Attratto dal volto della Chiesa locale durante una prima esperienza in Nord Africa, Mons. Nicolas Lhernould ha lasciato la Francia più di 20 anni fa. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza di Vescovo in Algeria

Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 14:44:11

Intervista a cura di Caterina Tonini

 

Per iniziare, vorrei farle una domanda personale: come è arrivato in Nord Africa dalla Francia, suo Paese di origine? È stato un caso o una scelta?

 

C’è sempre una mescolanza di sì da pronunciare, tramite dei cammini che non immaginiamo, e soprattutto una chiamata che ci precede. Durante i miei studi nella periferia di Parigi, frequentavo un liceo gestito da una comunità religiosa, fondata dalla madre del Cardinale Daniélou, la Communauté Apostolique Saint-François-Xavier. Questa era collegata da tempo a un’altra comunità di suore: le suore di San Giuseppe dell’apparizione della Medina di Tunisi, e quasi ogni anno mandavano da Parigi un gruppo di volontari e insegnanti per un mese estivo di lezioni ai ragazzi di Tunisi. Io ho partecipato a questo programma nell’estate del 1994, quando avevo 19 anni. Poi mi sono sentito così colpito da quell’esperienza che l’ho voluta replicare l’estate successiva. A quel tempo in Francia c’era ancora il servizio militare: io ho scelto il servizio civile, e mi hanno mandato in Tunisia per due anni a fare l’insegnante di matematica in una scuola della Chiesa. Partendo, non avevo in mente di fermarmi e di vivere là, però durante l’esperienza mi sono sentito colpito dal volto della Chiesa locale e dall’incontro con il popolo tunisino. Questo ha fatto sì che la chiamata che da anni sentivo nella mia vita si presentasse come frutto maturo, e ho chiesto all’arcivescovo di allora, Monsignor Twal, che successivamente è diventato il Patriarca latino di Gerusalemme, di entrare in seminario per la diocesi di Tunisi. Era il 1999, lui mi ha mandato a Roma perché a Tunisi non esisteva più una casa di formazione da decenni. Nel 2004 sono stato ordinato sacerdote a Tunisi, ma poi sono tornato a Roma per finire gli studi in Patristica all’Augustinianum. Sono poi ritornato in modo fisso in Tunisia, dove ho fatto circa sette anni a Sousse e sette anni a Tunisi come parroco e anche come vicario generale. A dicembre del 2019 Papa Francesco mi ha chiesto di varcare la frontiera e di andare a Ippona-Costantina. Di per sé la diocesi di Costantina, rifondata nel 1868, porta entrambi i nomi: Costantina, perché è la città principale della zona e Ippona, la città di cui è stato vescovo Agostino.

 

Che cosa l’ha colpita in Tunisia, in particolare?

 

Ci sono tre cose – anche se continuo a scoprirne e ne scoprirò tutta la mia vita penso – che mi hanno attratto in modo particolare. La prima è il deserto, che mi colpisce molto, non in quanto paesaggio, ma in quanto spazio spirituale e d’incontro: come luogo di incontro con Dio, con l’altro e con se stessi. La seconda cosa è il volto della Chiesa: piccola, povera, fragile. Una chiesa molto famigliare, nella quale tutti si conoscono, con poche opere e con uno slancio direi naturale a impegnarsi. Poi ci sono le amicizie, con i tunisini e anche altri. Non conoscevo per niente l’Islam, però ho scoperto che in questa zona, non soltanto in Tunisia, ma in tutto il Nord Africa, sin dal tempo dei Padri della Chiesa – magari anche prima – c’è un patrimonio spirituale che ti nutre: il fatto di essere in un ambiente nel quale non credere non è accettabile, oppure fa strano, aiuta a radicarsi nella propria fede. Non per niente un personaggio come Charles de Foucauld ha ritrovato la fede in Marocco, vedendo un musulmano pregare. C’è qualcosa di sacro nella società che ti porta all’intimità con Dio, come la chiamiamo noi cristiani. In famiglia, nel linguaggio, nel modo di relazionarsi con la gente, tutto è immerso in qualcosa di spirituale. Questo anche perché i musulmani mettono ovviamente Dio in cima alla scala dei valori. Potrei raccontare una storia che ha fatto capire molte cose a me e a tanti. Un anno siamo andati nel deserto e uno dei nomadi che ci accompagnava aveva una figlia con una mano atrofica dalla nascita. Ha scoperto che una delle signore del nostro gruppo era specializzata in medicina della mano e le ha chiesto di visitare sua figlia. Lei ha accettato, è rimasta con la ragazza circa un quarto d’ora, e tornando ha detto: «Mi dispiace, non ho potuto fare niente. Ho tentato di farle fare alcuni movimenti, ma non ho avuto il coraggio di dire che non c’è soluzione». Appena finita la frase arriva il fratello della giovane con un tappeto di una bellezza straordinaria, un vero capolavoro. L’aveva fatto la ragazza e questo le era costato almeno cinque o sei mesi di lavoro. Suo fratello l’ha regalato alla donna francese a nome della sorella (si fa così, è sempre l’uomo che fa i regali), e allora lei ha detto «Ma perché? Io non ho fatto niente». Era colpita e commossa, poi ha capito che l’importante per la ragazza tunisina non era la soluzione al suo problema, ma il fatto di essere stata visitata e aver avuto l’occasione e la gioia di ospitare, anche solo per un quarto d’ora, la donna straniera che passava nel suo villaggio, di essere stata considerata, ascoltata, e di avere vissuto questo incontro. L’ospitalità è un valore sacro nella società. Un altro fatto significativomi è capitato nel 2015, subito dopo l’attentato al museo del Bardo a Tunisi in cui sono morti alcuni stranieri. L’attacco aveva toccato certamente un luogo sensibile, perché a fianco del museo si trova il Parlamento, ma soprattutto aveva colpito la cultura, l’economia, il turismo, quindi l’ospitalità. Mi ha molto impressionato che la gente, per strada, venendo noi stranieri, veniva a chiederci scusa. Noi chiedevamo stupiti il perché. La risposta era che i tunisini si sentivano responsabili di questi ospiti. Questo i mass media non l’hanno evidenziato molto, ma era un fatto molto forte, che toccava qualcosa di strutturante nella mentalità e nell’esperienza, anche religiosa, dei tunisini.

 

E come descriverebbe la sua esperienza in Algeria?

 

L’Algeria è una terra molto ricca dal punto di vista della storia cristiana. Ci sentiamo trasportati da questa presenza secolare della Chiesa, con delle figure come Agostino, ovviamente, ma anche tante altre. In Algeria c’è un profumo di radici profonde, nonostante nel corso dei secoli una Chiesa locale vera e propria non sia mai effettivamente apparsa. Inoltre, anche qui la fede musulmana, pur essendo diversa dalla nostra, porta a percepire la presenza di Dio dappertutto. Io in Algeria sono colpito dalla generosità della gente, al punto tale che mi rendo conto giorno dopo giorno che la missione non è tanto dare noi qualcosa, ma aiutare l’altro a darsi, soprattutto con questa generosità che ha bisogno di esprimersi, che ha bisogno di trovare un suo oggetto. Mi colpisce il mistero dell’Epifania in questo senso: Maria sta in casa, racconta il Vangelo, e non fa niente, magari apre la porta e dà la possibilità ai re magi di darsi, non soltanto di dare quello che portano nelle mani, ma anche di vivere un incontro che va oltre quello che Maria può dire, e infatti tace. In questo senso noi siamo delle chiese dell’Epifania: la missione per molti aspetti corrisponde, tocca il punto di facilitare il dono di sé dell'altro, che fa entrare in una dimensione del Regno.

 

Non ci sono momenti o aspetti che rendono la vita dei cristiani in Algeria più complicati?

 

La Chiesa nel Nord Africa ama presentarsi alla luce di quello che c’è scritto nella lettera Servitori della speranza, prodotta da tutti i Vescovi della zona, la CERNA (Conferenza Episcopale Regionale del Nord Africa), il 1° dicembre del 2014. Questa lettera è stata scritta poco dopo le Primavere arabe, e descrive un volto della Chiesa che dice molto sulla sua identità. Bisogna sempre partire da questa fotografia, anche se poi ci sono delle particolarità per ogni Paese. Innanzitutto, vogliamo che la nostra sia una Chiesa dell’incontro: siamo presenza di Cristo, conosciuto o non conosciuto, in mezzo a un popolo, credente in modo diverso, che fa o che cerca di fare il più possibile l’esperienza della visitazione. Questa tematica deriva soprattutto dai monaci di Tibhirine. Quando Maria arriva da Elisabetta, è Elisabetta che prende l’iniziativa di dire quello che dice, Maria tace. Sa che Elisabetta è incinta, anche se il vangelo precisa che è un segreto, mentre solo lei sa quello che sta capitando a lei stessa. Nonostante questo, è Elisabetta che, prendendo la parola, libera il magnificat di Maria, rivelando pubblicamente insieme i due tesori che portano le due donne. Anche noi, trasponendo questa esperienza evangelica all’incontro con tutti, ma soprattutto con i musulmani, viviamo un’esperienza di visitazione. Portiamo un tesoro in noi, che si chiama Gesù. Ma sappiamo che anche l’altro porta in sé stesso un proprio tesoro, già dal semplice fatto di essere stato creato come noi, come tutti a immagine e somiglianza di Dio, anche se la sua fede non lo esprime nel nostro stesso modo. Quindi molto spesso tramite l’ospitalità che l’altro ci dà facciamo l’esperienza di Maria, accolta a casa della cugina. E lì allora si libera una parola, una questione, una domanda e una possibilità di scambio anche profondo, sull’esperienza spirituale, che a volte si esprime soltanto tramite delle cose molto banali, ma che è una fraternità in atto. Questa esperienza di visitazione libera un magnificat: quello che celebriamo ogni giorno nella Messa e quello che a volte, tramite le nostre parole, possiamo anche esprimere. Questa è la prima caratteristica della chiesa in Nord Africa. La seconda è quella di essere una Chiesa che non ha paura di presentarsi come cittadina, non perché abbiamo tutti i documenti per essere algerini, tunisini, marocchini, o libici, no, bensì perché abbiamo la gioia – e anche il diritto, ma il diritto viene dopo – di essere là. Il terzo tratto distintivo della nostra Chiesa è la povertà. Una Chiesa nella mangiatoia, come dice il mio predecessore monsignor Paul Desfarges, che aveva scritto una lettera pastorale, La Chiesa nella mangiatoia, poi diventata un libro con lo stesso titolo. Nella fragilità facciamo l’esperienza di dover contare su Dio, ovviamente, ma anche sull’altro. Ogni fratello, ogni sorella che il Signore manda è un tesoro con il quale tu devi vivere quello che dice Giovanni 13,35: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». Questa fragilità, questa povertà, ovviamente a volte è un peso, perché non possiamo fare molti programmi, non abbiamo molte strutture né opere, quasi niente – la mia diocesi soprattutto –, ma è anche un dono che ha come orizzonte la valorizzazione di una nascita, come nel presepio, e che ci fa anche capire qualcosa di importante: che la missione non è né conquista, ma incarnazione, come ha fatto Gesù, che ha assunto tutto ciò che siamo noi fuorché il peccato. Valorizzare, celebrare il meglio dell’altro, ecco il nostro compito, ed è un modo anche di annunciare quello che Cristo ha fatto soprattutto i primi trent’anni della sua vita, diventando il missionario per eccellenza.

 

Ha citato i martiri di Tibhirine, beatificati pochi anni fa in Algeria: alla celebrazione hanno partecipato anche diversi politici locali. Qual è oggi il valore del loro martirio in Algeria? Sono effettivamente ricordati e valorizzati?

 

Il fatto che la beatificazione sia avvenuta ad Orano, che è la città del vescovo Claverie – di per sé i 19 si chiamano Pierre Claverie e compagni – non era affatto scontato. È stato un bel momento, per la fraternità che si è celebrata con quel gesto, mettendo in rilievo non soltanto i 19 martiri cristiani, ma anche le centinaia di musulmani che hanno denunciato o resistito alla violenza degli anni neri pagando anche con la propria vita. Sull’icona preparata per la celebrazione sono raffigurate 20 persone: nell’angolo in basso a destra, si vede anche Mohammed, che viene spesso presentato come l’autista di Pierre, ma non era l’autista, era un amico, che gli proponeva spesso di accompagnarlo e che è morto con lui nell’attentato mentre lo portava alla curia vescovile. Non tocca alla Chiesa canonizzare o beatificare i non cristiani, però si è celebrata un’esperienza di fraternità, non soltanto a livello superficiale, ma nel senso del sangue mescolato. Dal nostro punto di vista, e questo lo conferma la definizione di martirio che ha usato Papa Francesco per il decreto di beatificazione, non sono beati perché hanno perso la vita a causa delle fede, perché di per sé non si trattava di quello, ma perché hanno vissuto il dono di se stessi fino alla fine, come dice lo stesso capitolo 13 di Giovanni. Non erano persone perfette, ognuno aveva i suoi difetti e quelli che li hanno conosciuti lo dicono. Ma sono stati chiamati a vivere questo dono di sé a un popolo, fino a mescolare il loro sangue con il suo. Oggi è impressionante vedere quante persone vengono a visitare il monastero di Tibhirine: ci sono folle di algerini, musulmani, che vengono tutto l’anno. È un luogo di pace, un luogo di memoria, un luogo di sfogo. C’è qualcosa che è davvero toccante. Io ero in Tunisia quando è uscito il film Des hommes et des dieux (Uomini di Dio) sui monaci di Tibhririne. Quando l’ho visto al cinema mi ha colpito la reazione dei tunisini, che uscivano con le lacrime agli occhi.

 

Lei è l’attuale vescovo di Ippona, dunque un successore di Sant’Agostino, un’eredità che pesa. Che cosa significa questo per Lei?

 

È una gioia, un onore e una chiamata quotidiana all’umiltà. Innanzitutto, Agostino è il nostro primo cristiano a Costantina, è la figura del posto – anche se ci sono tanti altri santi locali – e molti algerini sono orgogliosi di lui e lo apprezzano molto a livello filosofico, a livello storico, a livello umano. Insomma, parliamo di una personalità che fa parte della cultura algerina, ed è una cosa impressionante perché sono passati ormai 1600 anni. In secondo luogo, io ho studiato Agostino quando facevo Patristica a Roma e ho imparato molte cose dai suoi libri. Ma vivere Agostino sul posto, essere nella sua città e leggere le sue opere in situ, con il profumo fino della realtà umana, sociale, economica, politica, religiosa che lui ha conosciuto nel passato, cambia la relazione con lui. Inoltre, mi rendo conto che queste figure, la sua e anche quella di Fulgenzio di Ruspe sulla quale ho fatto la Licenza, mi aiutano molto nel mio tentativo di esercitare il ministero di Vescovo oggi. Ovviamente i periodi sono diversi, i contesti non sono gli stessi, ma la fede rimane la stessa e il modo di sviluppare un atteggiamento pastorale, di affrontare con carità le sfide del momento, di avere il coraggio di dire ciò che è necessario, son tutte cose che imparo anche da loro. Direi che oggi, anche a livello delle sfide sociali in Algeria, Agostino ci aiuta molto: la sua riflessione sulla cittadinanza, per esempio, e soprattutto sulla differenza tra la Città di Dio e la Città terrena è molto rilevante. Si può attingere al pozzo del suo pensiero per affrontare anche molti fenomeni odierni. A livello pastorale, e concluderei così, con la nostra piccola comunità abbiamo fatto un discernimento di un anno e mezzo, quasi due anni, per leggere il nostro presente e le nostre prospettive e quindi per definire gli orientamenti pastorali. Li possiamo riassumere in tre formule: formare la comunità, crescere come discepoli e approfondire e allargare la nostra relazione con l’altro. Le sfide che ha affrontato Agostino sono le stesse che ogni Chiesa locale prima o poi si trova ad affrontare. Quindi, tornando alla sua esperienza si capisce molto anche nel nostro contesto, anche se i mezzi di oggi, gli strumenti a disposizione e i tempi sono cambiati, perché fondamentalmente gli obiettivi spirituali e ecclesiali sono gli stessi. Abbiamo fatto tutto un percorso sin dall’anno scorso, sulle orme dei Padri della Chiesa, visitando i siti archeologici della nostra zona: abbiamo fatto una tappa sulla sua figura proprio tornando ai tre orientamenti di base della nostra Comunità, per vedere come lui parlava delle stesse cose nel suo tempo e come potevamo adattarle oggi. Quindi è una grazia che arrivi fino ai nostri giorni ed è impressionante perché, ripeto, sono passati 16 secoli.

 

 

 

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