Il libro di McFarland sfida le letture che banalizzano la partnership tra Washington e Riyadh, riducendola a mero rapporto di dipendenza
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:02
Recensione di Victor McFarland, Oil Powers. A History of the US-Saudi Alliance, Columbia University Press, New York 2020.
Petrolio in cambio di armi, energia in cambio di sicurezza: è questo l’assioma con cui si tende a leggere il rapporto fra Arabia Saudita e Stati Uniti, a partire dall’accordo informale stipulato nel 1945 a bordo dell’incrociatore Quincy. In Oil Powers. A History of the US-Saudi Alliance, Victor McFarland mette in discussione l’idea che la relazione privilegiata fra Riyadh e Washington sia unicamente conseguenza della domanda americana di energia e della necessità saudita di protezione. Il libro ricostruisce l’intreccio di fattori che hanno plasmato la cosiddetta alleanza (che in realtà alleanza non è) soffermandosi in particolare sugli anni ’60 e ’70 e mettendo in risalto le somiglianze, più che le differenze, fra i due Paesi.
L’analisi di McFarland prende il via dall’inizio del XX secolo con una rapida ricostruzione del processo di formazione del moderno Stato saudita e della dipendenza di Re Abd al-Aziz dalla Corona britannica. L’autore sottolinea il ruolo giocato dalle automobili e dai combustibili fossili nel raggiungimento di ciò che Lord St John Philby chiamò “Pax Wahhabica”. E sono sempre le automobili ad aver «incoraggiato la formazione dei primi legami commerciali e diplomatici con gli Stati Uniti» (p. 29). Egli mostra così come il petrolio, in questo caso quello importato, stesse cambiando il Regno anche prima che i giacimenti petroliferi sauditi fossero scoperti alla fine degli anni ’30. Senza dubbio, però, la concessione del 1933 che permetteva alla Standard Oil Company of California (SOCAL) di cercare petrolio nella parte orientale del Regno ha rappresentato un momento chiave nel processo di consolidamento dei rapporti tra i due Paesi. Con la Seconda Guerra Mondiale e la crescita della domanda di petrolio – McFarland parla di un aumento del 10000% rispetto al primo conflitto mondiale – i rapporti fra Washington e Riyadh si rafforzarono ulteriormente. In circa vent’anni, evidenzia l’autore, «interessi commerciali, anticomunismo e ostilità nei confronti di Gamal Abdel Nasser hanno avvicinato più che mai i due Paesi» (p. 78), nonostante le difficoltà saudite nel giustificare al cospetto del mondo arabo la vicinanza al principale protettore d’Israele, soprattutto dopo la guerra dei Sei Giorni.
Nel 1967 l’Arabia Saudita si trovò così di fronte a un dilemma: sostenere la causa araba, scivolando verso l’Egitto di Nasser, o proteggere la relazione con gli Stati Uniti, in prima linea per la difesa israeliana? Per McFarland, il Regno è sembrato inizialmente optare per la questione palestinese, aderendo all’embargo petrolifero. In realtà, però, «l’Arabia Saudita ha privilegiato l’alleanza con Washington a scapito della solidarietà araba» (p. 85), concedendo ad ARAMCO la possibilità di trasferire in segretezza petrolio alle forze americane di stanza nel Sud-Est asiatico, molto più vulnerabili a un taglio della produzione di petrolio rispetto al mercato interno americano. Non solo l’embargo ha danneggiato in modo trascurabile Washington, ma si ritorse contro i Paesi promotori, inclusa l’Arabia Saudita, le cui casse si svuotarono rapidamente. Re Faisal corse ai ripari istituendo la cosiddetta “tassa jihad”, convincendo la popolazione che pagare un’imposta fosse una forma, appunto, di jihad. A pesare ulteriormente sui conti di Riyadh contribuirono gli aiuti inviati a Giordania ed Egitto, così come le ambizioni militari saudite. A tal proposito, McFarland presenta alcune cifre degne di nota e, forse, di maggior approfondimento. Gli anni ’70 hanno segnato infatti una crescita costante delle spese militari, superando di gran lunga i costi legati agli investimenti per lo sviluppo del Paese. Il crescente bisogno di armamenti spinse così ancora di più Riyadh verso Washington.
L’equilibrio nel mercato petrolifero globale mutò profondamente nell’arco di pochi anni, presentandosi con un nuovo volto nel 1973. Secondo l’autore, tre fattori hanno contribuito a questo cambiamento. Innanzitutto, i Paesi produttori iniziarono a estendere il proprio controllo sulle risorse date in gestione a compagnie private straniere. Per esempio, nel 1972 Riyadh e ARAMCO si accordarono per un progressivo passaggio di proprietà che avrebbe portato il 51% dell’azienda sotto il controllo statale. In secondo luogo, gli eventi del 1967 crearono nuove opportunità sul mercato, convincendo alcuni Stati europei a sganciarsi dagli Stati Uniti, rendendo di fatto Washington più esposta a eventuali embarghi. Infine, gli Stati Uniti videro in quegli anni una crescita del consumo di petrolio del 38%, a fronte di una diminuzione del 3% nell’estrazione, ciò che svuotò le riserve controllate dalla Texas Railroad Commission. A rendere più vulnerabili gli Stati Uniti sul mercato globale contribuirono anche le politiche energetiche dell’amministrazione Nixon, finalizzate più ad ampliare l’offerta che a frenare la domanda. Nel frattempo, l’Arabia Saudita era riuscita a portare le estrazioni dai quattro milioni di barili al giorno del 1969 ai quasi sette del 1973, accumulando un introito netto di circa $200 milioni al mese.
Su questo sfondo, lo scoppio della guerra dello Yom Kippur nell’ottobre del 1973 mise ulteriore pressione sulle compagnie petrolifere. McFarland ricostruisce così le tappe dell’embargo, dalla decisione dei Paesi produttori di aumentare i prezzi del 71%, a quella di ridurre la produzione del 10%, fino alla mossa di quadruplicare i prezzi nel dicembre 1973. In particolare, l’autore sottolinea come l’Arabia Saudita fosse inizialmente più cauta, dichiarando l’embargo completo solo il 20 ottobre, dopo l’approvazione di $2,2 miliardi di aiuti da parte del Congresso americano a Israele. Ancora una volta, spiega McFarland, l’embargo ha avuto una duplice ricaduta sulla relazione fra Riyadh e Washington. Da un lato, gli Stati Uniti provarono una sorta di «nostalgia imperialista» (p. 138) che li avrebbe portati anche a considerare la possibilità, mai veramente concreta, di occupare i pozzi petroliferi sauditi manu militari; dall’altro, la nuova ricchezza del Regno attirò cospicui investimenti americani. Inoltre, Riyadh era riuscita a convincere l’establishment della Casa Bianca di essere una voce di moderazione all’interno dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC), così come sarebbe riuscita a presentarsi pochi anni dopo come l’unico swing producer, uno Stato, cioè, capace da solo di influenzare il mercato modificando la propria produzione di petrolio. Per esempio, McFarland ricostruisce la decisione di Riyadh di andare all out nel dicembre 1976, «massimizzando l’estrazione per minare la decisione dell’OPEC di aumentare i prezzi del 15%» (p. 184). Alla fine dell’embargo, comunque, «l’alleanza saudita-americana emergerà ancora più forte di prima» (p. 179), nonostante le innumerevoli voci critiche all’interno dei due Paesi e la preoccupazione di Kissinger per l’avvicinamento dell’OPEC ai Paesi in via di sviluppo.
Dalla ricostruzione storica operata da McFarland emergono nettamente alcuni elementi che hanno contraddistinto il rapporto fra Riyadh e Washington. Innanzitutto, nota l’autore, il legame fra i due Paesi non è mai stato immune da critiche interne. In Arabia Saudita, il malcontento era dovuto soprattutto all’appoggio americano a Israele. Negli Stati Uniti, invece, le critiche arrivano invece soprattutto dal Congresso. Inizialmente, furono «le politiche repressive […], le condizioni dei lavoratori […] e la mancata abolizione della schiavitù» (p. 64) a suscitare il biasimo americano. In questo caso, fu Re Faisal ad avviare un programma di riforma in dieci punti che contribuì, seppur parzialmente, a placare le coscienze americane. Inoltre, l’autore sottolinea come, in maniera speculare a quanto accaduto in Arabia Saudita, le critiche si siano concentrate sulle istanze anti-israeliane di Riyadh, culminate nel boicottaggio delle compagnie che intrattenevano rapporti commerciali con Tel Aviv.
In secondo luogo, McFarland riconosce che l’alleanza si è consolidata nel tempo, grazie all’impegno profuso dalle istituzioni che più hanno tratto beneficio dalla partenership: la casa reale saudita e l’esecutivo americano. La tesi di McFarland è che per superare le critiche interne la Casa Bianca abbia spesso delegato ad aziende private – fra cui il gigante delle armi Raytheon e il colosso delle costruzioni Bechtel – il compito di rafforzare le relazioni fra Washington e Riyadh. E così la scelta di stabilire il quartier generale di ARAMCO, una compagnia privata, in prossimità della base militare di Dharham, un’infrastruttura statale, è per l’autore paradigmatica di come «il confine sottile fra interesse pubblico e privato abbia iniziato a influenzare la politica americana nel secondo dopoguerra» (p. 53). La segretezza dei rapporti commerciali, mette in luce McFarland, si è ripresentata a ruoli invertiti alcuni anni dopo, quando il Dipartimento del Tesoro ha creato un meccanismo speciale, noto come adds-on, per mantenere segreti gli acquisti sauditi di debito pubblico americano.
McFarland sottolinea che le difficoltà presidenziali «a lavorare con il Congresso, convinsero i Presidenti americani a concentrarsi sulla politica estera, dove il potere esecutivo era più facilmente esercitabile» (p. 192). Così il limitato potere di manovra presidenziale in ambito energetico ha facilitato la “militarizzazione” del rapporto fra i due Stati, in particolare dopo l’embargo del 1973 e dopo la Rivoluzione in Iran nel 1979. McFarland ripercorre alcuni momenti particolarmente rilevanti di questo processo, a partire dalla firma di un contratto da $2 miliardi nel 1975 per l’acquisto di armamenti, alla vendita di decine di jet F-15 nel 1979, fino alla creazione della Rapid Deployment Joint Task Force (RDJTF), poi ribattezzata US Central Command (CENTCOM) nel 1983.
Infine, dal testo emerge chiaramente come il rapporto fosse reciprocamente vantaggioso. Un aumento delle rendite petrolifere, per esempio dopo il 1973, «generava anche grandi opportunità di profitto per Paesi non-musulmani, come gli Stati Uniti, [visto che] il 75% delle importazioni da cui l’Arabia Saudita era largamente dipendente provenivano dagli USA» (p. 113). In maniera uguale e contraria, una diminuzione delle rendite apriva uno spazio per investimenti a basso costo dall’alto margine di rendita. In più, nota McFarland, le crisi petrolifere, insieme al consolidamento dell’alleanza, hanno segnato un cambiamento delle politiche economiche americane e, di conseguenza, globali. «Gli sforzi americani di attrarre petrodollari sauditi negli anni ’70 sono la prova della crescente finanziarizzazione dell’economia» (p. 239), osserva lapidario l’autore. Per esempio, l’amministrazione Ford accettò il declino dell’industria manifatturiera americana e il Presidente Carter, insieme al direttore della Federal Reserve Paul Volcker, «accettarono il rischio di un tasso di disoccupazione più alto per limitare l’inflazione e proteggere il dollaro» (p. 238).
Il libro di McFarland offre una prospettiva diversa sulla partnership fra Stati Uniti e Arabia Saudita, sfidando le letture che tendono a banalizzarla, riducendola a un rapporto di dipendenza. Come raccontato in una recente intervista, l’autore ha attinto da molteplici fonti, accademiche e non, al fine di restituire un’immagine quanto più possibile esaustiva della complessa relazione saudita-americana. In particolare, ha fatto ricorso ai documenti del King Faisal Center for Research and Islamic Studies a Riyadh, agli archivi di ARAMCO di Dhahran e Jedda e a interviste a ex funzionari sauditi. I racconti del malumore sociale saudita degli anni ’70, invece, si fondano ampiamente sulla collezione di giornali custodita alla King Saud University. Per quanto riguarda le vicende americane, invece, McFarland ha consultato i documenti declassificati del Dipartimento di Stato. Di fronte a tanta ricchezza documentale colpisce in negativo l’assenza a ogni riferimento alla sfera religiosa saudita e alle posizioni assunte dall’establishment religioso in merito alle innovazioni tecnologiche e al rapporto con stranieri non musulmani. Allo stesso modo, in alcuni passaggi si ha l’impressione che McFarland tratti diverse tematiche – le politiche estere ed energetiche dei due Paesi, le iniziative interne, il posizionamento internazionale, le critiche della società e il mercato globale – in modo parallelo, oscillando continuamente fra questi argomenti. Se da un lato questo permette al lettore di intravedere quanto i rapporti fra Riyadh e Washington siano intrecciati, dall’altro il rischio è quello di “mettere troppa carne al fuoco”. E, d’altra parte, l’intricata rete di fattori che ha cementato l’alleanza si estende a molteplici aree, riuscendo nell’obiettivo, dice l’autore, di creare «un mondo dipendente dai combustibili fossili che sembra essere inevitabile e naturale […] quando invece è frutto di decenni di sforzi» (p. 249).
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