di dinamiche micro-regionali che vanno lette nel contesto di un gioco molto più grande, in cui ogni centimetro sottratto all’influenza del Qatar è un centimetro guadagnato dalla coalizione saudita-emiratina. In questo scenario, occorre guardare allo Yemen per capire meglio cosa avviene in Sudan, partendo dalle biografie dei nuovi uomini forti sudanesi: a capo della nuova giunta militare troviamo Abdel-Fattah Burhan, che è stato il comandante delle truppe sudanesi in Yemen. L’intervento nel Paese della penisola araba è stato molto controverso anche sul piano interno sudanese: perché schierarsi dalla parte di Abu Dhabi e Riyadh quando il governo sudanese è sempre stato identificato con la Fratellanza e ha sempre rivendicato la possibilità di dialogare con l’Iran? Oggi in Sudan stanno andando al potere gli uomini che hanno combattuto in Yemen, e che parlano di “relazioni speciali” con gli Emirati. Se nel caso del Darfur l’accusa di crimini di guerra e contro l’umanità è conclamata, nelle carneficine dello Yemen troviamo anche parecchie truppe sudanesi irregolari, inclusi bambini-soldato darfurini.
Cosa aspettarsi sul fronte interno sudanese? Cosa continuano a chiedere i dimostranti?
Le manifestazioni di piazza e gli sviluppi politico-militari sono due dinamiche separate, che faticano a convergere ma che in ogni transizione politica post-autoritaria che mantiene la rotta trovano un punto di compromesso, solitamente con il trasferimento graduale di funzioni a un governo civile legittimato da elezioni. L’esercito aveva bisogno delle manifestazioni di piazza per chiudere l’era Bashir e le manifestazioni avevano bisogno dell’esercito. Ma i militari si sono mossi secondo una loro agenda e per ora non hanno alcuna intenzione cedere il controllo della transizione.
La Declaration of Freedom and Change siglata dal variegato fronte di opposizione ad al-Bashir (inclusi partiti storici di opposizione, anche di ispirazione settaria legata al mondo sufi) ha evidenziato il ruolo assunto dalle rappresentanze professionali che si sono fatte interpreti della domanda politica: si tratta di associazioni previste peraltro proprio dalla Costituzione sudanese.
Emerge la richiesta di un governo a guida civile, ma al momento si notano piuttosto vistosi elementi di continuità del regime: anche se il partito di al-Bashir è fuori dai giochi, i militari esprimono una cultura da corpi di spedizione che a fatica si concilia con la democrazia, a partire dall’attuale numero due della giunta, capo dei janjaweed. Questa continuità stride con le mobilitazioni dal basso, che restano forti e articolate. I manifestanti sfilano, mantengono i sit-in davanti al Ministero della Difesa chiedendo ai militari un passo indietro dalla guida del comitato che supervisionerà la transizione. Fra le loro richieste, quella che ci sia una rappresentanza del 40 percento di donne al governo e in parlamento. È una proposta che contrasta fortemente sia con la visione saudita che con quella dei Fratelli musulmani. C’è una società che si esprime con canali propri: se oggi ne parliamo è solamente perché la mobilitazione non si è fermata davanti alla repressione, è andata crescendo negli anni e non riguarda solo la capitale. È chiaro che qualcuno nell’esercito ha cavalcato la protesta per far fuori il potere gerontocratico. Ma al tempo stesso questo ha permesso l’emergere delle richieste della piazza e porta oggi alla necessità di un accordo tra dimostranti ed esercito.
La rimozione di al-Bashir non è dunque un punto di non-ritorno: ma se qualcosa possiamo dire delle mobilitazioni che l’hanno propiziata al grido di Just fall, that’s all, è che esse hanno dimostrato una capacità di grande resistenza (soprattutto nel momento in cui i manifestanti sono stati attaccati casa per casa nei quartieri della capitale considerati il perno della ribellione) e di articolazione, parlando attraverso le classi, le linee di divisione etniche e confessionali (abbiamo visto i cristiani in piazza) e una grande capacità di utilizzo dei media anche davanti a evidenti tentativi di sabotaggio ad opera di trolls e fake news. La cosa più significativa è stata la capacità di non cedere davanti alle promesse e non smobilitare davanti al risultato ottenuto (la caduta di al-Bashir).
Le manifestazioni in Algeria e Sudan interessano soltanto le grandi città oppure sono diffuse su tutto il territorio nazionale?
In Algeria sono state uniformi sul territorio, investendo le grandi città. In Sudan va detto che gli aspetti sociali della crisi si sono sentiti ovunque, non solo nelle città, e le manifestazioni sono cominciate nel nord, tra l’altro nelle zone dove Bashir era più forte. Già dal 19 dicembre 2018 ad Atbara ci sono stati i primi morti. A Port Sudan, per contro, si è arrivati agli scontri fra esercito e apparati di sicurezza (il famigerato NISS), che hanno messo in evidenza le crepe del regime. Recentemente, l’arrivo dei treni stracarichi di manifestanti dalla periferia a Khartoum ha mostrato la capacità delle mobilitazioni di connotarsi come fenomeno genuinamente nazionale. Certo, se uno compara la circolazione di fenomeni associati, come ad esempio la visibilità di una cultura di protesta giovanile hip-hop, balza all’occhio la differenza fra Algeria e Sudan: la musica di protesta sudanese, pur presente, non arriva alle centinaia di migliaia di visualizzazioni che si registrano nelle denunce in musica del “sistema” in Algeria.
Ci possono essere nuovi flussi migratori, se la situazione non dovesse stabilizzarsi?
Khartoum è una città che accoglie rifugiati e tendopoli. Non è la piattaforma principale di partenza dei migranti perché il gigante della regione è l’Etiopia, ma a fronte di un asse geopolitico regionale in movimento (il nuovo corso etiope, la Somalia oggetto di un’offensiva diplomatica turca, l’Eritrea rientra nei giochi diplomatici ma resta uno spazio chiuso), non si possono escludere delle partenze.
Molti sudanesi sono già “dispersi” in varie parti dell’Africa settentrionale (Libia, Ciad, Niger), dove godono di fama di combattenti, e per questo sono guardati con diffidenza dalle autorità dei paesi che li ospitano. Gran parte del peso degli sfollati e rifugiati va però imputato agli scontri nel Sud Sudan. Recentemente sono stato ad Agadez (Niger) e mi è stato spiegato che uno dei modi per capire se i rifugiati fossero “sudanesi” con un background militare è fargli alzare le mani per vedere se così facendo l’indice rimane piegato, indicando la posa del dito sul grilletto. I sudanesi, anche ad Agadez, hanno i loro campi e la loro cucina: gli altri non li vogliono.