La risposta all’attacco di Hamas ha fatto saltare il cordone di sicurezza che circondava alcune pagine dell’Antico Testamento. La questione della violenza religiosa diventa così ineludibile anche per l’Ebraismo
Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:54:17
Il regresso morale che la terza guerra di Gaza ha innescato ha conosciuto una nuova accelerazione domenica scorsa quando il primo ministro israeliano ha paragonato i palestinesi agli Amaleciti, la popolazione che Saul, il primo re d’Israele, riceve l’ordine di sterminare da parte del profeta Samuele (cfr. 1 Sam 15). Subito dopo, Netanyahu si è spinto ancora più indietro nel tempo, stabilendo un nesso esplicito tra gli eroi dell’indipendenza del 1948 e Giosuè figlio di Nun, il successore di Mosè a cui l’omonimo libro biblico attribuisce la conquista della terra promessa, 3000 anni fa. Al confronto, il simbolismo di Hamas, legato alla moschea di al-Aqsa sul Monte del Tempio a Gerusalemme, appare quasi moderno, dato che il santuario islamico fu fondato “solo” 1300 anni fa dal califfo ‘Abd al-Malik e la presunta ascensione al cielo di Muhammad – che è la principale anche se non unica ragione per cui il luogo è sacro ai musulmani – risale ad appena 1400 anni fa.
Fino al 7 ottobre scorso la “saggezza” accademica avrebbe liquidato questa uscita di Netanyahu – o quelle di Itamar Ben-Gvir, o di Hamas e dei predicatori islamisti che invitano a liberare al-Aqsa e tutta la Palestina dal fiume al mare – come “discorso”, cioè parole al vento di cui non tener conto, per concentrarsi su una “prassi”, tautologicamente più pragmatica. Dietro al ragionamento si cela una logica neppure troppo velatamente da suq: in Medio Oriente – così gli esperti – si fa a gara a chi la spara più grossa prima di accordarsi sul prezzo effettivo della merce e il mercato della politica non farebbe differenza.
È grazie a questa raffinata griglia di analisi che la maggior parte degli studiosi ha sistematicamente sbagliato le previsioni negli ultimi decenni: dalla Turchia ai Fratelli Musulmani egiziani, dai jihadisti siriani a quelli afghani (vi ricordate la fugace apparizione dei “Talebani 2.0”?), per arrivare ad Hamas, è stato tutto un fiorire di “non guardiamo il discorso, guardiamo la prassi”. Salvo poi stupirsi quando questi movimenti hanno messo in atto quello che da decenni andavano predicando.
Ora lo stesso tipo di cecità delle buone intenzioni impedisce di cogliere il mutamento in atto nella società israeliana. Certo, la questione israelo-palestinese non è mai stata puramente laica. Se lo fosse stata, i primi sionisti avrebbero accettato la proposta britannica, fatta propria da Theodor Herzl, di stabilire uno stato nazionale in una regione remota dell’Uganda, all’epoca effettivamente quasi una “terra senza popolo per un popolo senza terra” – a differenza della Terra Santa. Se lo fosse stata, la prima grande rivolta araba non sarebbe partita dalle moschee e il Gran Mufti di Gerusalemme al-Husayni non si sarebbe illustrato durante la Seconda Guerra Mondiale per la creazione delle SS islamiche. Questo per dire che l’affermazione secondo cui il conflitto israelo-palestinese sarebbe stato in origine nazionale va presa con le pinze.
Tuttavia, negli ultimi decenni la componente religiosa è diventata assolutamente preponderante. In un esempio di cattivo mimetismo, israeliani e palestinesi si sono rincorsi in una gara al rialzo fino a rendere il conflitto uno scontro di assoluti. Ognuna delle due parti punta il dito sull’estremismo dell’altra. Ma ognuna delle due parti si dimentica di condannare il proprio. E lascia sempre meno spazio per la diversità interna. In Israele, la guerra politica che Netanyahu ha ingaggiato per la sua sopravvivenza attraverso la riforma della giustizia si è da tempo mutata in una guerra di cultura e di religione, «che sarà incredibilmente cattiva» scriveva profeticamente il giornalista Anshel Pfeffer a fine settembre.
In questa escalation, i movimenti fondamentalisti ebraici hanno da tempo rotto il cordone di sicurezza che circondava alcune pagine dell’Antico Testamento, con il risultato che al jihad islamico torna ora a contrapporsi lo herem (la guerra di sterminio) veterotestamentario. È questo uno degli aspetti più preoccupanti della guerra in corso, per cui anche un non credente come Netanyahu, per il quale ciò che realmente conta è la nazione israeliana, cioè una forma di messianesimo secolarizzato, finisce per citare la Bibbia e recitare la preghiera del soldato, peraltro incespicando qua e là perché il ghostwriter si è dimenticato di vocalizzarla a dovere.
È evidente che per un cristiano, un politico che invoca un passo dell’Antico Testamento per giustificare un’azione militare pone una sfida molto più grande di uno che si richiami al Corano. L’Antico Testamento infatti fa parte diretta della rivelazione – la Chiesa antica ha condannato Marcione che aveva provato a sbarazzarsene.
Che cosa si può rispondere allora? Si potrebbe affermare che nei versetti successivi a quello citato da Netanyahu lo sterminio degli Amaleciti in realtà non avviene: Saul e il popolo non eseguono l’ordine profetico. Ma questo argomento avrebbe vita breve, anzi brevissima, perché, continuando nella lettura del Libro di Samuele, si apprende che questa disubbidienza di Saul diventa la ragione della sua caduta.
Uscendo allora dal testo, si può osservare che i moderni palestinesi non sono gli amaleciti. Quando la Terra Santa è stata conquistata dai musulmani, era abitata non solo da cristiani, ma anche da comunità ebraiche e anzi, leggendo gli storici tardo-antichi, si ricava l’impressione che queste comunità fossero molto consistenti. Dove sono finite? Come le loro controparti cristiane, si sono gradualmente arabizzate e islamizzate. Sicché, andando a scavare, Netanyahu potrebbe scoprire che in molti dei cosiddetti “amaleciti” palestinesi di cui invoca lo sterminio scorre in realtà sangue ebraico. E questo è già qualcosa su cui riflettere. C’è tutta una riscrittura della storia e della geografia in atto in Terra Santa che è parte integrante del processo di disumanizzazione dell’avversario.
Più radicalmente però, nelle pagine dell’Antico Testamento si constata un progressivo abbandono prima della prassi poi della teorizzazione della guerra di sterminio per aprirsi, dopo la catastrofe politica della fine della monarchia, a una visione in cui anche le nazioni trovano il loro posto accanto al Popolo. È il messaggio dei grandi profeti, che nei gruppi fondamentalisti ebraici sono quasi completamente ignorati, pur essendo teoricamente considerati come parte della rivelazione, per preferire loro le pagine più arcaiche di Giudici e Giosuè. Alla fine, è Ebraismo Sansone che uccide i filistei, scena oggi molto di moda, come è Ebraismo l’esordio di Isaia in cui il monte del tempio del Signore diventa meta di pellegrinaggio per «tutte le genti» e le spade si mutano in vomeri, le lance in falci (Is 2,2–4). Nell’Antico Testamento la tendenza al superamento della logica esclusivista è chiara, ma il processo resta aperto, il finale da scrivere. Ed è esattamente questa una delle ragioni per cui i cristiani considerano la Bibbia ebraica come un discorso in attesa di un compimento, un dramma in cerca di un epilogo che ne sciolga i nodi. È da sempre il punto di contrasto tra ebrei e cristiani.
Per millenni la situazione politica ha reso le pagine più bellicose dell’Antico Testamento inoperanti. Ora che Israele si è ricostituito come Stato e sempre più come Stato religioso, non può più eluderle, come peraltro non possono i musulmani eludere l’istituto del jihad. La prima cosa che gli attori non direttamente coinvolti in questa guerra dovrebbero fare è di spiegare molto chiaramente dove porta un conflitto religioso allo stato puro. Fortunatamente, alcune leadership della regione lo sanno e lo hanno ben presente: negli ultimi anni una parte del mondo arabo ha fatto uno straordinario sforzo per trovare un modus vivendi con Israele. Ma non ne ha ricevuto indietro nulla, in termini di un trattamento più umano per i palestinesi (non parliamo della questione dei due Stati, che sul terreno è morta e sepolta da decenni). È stato lì che Hamas, con probabile regia iraniana, ha colpito con lucida follia, esponendo agli occhi di tutto il mondo la fondamentale contraddizione di un Paese, Israele, che vorrebbe normalizzare i rapporti con i suoi vicini senza affrontare il problema dei palestinesi – il grande mantra di Netanyahu, crollato miseramente il 7 ottobre scorso.
Oltre a votare un doveroso, immediato cessate il fuoco a Gaza, gli europei potrebbero regalare alle leadership della regione un bel libro sulla Guerra dei Trent’anni. Per spiegare che quando il genio esce dalla bottiglia, ci vuole molto tempo e molta fatica per farlo rientrare.
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