Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 22/06/2024 09:10:33

La crisi siriana è al centro del dibattito del quotidiano di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid, che continua a criticare il regime di Bashar al-Assad. La giornalista Rania Mustafa spiega il “gioco dei dettagli” a cui sta giocando il ra’is: «Assad sta tentando di mostrarsi pronto a svincolarsi dall’abbraccio iraniano e a lanciarsi nelle braccia degli arabi che hanno promesso di farlo stare a galla». Per questo motivo, il presidente ha adottato una serie di misure «come il divieto, per iraniani e iracheni, di acquisire proprietà; l’obbligo di un permesso per entrare nella Moschea degli Omayyadi; l’espulsione di ufficiali vicini a Teheran, oltre al silenzio di Damasco su quanto sta succedendo a Gaza». Così facendo, Assad vuole «dare l’impressione di allontanarsi dall’Asse della Resistenza», come dimostrerebbe la sua adesione al comunicato pubblicato al vertice di Manama, che «prevede il rafforzamento della sovranità degli Emirati Arabi Uniti sulle tre isole del Golfo sotto controllo iraniano dal 1971». Tutte queste misure, unite al sostegno all’iniziativa araba e ai sospetti di Teheran sulla cooperazione tra l’intelligence del regime e quella di Tel Aviv nell’attacco al consolato iraniano, «hanno fatto adirare la Guida Suprema Ali Khamenei». Il regime sta quindi sfruttando ogni margine di manovra utile a smarcarsi dall’ingombrante presenza della Repubblica Islamica, ma, per la giornalista, la presenza militare dei pasdaran è troppo radicata nel Paese per poter provocare un convincente mutamento della postura regionale di Damasco.

 

Diverso il parere di un’altra giornalista siriana, Abir Nasr, che sulla stessa testata scrive: «Assad accoglie le richieste arabe con una risposta nulla, insistendo con i suoi slogan sulla vittoria e sulla lotta al terrorismo […]. Non nasconde le sue intenzioni ostili nei confronti dei Paesi arabi confinanti; tra queste figurano i suoi continui tentativi di destabilizzare la Giordania». Nasr aggiunge inoltre che la guerra in Ucraina ha rappresentato un colpo basso per il regime che, a seguito del graduale disimpegno dei russi dal Levante, si è ritrovato sempre più succube della presenza iraniana. Ayman al-Shoufi rievoca la figura del padre di Bashar, Hafez al-Assad, in occasione dell’anniversario della sua morte (10 giugno). L’autore si chiede, con fare quasi ironico, chi fra i due sia stato il peggiore presidente della Siria. La risposta, a suo dire, è quasi obbligata: il primo ha sicuramente instaurato un regime poliziesco e promosso il culto della personalità, ma il secondo, pur non essendo duro come suo padre, «ha provocato danni che non possono essere paragonati» a quelli di Hafez. Lo scrittore e politico siriano Mouaffaq Nyrabia – tra i firmatari della Dichiarazione di Damasco del 2005, primo documento redatto dalle forze politiche anti-regime – osserva su al-Quds al-‘Arabi come ormai la vecchia retorica del ra’is sia divenuta obsoleta: se si escludono le sanzioni, la lotta al terrorismo e i complotti esterni non possono più essere invocati per giustificare la disastrosa situazione economica del Paese. Per questo motivo la normalizzazione con il resto del mondo arabo appare impossibile: Damasco continuerà a «essere sottomessa a tutto ciò che finora ha limitato la sua sovranità statuale»: non solo la presenza iraniana e russa, ma anche la politica di Israele, l’economia di guerra e il narcotraffico di Captagon. 

 

Sul quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab, il giornalista Jawan Dibu si occupa invece della misera situazione dei curdi siriani, stretti tra il governo di Damasco e i loro “connazionali” iracheni: «la dipendenza spirituale e politica dei curdi siriani dai loro presunti “fratelli maggiori” di Erbil e del Qandil è stata pagata a caro prezzo, dal momento che si è trasformata gradualmente in una moneta di scambio tra il regime di Assad e le forze del Kurdistan». Ma se i curdi hanno instaurato con Damasco una relazione quantomeno paritaria – il negoziato verte su due questioni principali: riconoscimento dell’etnia curda come parte dell’identità siriana e autonomia decisionale – con gli iracheni, invece, hanno un rapporto molto più sbilanciato: vi sarebbe una vera e propria «subordinazione volontaria e incondizionata», anzi una «devozione esagerata e gratuita che scade nell’inferiorità». Questo perché, secondo l’autore, se non fosse stato per la supervisione dei loro presunti “fratelli maggiori”», i curdi siriani «non si sarebbero mai svegliati, non si sarebbero mai sollevati, non avrebbero mai lottato». Tuttavia, essi «litigano fra loro in maniera violenta, rabbiosa e impetuosa. Si adirano, si inalberano, si scontrano, si tradiscono a vicenda. Tutto questo solo per compiacere i loro signori di Erbil e del Qandil».   

 

Il discorso sull’etnia e sulle appartenenze identitarie viene ripreso da al-‘Arab nel caso degli arabi iracheni. Sul quotidiano sono stati infatti pubblicati due editoriali che criticano i processi di nation-building promossi da Washington dopo la caduta del regime baathista di Saddam Hussein nel 2003. Il primo, a firma del giornalista iracheno Farouq Yusuf, contesta il progetto americano di «etnicizzazione», il cui scopo sarebbe stato quello di distruggere il nazionalismo arabo nel Paese creando artificialmente sentimenti identitari che si rifacevano alle civiltà preislamiche. Gli americani, chiamati dei «geni ignoranti», non avevano compreso che «gli iracheni sono sempre stati, in tutti i loro periodi di splendore, dei magnifici artefici del loro arabismo. Non bisogna biasimare l’impiegato americano per la sua ignoranza, ma tutti quegli intellettuali convinti che decifrare gli enigmi della scrittura cuneiforme» avrebbe portato la popolazione a rinnegare l’identità araba. Le conseguenze di questa operazione ideologica, osserva Yusuf, furono disastrose: la costituzione del 2005 incluse la parola “arabo” solo per denotare coloro che erano di fede sunnita, mentre gli arabi sciiti venivano considerati un gruppo etnico a sé stante. Ibrahim al-Zubaydi riporta le indiscrezioni degli analisti iracheni su una fantomatica rifondazione, per volontà degli americani, del partito di Saddam, il Ba‘th, movimento panarabo e socialista. Si tratta naturalmente di un’illazione che, però, nasconde un problema reale che affligge l’attuale scenario politico iracheno, ossia l’assenza di un autorevole partito nazionalista iracheno scevro da affiliazioni settarie: «la speranza era che dal disastro del 2003 uscisse un partito delle masse avente le dimensioni del Ba‘th, la sua storia e la sua esperienza», che però fosse al contempo «capace di superare la sua eredità negativa». Ma questo non è avvenuto, favorendo la frammentazione dello spettro politico e la deriva settaria.        

 

I crucci di Netanyahu  [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Su parte della stampa araba continua a essere onnipresente il conflitto israelo-palestinese. Tra questi quotidiani al-Quds al-‘Arabi, “La Gerusalemme araba”, che ogni giorno dedica buona parte degli editoriali a Gaza. In uno di questi, il politologo libanese Gilbert Achcar riflette sui rapporti di forza tra il governo Netanyahu e l’opposizione. Dopo il 7 ottobre Netanyahu ha conosciuto un brusco calo della popolarità, ma questa tendenza, scrive l’editorialista, sembra essersi invertita nelle settimane scorse, come dimostrano due recenti sondaggi condotti tra la popolazione d’Israele. Ciò non significa però che l’uomo politico Netanyahu sia fuori pericolo, perché «i sondaggi indicano ancora una possibile sconfitta dell’alleanza esistente tra il Likud, il partito di Netanyahu, e i “neo-nazisti” a fronte dei blocchi dell’opposizione». Nella partita per la sopravvivenza il Primo ministro, commenta ancora Achcar, non rischierà le elezioni anticipate, a meno di ottenere delle garanzie rispetto ai suoi problemi giudiziari. Allo stesso tempo, Bibi spera in una vittoria di Trump alle prossime presidenziali.

 

Lo scrittore libanese George Kaadi su al-‘Arabi al-Jadid ha definito Netanyahu un «assassino psicopatico, inconsapevole della gravità dei suoi crimini e incapace di spiegare i motivi per cui li ha commessi, ma che mantiene i nervi saldi e resta impassibile davanti agli investigatori, ai giudici e agli psichiatri». Lo paragona inoltre a «un pover uomo che ha perso la ragione, è rinchiuso in un manicomio e crede di essere Napoleone». Come il pazzo ha le crisi di identità, così «il sanguinario Netanyahu pensa di essere un modello morale, politico e militare». Ma nella sua «cecità morale», il Primo ministro «ha perso la capacità di riconoscere ciò che potrebbe essere sbagliato. Lui e la sua banda criminale […] fanno affidamento su credenze religiose superstiziose che giustificano le loro azioni sulla base di un presunto mandato divino. Ciò li rende incapaci di vedere le contraddizioni e i conflitti nei valori e nelle azioni».

 

Qui la vignetta che ritrae Netanyahu con la divisa e la parrucca di Napoleone, intento a nascondere la spada sguainata e le vittime.

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Curiosa anche quest’altra vignetta: Bibi nel Gabinetto di guerra si confronta con…il suo piede, dopo che il ministro Benny Gantz ha rassegnato le dimissioni. 

VIGNETTA 2.jpgNetanyahu «conduce una battaglia per la sua esistenza e il suo destino», scrive su al-Sharq al-Awsat l’ex ministro dell’Informazione palestinese Nabil Amr. Nonostante i sondaggi non siano troppo positivi, fintanto che la decisione di indire elezioni anticipate è nelle sue mani Natanyahu può dormire sonni tranquilli e lavorare per risollevare l’indice di gradimento tra i suoi cittadini. La guerra a Gaza «è cruciale» per la sua vita politica e Bibi «non ha altra scelta se non prolungarla nella speranza che possa ragionevolmente offrire la possibilità della vittoria assoluta. La vittoria sarà completa soltanto quando i sondaggi diranno che è tornato a occupare la posizione precedente, non come capo di una maggioranza parlamentare, ma come re incoronato e salvatore di Israele».

 

L’islamismo nel Maghreb: una fenice che risorge dalle sue ceneri?  [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Il conflitto tra Israele e Hamas ha rilanciato le riflessioni sulla parabola dell’islam politico nel mondo arabo. Il 7 ottobre «ha risvegliato una sorta di acuta consapevolezza politica» tra i militanti islamisti, scrive su al-‘Arabi al-Jadid il romanziere ed ex ambasciatore marocchino Abdelkader Chaoui. L’editorialista si domanda se l’azione di Hamas possa infondere nuova linfa vitale a questi movimenti e fa un’analisi delle dinamiche che hanno portato alla rapida ascesa e caduta degli islamisti. Il fenomeno, spiega Chaoui, può essere osservato attraverso una duplice lente: da un lato, il fallimento dell’esperienza di governo dovuto all’inesperienza, dall’altro, la loro vulnerabilità al meccanismo delle «coercizioni statali», alle ingerenze cioè delle strutture di potere che si sono costituire ancor prima dell’indipendenza nazionale dei Paesi, e con le quali chiunque sia al governo deve da sempre scendere a patti. Proprio queste influenze, scrive l’editorialista, «sono state alla base di molti sviluppi e scelte decisive nel contesto nazionale dei singoli Paesi del Maghreb». In questo contesto, anche gli islamisti giunti al potere dopo le Primavere hanno subito le pressioni di queste strutture di potere e recepito le loro richieste ma, così facendo, hanno finito per snaturarsi perché «la maggior parte di queste richieste era in contraddizione con le idee ingenue, o forse “puritane”» dei militanti. Ad aggravare la situazione, si sono aggiunte la loro incapacità di gestire i conflitti all’interno delle società maghrebine, «plurali a livello di etnie, lingue e scelte ideologiche», e la globalizzazione, con i relativi compromessi a cui sono dovuti scendere nella formazione di alleanze con altri Paesi. Non è andata meglio neppure con le istituzioni internazionali preposte alla concessione di prestiti destinati allo sviluppo. In molti casi, infatti, le richieste avanzate da queste ultime per concedere i finanziamenti «erano incompatibili con l’orientamento islamista». I movimenti islamisti nel Maghreb, con l’eccezione di quelli mauritani e libici, «sono diventati vittime di tutto ciò a cui si sono dovuti adattare», e hanno finito per tradire anche i loro aspetti caratterizzanti, conclude Chaoui.

 

In Tunisia, il 6 giugno scorso ricorreva il 43esimo anniversario della fondazione del movimento islamista Ennahda, una ricorrenza passata quasi sotto silenzio, scrive il professore tunisino Anwar al-Jamawi sempre su al-‘Arabi al-Jadid. Il segretario generale del movimento ha rilasciato una dichiarazione con cui ha criticato l’accentramento del potere da parte di Kais Saied, invocato la liberazione di detenuti politici e lanciato un appello ai partiti dell’opposizione perché si uniscano in nome «del minimo comun denominato, ovvero la partecipazione democratica». Che cosa resta di Ennahda 43 anni dopo la sua fondazione e quali sono le prospettive future del movimento, si domanda l’editorialista? Jamawi non dà una risposta univoca, ma analizza tre diverse posizioni dell’opinione pubblica tunisina. La prima ipotesi è che il partito venga smantellato dall’interno, una traiettoria iniziata da qualche tempo con le dimissioni di molti dei suoi membri. Durante il governo di Ennahda si erano già verificate diverse defezioni tra i suoi leader, ma questo fenomeno ha assunto proporzioni maggiori dopo che Ghannouchi si è rifiutato di confermare alcuni leader del movimento nei governi di Habib Jemli, Elyes Fakhfakh e Hisham Meshishi. L’emorragia è proseguita dopo lo scioglimento del Parlamento nel 2021, quando 131 leader hanno rassegnato le loro dimissioni in segno di protesta contro le «scelte politiche sbagliate della loro leadership», che hanno portato all’«isolamento del movimento e all’incapacità di resistere alla minaccia autoritaria» rappresentata da Saied. I fuoriusciti di Ennahda hanno tentato di fondare dei partiti alternativi, che però «non hanno trovato la risposta sperata da parte del pubblico, finendo per rimanere un’ombra di Ennahda». La seconda ipotesi prevede invece che gli arresti delle figure di spicco del partito avvenute negli ultimi anni non ne causino la dissoluzione ma, al contrario, aumentino il sostegno popolare del gruppo. Infine, il terzo scenario prevede la normalizzazione dei rapporti tra il movimento islamista e il regime di Saied. I sostenitori di questa teoria si rifanno all’esperienza di diversi Paesi arabi, tra cui l’Algeria, il Marocco, il Kuwait, la Giordania e l’Iraq, dove gli islamisti hanno una presenza nel governo ma nei limiti imposti dai rispettivi regimi. A rendere possibile un avvicinamento tra i due rivali è, da un lato, la natura di Saied, «una figura politica nazionalista e conservatrice, che con Ennahda condivide punti importanti come il radicamento nell’identità araba e islamica, la difesa della causa palestinese, l’assunzione del riferimento religioso nella questione dell’eredità [il riferimento qui è alla norma coranica che fissa le quote di eredità per gli uomini e per le donne]». Dall’altro, gioca a favore di un possibile riavvicinamento il passato di Ennahda, che alle elezioni presidenziali del 2019 aveva sostenuto la candidatura di Saied, risultando determinante in termini di voti al secondo turno.  

 

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