Paesi e culture /3. Indonesia. Norme della Sharia imposte a tutti, impossibilità di costruire chiese,
sette minoritarie perseguitate: cosa sta accadendo?
 

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:48:27

Nel Luglio 2005, il Consiglio degli Ulama Indonesiani (MUI) ha promulgato un certo numero di fatwe: una di esse condannava «il Secolarismo, il Liberalismo e il Pluralismo». Da quel momento, all’interno dell’Islam indonesiano, infuria una controversia sul vero significato del pluralismo e se l’Islam debba opporvisi o, al contrario, favorirlo. Nel quadro di questa polemica vengono discusse pubblicamente alcune questioni fondamentali: se la salvezza sia riservata esclusivamente ai musulmani, se le altre religioni (non islamiche) contengano qualche verità, quale debba essere la posizione dello Stato nei confronti della religione, se lo Stato abbia il compito di far osservare la legge sciaraitica ai musulmani e così via.   La durezza dello scontro tra opinioni interne all’Islam – nel quale naturalmente sono coinvolti anche i non-musulmani – deriva dal fatto che oggi in Indonesia il pluralismo è sotto attacco. Benché nel 2001 il Congresso Consultativo del Popolo (che ha il potere di cambiare la Costituzione) abbia rifiutato con una maggioranza di più dell’80% una mozione volta a rendere l’osservanza della sharî‘a obbligatoria per i musulmani, già più di sessanta distretti e comuni hanno introdotto regolamenti locali che obbligano tutti i cittadini (non solo i musulmani) a rispettare alcuni elementi della sharî‘a, in particolare quelli riguardanti l’abbigliamento, le donne, il vizio, il gioco d’azzardo e l’alcool. La costruzione di chiese è diventata praticamente impossibile in alcune zone di Giava, di Sumatra e di Sulawesi. Da tre anni a questa parte, la setta islamica della Ahmadiyyah – che esiste pacificamente in Indonesia da più di ottant’anni – è diventata oggetto di attacchi sempre più violenti e odiosi da parte di gruppi islamici favorevoli alla linea dura, soprattutto da quando il MUI ha dichiarato la setta, non per la prima volta, “eretica” e ne ha chiesto allo Stato lo scioglimento.   C’è evidentemente bisogno di una riflessione profonda sul pluralismo, sulla fede e sulla religione: che cosa significa pluralismo e cosa, invece, non significa? Qual è la relazione tra verità e libertà? Nel Non-relativismo c’è spazio per l’Inclusivismo? Queste sono le domande che voglio discutere in questo articolo.   È un fatto che oggi la parola pluralismo venga usata con vari significati. Non esiste un unico vero significato per questo termine. Tuttavia, voglio argomentare che ci sono buone ragioni per non chiamare il “relativismo” pluralismo. Questo è invece ciò che fanno, ad esempio, Paul Knitter e John Hick, che vengono spesso considerati come pluralisti par excellence (mentre la posizione di Raimon Panikkar è molto più sofisticata)(1). A prezzo di una certa semplificazione, la loro posizione può essere riassunta come segue: tutte le religioni hanno essenzial¬mente la medesima dignità. Tutte le religioni sono ugualmente vere. Non esiste un’unica vera religione. Le religioni sono espressione della dimensione reli¬gio¬sa dell’umanità. I loro diversi “profeti”, il Buddah, Mosè, Gesù, Muhammad, sono persone profondamente religiose che furono in grado di esprimere la dimensione religiosa dell’umanità in conformità con le specifiche ramificazioni delle loro rispettive culture. Secondo questa opinione, tutte le religioni sono ve¬re, ma nessuna dovrebbe arrogarsi il monopolio della verità. In nome del “pluralismo”, essi esigono che le diverse religioni si astengano rispettivamente dal consi¬de¬rarsi come l’unica vera religione. Un’implicazione di questa posizione è che la mis¬sione non ha alcun senso. Perciò, secondo questa interpretazione, tutte le reli¬gioni sono vere per i loro seguaci, mentre pretendere di possedere la veri¬tà asso¬luta non ha senso. A ciò si aggiunge spesso l’idea che le pretese di verità pre¬senti nelle reli¬gioni siano responsabili di gran parte della violenza tra gli uomini.   Ci sono due problemi legati a questa interpretazione del pluralismo: innanzitutto, questo “pluralismo” elimina ovviamente il pluralismo; in secondo luogo, essa implica un’attitudine arrogante nei confronti della più profonda convinzione di alcune religioni, in particolare di quelle monoteistiche.   Per cominciare con la prima obiezione, è ovvio che si possa parlare di pluralismo soltanto quando esiste una reale pluralità o diversità(2). Se, come sostiene questo tipo di “pluralismo”, tutte le religioni sono “in fondo in fondo” la stessa cosa, la pluralità svanisce e le diverse religioni sono soltanto diverse espressioni dell’unica natura religiosa dell’umanità. Pluralismo però significa saper accettare e rispettare una diversità di visioni del mondo e di convinzioni religiose, essere in grado di vivere e lavorare insieme a persone e comunità di persone che condividono queste visioni del mondo e queste convinzioni religiose. Il presupposto necessario se si vuole vivere pacificamente insieme (astraendo dal bisogno di un ordinamento legale giusto) è l’esistenza di valori comuni (una questione in cui ora non voglio entrare). Perciò, il vero pluralismo non ha difficoltà a riconoscere che ci sono differenze insormontabili tra le religioni. Un “pluralismo” che trascuri la pretesa delle religioni alla verità dovrebbe essere chiamato relativismo, perché esso sostiene precisamente che la verità di tutte le religioni sia valida soltanto in “relazione” ai suoi aderenti.   Ciò mostra (seconda obiezione) la faccia intollerante del relativismo: esso stabi¬lisce che i credenti, almeno i monoteisti, debbano sbarazzarsi delle loro convinzio¬ni più profonde: gli ebrei del significato salvifico universale del patto con Dio, i cristiani del fatto che Gesù sia “la via, la verità e la vita” e che “nessuno può veni¬re al Padre se non per mezzo suo” e i musulmani del fatto che Muhammad sia il sigillo dei profeti e che il sacro Corano sia realmente la rivelazione definitiva di Dio. Queste convinzioni profonde sono decisamente differenti e non possono conciliarsi completamente tra loro e perciò, esiste una pluralità ben definita. Proprio questa pluralità e questa differenza sono negate dal relativismo e questo è anche il motivo per cui una simile visione non dovrebbe essere mai chiamata pluralismo. Il relativismo, quindi, si tramuta nel dogma di non permettere agli altri di credere in ciò che credono. Come i sostenitori di questa posizione possano pensare di incoraggiare la pace tra le religioni esigendo che le religioni innanzitutto abbandonino le loro più profonde convinzioni rimane per me un mistero. Verità e Libertà Pluralismo, perciò, sicuramente non può significare che le religioni debbano abbandonare la loro pretesa veritativa. Il pluralismo religioso non implica nulla riguardo alla pretesa veritativa e non è un insegnamento a proposito di chi vada in paradiso. Il pluralismo è un atteggiamento ed è la realtà sociale dell’accettazione della pluralità delle credenze, delle interpretazioni e dei modi di vita religiosi come qualcosa di positivo, è, si può aggiungere, qualcosa di effettivamente naturale nelle società post-tradizionali.   D’altro canto, se ci fossero soltanto differenze tra le religioni, un atteggiamento pluralista genuino sarebbe difficile da mantenere. Come i sostenitori della linea dura amano ripetere: che cos’hanno in comune la verità e l’errore? Sorge quindi la domanda: il non-relativismo significa esclusivismo totale per quanto concerne la verità?(3)   Il non-relativismo corre sempre il pericolo di cadere nella trappola opposta, la sua stessa assolutizzazione (e questo è spesso ciò contro cui combattono i relativisti “pluralisti”). L’assolutismo è l’essenza del fondamentalismo: la convinzione per la quale io/noi possediamo con assoluta certezza tutta la verità, spesso, ma non sempre, in connessione con lo scritturalismo (la credenza secondo la quale la sacra scrittura sia letteralmente vera e che il suo significato sia indubbiamente chiaro): questa verità la si può soltanto accettare o, altrimenti, diventare un miscredente. Mettere in discussione un qualche elemento di fede all’interno della comunità religiosa è un segno di miscredenza.   Esaminiamo la questione più da vicino. La libertà ha qualcosa a che vedere con la verità? O, prendendo la questione dal lato opposto, la verità ci rende liberi? In che modo? I fondamentalisti raramente esaltano la libertà come facente parte dell’essenza della fede. Per loro l’obbedienza cieca, il sacrificium intellectus, è l’atteggiamento principale del credente e la libertà verrebbe, dunque, interpretata in una maniera in qualche modo stoica come libertà attraverso l’accettazione della legge. Ma nel Cristianesimo la libertà è sempre stata considerata come inseparabile dalla fede. In due direzioni: libertà come condizione della fede genuina e libertà come frutto della fede.   Anche nel Medioevo veniva riconosciuto – con particolare enfasi da Tommaso d’Aquino(4) – che la coscienza fosse sempre da seguire. In altre parole, la fede è libera per essenza. Magari gli eretici venivano bruciati al rogo, ma se perseveravano nell’eresia poiché la loro coscienza li consigliava in quel senso, essi sarebbero stati salvi. Il diritto di credere in ciò che uno crede, di praticare il culto conseguentemente e di comunicare la propria fede è quel che viene riconosciuto come libertà di religione(5).   Credere significa riconoscere la verità. E questo riconoscimento è possibile soltanto come atto libero. In Indonesia, dove la libertà di religione è chiaramente affermata dalla Costituzione, c’è un consenso generale su questo punto, anche da parte dei gruppi più integralisti. L’idea che la “apostasia” debba essere punita con la morte (cosa priva di fondamento nella legge indonesiana) in Indonesia non è espressa nemmeno dai gruppi più radicali(6).   Ma la libertà è anche il frutto della fede. Fede significa seguire ciò che si ritiene essere vero, quindi, ciò che si ritiene essere giusto. Seguire ciò che è giusto è un valore intrinseco e l’essenza della libertà è essere in grado di seguire ciò che l’esperienza riconosce come prezioso. Più profonda è la verità in cui si crede, più liberi si diventa. Ma, e l’avvertenza è estremamente importante, la verità ci rende liberi soltanto se ci accostiamo a essa in modo aperto, umile. Crediamo in Cristo, nell’unità della fede della Chiesa. Ma se consideriamo questa fede come una nostra proprietà, percependoci come signori che dispensano la verità finale che tutti gli altri devono accettare, perdiamo la nostra libertà, poiché questa “verità” non è più la verità. Nei cuori degli esseri umani la verità è vera soltanto se siamo sempre coscienti della fallibilità della nostra comprensione di essa. Perciò, credere in modo non negoziabile in Cristo, seguirlo nella Chiesa, è vero e giusto soltanto se abbiamo coscienza, allo stesso tempo, del fatto che ci troviamo soltanto all’inizio, che dobbiamo imparare ancora da capo la verità di Gesù (e dobbiamo essere pronti a imparare a proposito di essa dagli atei, dai musulmani, dai buddisti, dai cristiani evangelici e così via), riconoscendo che ci sono dimensioni e implicazioni della nostra fede che sono ancora al di fuori del nostro orizzonte, rendendoci conto profondamente che non potremo mai possedere il Signore e dunque la verità. Una fede umile e aperta è, idealmente, la via di mezzo tra l’arroganza intellettuale, da un lato, e la cieca e inconsapevole fede fanatica, dall’altro. Essere con Cristo, nella Chiesa, dà una base sana e una certa fiducia, ma sapere che si è soltanto fragili vasi, che non si possiede mai la verità, rende aperti e umili e liberi di guardare in nuove direzioni, anche per criticare. Processo di Riforma Costante Una fede forte, ma umile e aperta, prende seriamente l’amore, la grandezza e la sollecitudine di Dio. È la parte del credente all’interno del vero pluralismo. Questo pluralismo potrebbe essere il grande contributo alla pace mondiale e alla riconciliazione che le religioni possono apportare. Una simile interpretazione della fede è realizzabile nella società? Devo qui tralasciare le sfide a questo tipo di fede che potremmo trovarci a fronteggiare in società secolarizzate come quella europea (dove il pluralismo è considerato una cosa naturale poiché è già distorto in senso relativistico). Devo limitarmi alle società ancora profondamente permeate dalla loro religiosità, usando l’Indonesia come un concreto punto di riferimento.   Il nemico di una fede umile, aperta e pluralistica è il dogmatismo, o fondamentalismo, e dunque l’irrigidimento ideologico. Questo irrigidimento è, sia dal punto di vista individuale che da quello collettivo, la conseguenza di un indebolimento dell’amore e della compassione, del rifiuto di aprire veramente il proprio cuore. Il cuore del credente, ma anche gli insegnamenti religiosi, la teologia, il magistero ufficiale diventano a quel punto rigidi e arroganti e disprezzano gli altri e le altre fedi(7). La verità delle posizioni di ciascuno viene, quindi, assolutizzata e la consapevolezza della fallibilità della propria interpretazione della fede e la necessità di riapprenderne costantemente il significato, in breve, la necessità di un processo di riforma costante, vengono smarrite. Perciò, una fede o un magistero rigidi e autoreferenziali sono segno di infedeltà da parte delle persone o delle istituzioni coinvolte. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, dovremmo forse ricordarci che le espressioni Ecclesia semper reformanda ed Ecclesia peccatrix, in primo luogo, non fanno riferimento a preti che vanno a letto con le donne o a papi che trascorrono il tempo a cacciare cervi, ma all’infedeltà della Chiesa nella sua stessa fede e nei suoi insegnamenti, non poiché insegna eresie, ma poiché ha dimenticato l’umiltà(8).   L’ideologizzazione della religione è, quindi, il grande pericolo. Indurisce i cuori e blocca le menti. Ma c’è anche un altro aspetto, fonte di speranza. Le persone tendono infatti a essere rigide, inclini al pregiudizio, pronte ad autoassolversi e a disprezzare gli altri. Questa, però, è fortunatamente soltanto una faccia della medaglia. Gli esseri umani hanno anche, nel profondo dei loro cuori e molto spesso nella vita reale, apertura, senso di lealtà, compassione, generosità, dimostrano di saper ammirare la grandezza, danno prova di un senso di giustizia e sanno amare incondizionatamente. Troviamo questi profondi atteggiamenti dappertutto, in gente di ogni tipo di impostazione religiosa o non religiosa, se solo apriamo gli occhi. Per questo, non tutto è motivo di disperazione. Se le religioni intercetteranno questi desideri, esse verranno anche capite quando incitano al rispetto per la libertà religiosa. Nonostante una tendenza umana verso atteggiamenti intolleranti, il cuore umano è anche capace di apertura, di pluralismo, di compassione. Tradizione di Tolleranza In Indonesia, in particolare tra i giavanesi, ma non soltanto, c’è apertura verso la pluralità, rispetto per il diritto di ogni persona a seguire ciò che ritiene essere la propria strada e la propria verità. La società indonesiana ha, profondamente radicata nelle sue culture, una tradizione di tolleranza, che include l’accettazione della pluralità religiosa. I giavanesi sanno istintivamente che quando una persona crede di avere il Divino in tasca, esso gli è già sfuggito.   E i musulmani? Tutto questo è vero anche per i musulmani e, del resto, la maggioranza degli indonesiani è costituita da musulmani. Non c’è motivo per cui i musulmani non debbano avere nei loro cuori la stessa positività delle altre perso¬ne. Ma, certamente, le situazioni estreme che sfidano le società islamiche quasi ovunque hanno portato a una crescente ideologizzazione nell’Islam, che ha avuto come risultato un indurimento degli atteggiamenti collettivi contro gli altri – situazione non molto dissimile all’atteggiamento dei cattolici nei confronti dei protestanti e, naturalmente, nei confronti dei musulmani fino a non molto tempo fa. Per mia esperienza, anche con i musulmani più radicali, ho da molto tempo sviluppato la convinzione che un cuore completamente negativo non esiste. È interessante notare che la polizia indonesiana, in cooperazione con gli ulama moderati, abbia sviluppato un metodo di approccio ai terroristi musulmani in carcere che mira a convincerli che la loro comprensione dell’Islam è sbagliata; hanno avuto qualche successo, come dimostrano i libri scritti da ex-terroristi durante la detenzione. L’ideologia, dunque, rende più difficile lo sviluppo di atteggiamenti aperti, positivi e pluralisti, ma dobbiamo ricordarci che nel cuore dei musulmani, come nel cuore delle altre persone, alberga un desiderio di pace e la disponibilità ad accettare gli altri nella loro diversità. Un segno di speranza è costituito dal fatto che tra le comunità indonesiane di ogni religione impegnate nell’apertura e nel pluralismo non ci sia mai stata una comunicazione così intensa come ora. Ancora una volta, essere un cattolico con il Concilio Vaticano Secondo alle spalle e un po’ di umiltà acquisita di recente è motivo di gratitudine.   _________________________________________________________________________________________ (1) Paul F. Knitter, No Other Name? A Critical Survey of Christian Attitudes Toward the World Religions, Orbis Books, Maryknoll NY 1985; John Hick, A Christian Theology of Religion: the Rainbow of Faiths,Westminster John Knox Press, Louisville KY 1996; inoltre: Paul F. Knitter, John Hick (eds), The Myth of Christian Uniqueness. Toward a Pluralistic Theology of Religions, Orbis Books, Maryknoll NY 1987. Si veda inoltre: Raimon Panikkar, The Intrareligious Dialogue, Paulist Press, New York 1978; e per un pluralismo islamico Frithjof Schuon, Trascendent Unity of Religions, Theosophical Publishing House, London 1984. (2) Perciò Thomas Ruster (Der verwechselbare Gott, Herder, Freiburg 2000) ha ragione quando, a proposito della cosiddetta teologia del pluralismo religioso, dice che questa teologia non è né pluralistica (dal momento che vuole eliminare la pluralità) né è una teologia (perché non si basa su una rivelazione).  (3) Non sto parlando dell’esclusivismo riguardante la salvezza. Su questo punto il Vaticano II (Lumen Gentium 16 e altro) ha chiaramente affermato l’inclusivismo, nel senso che i popoli con fedi religiose differenti, anche gli atei, possono essere salvati. (4) Quaestiones quodlibetales III, q. 12, a. 2; De veritate, q. 17, a. 4 e 5. (5) «Gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata», Dignitatis Humanae, n. 2. (6) Quello che i musulmani indonesiani rifiutano è la “cristianizzazione” (kristenisasi), termine con cui essi intendono l’uso del denaro e, più in generale, della superiorità economica e culturale per attirare la gente povera e poco colta verso il Cristianesimo, il proselitismo, dunque. Nella vigente Costituzione indonesiana si trovano i seguenti passaggi sulla religione: (1) § 28e n. 1: «Ogni individuo è libero di abbracciare una religione e di praticare il culto secondo la propria religione»; n. 2: «Ogni individuo ha il diritto alla libertà di essere convinto di una fede, di esprimere i propri pensieri e le proprie attitudini, secondo la propria coscienza». Il § 29 n. 2 recita: «Lo Stato garantisce la libertà di ogni abitante ad abbracciare la propria religione e a praticare il culto conformemente alla propria religione e alle proprie credenze». (7) Varrebbe la pena di indagare il motivo per il quale la preoccupazione per la verità tende a essere incompatibile con la compassione; naturalmente, le risposte semplici a questa domanda abbondano. (8) Per evitare fraintendimenti: promulgare, in seguito a una riflessione profonda, un insegnamento come dogma non ha niente a che vedere con il dogmatismo. La Chiesa ha bisogno, di tanto in tanto, di rendere chiaro ciò in cui crede e ciò in cui non crede, e questo è il significato di dogma. Il dogmatismo, al contrario, è un’attitudine generale nell’insegnamento e nella predicazione, l’attitudine a proporre un’opinione o, per quanto riguarda la Chiesa, alcuni elementi della propria fede come verità finali assolutamente non riformabili.  

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