Senza un riferimento trascendente non si può rispondere alla più radicale delle domande: perché è bene che l’uomo sia?
Ultimo aggiornamento: 02/07/2024 10:53:31
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Il fenomeno che va sotto il nome di globalizzazione non si limita al commercio dei beni, ma ha prodotto un mercato mondiale delle idee. Abbiamo dunque il diritto di chiederci, in quanto Europei, quale genere di prodotti, di merci intellettuali, l’Europa può ancora offrire al resto del mondo.
Nel passato l’Europa ha proposto e, per essere onesti, ha anche imposto al mondo cose che venivano dal Vecchio Continente, ma che non erano destinate ad esso soltanto, come la scienza moderna della natura, la tecnologia e il Cristianesimo – che pure era europeo solo molto indirettamente visto che la sua origine si situa in Medio Oriente.
Oggi, che cosa ha da proporre l’Europa al resto del mondo? Non ha più granché di proprio se non una certa concezione dell’uomo: i diritti dell’uomo, la dignità umana e in generale qualche cosa come l’umanesimo, termine di cui cercherò di mostrare la complessità.
La mia tesi è che questo prodotto, che l’Europa propone al resto del mondo, è avariato. La fede che l’Europa ripone nel proprio umanesimo è una fede in cui essa stessa non crede più. Dovrò dunque dimostrare come l’idea umanista, che in un certo senso è tutto ciò che ci resta, sia andata imponendosi fino a raggiungere un’ultima tappa, rappresentata dall’umanesimo ateo, in cui si realizza il suo fallimento.
L’idea umanista è andata realizzandosi in quattro fasi che corrispondono a lunghi periodi della storia dell’umanità. Per semplificare dirò che l’umanesimo è nato, o ha trovato la sua prima condizione di possibilità, con l’idea di una differenza, più o meno radicale, tra l’uomo e il resto degli esseri viventi. In una seconda tappa si è passati dalla differenza alla superiorità: l’uomo non è solo diverso dal resto degli animali, è migliore di essi. È un passaggio che si ritrova nell’antica Grecia e anche, sotto un’altra forma, nella Bibbia, cioè nelle due radici della cultura occidentale. Il terzo piano della piramide umanista si aggiunge all’inizio del XVII secolo, e consiste nell’affermare che l’uomo non è solo diverso e superiore agli altri esseri viventi, ma ha anche il compito di concretizzare questa superiorità dominando il resto di ciò che è e facendosi signore della terra. Una quarta tappa, ed è l’ultima, ha preso avvio negli anni Quaranta del XIX secolo. Per essa, non solo l’uomo è differente, non solo è superiore, non solo è conquistatore, ma deve concepirsi anche come ciò che c’è di più elevato: l’uomo come essere supremo. Non è un caso che il filosofo francese Auguste Comte abbia utilizzato, per designare l’uomo, quel termine “essere supremo” che fino ad allora era stato applicato a Dio. La quarta tappa è dunque un umanesimo ateo, o, se si preferisce, un umanesimo esclusivo.
Miseria dell’ateismo
La tesi che vorrei difendere è che questo ateismo ha fallito. È una tesi che sembra del tutto paradossale: assistiamo infatti, almeno in apparenza, a una sorta di vittoria di questo ateismo. I sociologi non hanno difficoltà a dimostrare che l’appartenenza religiosa in Europa diminuisce o addirittura sprofonda. Al di là di queste costatazioni sociologiche, che sono enunciazioni di fatti e che perciò non interessano il filosofo, dobbiamo poi segnalare due trionfi spettacolari, uno nell’ambito teoretico, l’altro in quello pratico.
La vittoria teoretica dell’ateismo è la scienza moderna, post-galileiana, che descrive la natura in termini matematici facendo a meno di quella che l’astronomo Laplace, rispondendo a Napoleone in un celebre aneddoto, chiamava “l’ipotesi Dio”. Che si possa fare una descrizione dell’universo fisico del tutto convincente senza aver bisogno di chiamare in causa Dio è la prima vittoria dell’ateismo moderno. La seconda vittoria è di ordine pratico. Il pensiero politico moderno ha infatti dimostrato, almeno in linea di principio, che si possono organizzare delle società senza avere bisogno di un principio sovra-umano di legittimità. Alla fine del XVII secolo, il filosofo francese Pierre Bayle difese il suo celebre paradosso per cui l’ateismo sarebbe meno pericoloso per lo Stato della superstizione e che una società composta di atei sarebbe più facile da governare di una società di entusiasti religiosi. Le nostre società hanno fatto di quella che era inizialmente solo una scommessa una realtà concreta, ciascuna nel suo stile, dal wall of separation degli americani fino alla laïcité alla francese, passando attraverso molte altre sfumature.
Su questo tipo di ateismo si possono fare due notazioni. Innanzitutto non è necessariamente militante, non è necessariamente aggressivo, ma è piuttosto un ateismo di metodo. Il fatto che non si abbia bisogno di Dio per descrivere la natura, il fatto che non si abbia bisogno di Dio per organizzare la società, non dice nulla né a favore dell’esistenza di Dio né contro di essa. Questo ateismo è dunque un agnosticismo – “non si sa” o “non si vuole sapere”. Agnosticismo è peraltro un termine coniato nel XIX secolo proprio per sostituire la parola “ateismo”, che nell’Inghilterra vittoriana era hardly the thing, impronunciabile. In secondo luogo questo agnosticismo non riguarda solo la religione, ma interessa anche la scienza. Non pretendendo di conoscere le cause dei fenomeni, ma accontentandosi di descriverne le leggi, essa poggia su un’ignoranza riconosciuta e anzi voluta di tutto ciò che riguarda, potremmo dire, il senso della realtà. Si accontenta di una pura descrizione, in un certo senso è modesta.
Dobbiamo quindi mettere a credito dell’ateismo due successi spettacolari. Nonostante ciò, affermo che l’ateismo, anche nella sua forma più moderata, cioè come agnosticismo, contiene un germe mortifero. È una “malattia per la morte”, per riprendere l’espressione di Kierkegaard, il quale così parafrasava (invertendole) le parole di Cristo riferite a Lazzaro.
La domanda inevasa
C’è infatti una domanda sulla quale l’ateismo non ha nulla da dire. Se esiste sulla terra un essere conosciuto sotto il nome di homo sapiens; se esiste sulla terra un essere capace di rendere conto dell’universo che lo circonda, dunque di avere una scienza; se questo essere è anche capace di vivere più o meno in pace, o in ogni caso di possedere i principi di una società pacifica all’interno della sua propria specie; se esiste un essere che può realizzare tutto ciò senza dover sollevare lo sguardo verso l’alto in direzione di una realtà trascendente, è bene – questa è la domanda – che un tale essere esista? Per dirla in altri termini, possiamo abbozzare una descrizione puramente immanente della realtà fisica che permetta all’uomo di conquistare il mondo, e di sfruttarlo a suo proprio vantaggio grazie alla tecnica. Per questo scopo non abbiamo bisogno di scoprire la verità ultima sulla realtà, fintantoché la descrizione che ce ne facciamo funziona. Possiamo ancora stabilire delle regole che permettano agli uomini di vivere gli uni con gli altri, in pace, senza ricorrere a una legittimazione trascendente. Ci basta supporre una sorta di contratto con il quale ogni essere umano comprenderà che è suo interesse rispettare gli altri, a condizione che gli altri lo rispettino.
Il problema della coesistenza degli esseri intelligenti è risolvibile, come afferma Kant in un celebre passaggio del suo testo sulla pace perpetua, anche per una società di demoni, a condizione che questi demoni siano intelligenti e comprendano il loro interesse. Ma la domanda rimane: il progresso che rende possibile la tecnica è un progresso a beneficio dell’uomo, la coesistenza pacifica fra umani è essa stessa, a maggior ragione, a servizio dell’uomo. Ma di nuovo, perché è veramente necessario che ci siano degli uomini a gioire delle conquiste della tecnica e di una società pacifica? Su questo, l’ateismo non ha niente da dire. Per provarlo, mostrerò che il fallimento dell’ateismo è una conseguenza diretta del suo successo, secondo una sorta di dialettica autodistruttiva dell’ateismo.
Essere o non essere?
Il progetto dell’ateismo moderno, quarta tappa dello sviluppo dell’idea umanista, consisteva nel produrre un’emancipazione dell’uomo. L’uomo doveva decidere del proprio destino, essere legge a se stesso, auto-nomo. Ed è d’altronde proprio per designare questo progetto di autonomia dell’uomo che il XIX secolo ha coniato la parola “umanesimo”. Essa è molto recente, risale esattamente al 1840. Proprio perché un tale umanesimo non ammette alcuna istanza superiore all’uomo, esso è incapace di pronunciarsi sul valore dell’uomo. L’uomo non può parlare a proprio favore, non è un giudice disinteressato, ma una parte in causa.
Jean Paul Sartre lo ha detto in una conferenza che ha intitolato “L’esistenzialismo è un umanesimo”, una scelta del tutto paradossale, poiché in realtà dimostra proprio l’impossibilità di un umanesimo. Sartre racconta di un personaggio che si trova in aereo, sorvola una catena di montagne e contempla paesaggi magnifici. Meravigliato non soltanto dalla bellezza della natura, ma ancor di più dalla capacità tecnica dell’uomo, esclama: «L’uomo è formidabile!». Sartre si domanda: chi parla qui, un cane? Un cavallo? No, un uomo. Ma dire che per un uomo l’uomo è formidabile non ha alcun valore. Non si giudica qualcuno sull’immagine che egli ha di sé stesso. Se dunque escludiamo un’istanza superiore all’uomo, non sappiamo se è bene che esistano degli uomini.
Si potrebbe ribattere che questa questione è puramente accademica e fondamentalmente superflua. Sarebbe vero se sulla scena intellettuale non fossero comparsi, piuttosto recentemente, due nuovi fenomeni. Il primo è che l’uomo è ora in possesso dei mezzi che gli permetterebbero di sopprimersi. La questione dell’“essere o non essere” assume allora un aspetto molto concreto. Oggi l’uomo dispone di tre possibilità per sopprimersi: la più manifesta è la guerra nucleare; un po’ meno lampante, ma tuttavia molto presente nei media, è l’inquinamento dell’ambiente naturale; il terzo elemento, che fa molto meno rumore, è la contraccezione. Ogni generazione può ora decidere liberamente se ci sarà o meno la generazione seguente. In una nota a La professione di fede del vicario savoiardo, Jean-Jacques Rousseau paragona l’ateismo al fanatismo, un’immagine che all’epoca era già diventata un luogo comune. Rousseau conclude che l’ateismo non uccide, ma impedisce di nascere. Quanto alla prima frase, il XX secolo ci ha insegnato che i regimi atei sono capaci di relegare i massacri di tutte le guerre di religione passate al rango di performances da dilettanti. Rousseau aveva la fortuna di non saperlo, ma pone comunque una domanda interessante: anche supponendo che l’ateismo sia capace di risparmiare la vita umana, è capace di produrla? È capace di dire “sì, è necessario che ci siano degli uomini”?
Si torna indietro
Il secondo fenomeno è il fatto che stiamo ripercorrendo a ritroso tutta la parabola dell’ascesa dell’idea umanista. La terza tappa, la padronanza della natura, è messa in dubbio da molti ecologisti, i quali sostengono che l’uomo non ha il diritto di dominare le altre creature. Ma anche la tappa della superiorità dell’uomo rispetto al resto degli esseri viventi è decostruita da quanti affermano che l’uomo è, in realtà, il peggiore degli esseri viventi. Un autore tedesco l’ha chiamato das Untier [la bestiaccia, N.d.T.], il predatore universale che rischia di sopprimere, volente o nolente, tutti gli altri viventi. E da ultimo anche la tappa della differenza tra l’uomo e il resto degli esseri viventi è messa in dubbio dalle scoperte scientifiche: l’uomo ha il 99% del DNA in comune con le scimmie superiori: non sarebbe altro che una sorta di scimmia che ha avuto fortuna, che è stata favorita dall’evoluzione. Sono dunque le circostanze stesse che ci spingono a porci la questione.
Ce la potremmo cavare dicendo che alla fine l’istinto di conservazione farà in modo che l’uomo continui ad avere figli e che a conservare il genere umano ci penserà la natura. È un’obiezione che ho sentito muovere, ma come filosofo non solo non posso accettarla, ma la trovo scandalosa. Come filosofo, e direi anche semplicemente come uomo, come essere razionale, devo cercare una ragione, una buona ragione, se posso osare una tautologia, visto che tutte le ragioni sono una buona ragione. Se accettassimo di dire che del problema si occuperanno l’istinto e la natura, ci renderemmo colpevoli di alto tradimento, poiché affideremmo la sorte della specie razionale all’irrazionale: sarebbe dunque una dimissione da noi stessi.
Molto concretamente, si dice ovunque che per combattere ciò che una generazione fa si è chiamato “l’esplosione demografica” (non discuto qui se si tratti di un fenomeno reale o meno), è molto più efficace ricorrere all’educazione piuttosto che a misure coercitive come la sterilizzazione forzata. È del tutto esatto, moralmente molto superiore, e potrebbe essere persino tecnicamente più efficace. Ma questo ragionamento ci obbliga a una costatazione molto spiacevole, e cioè che più le persone sono intelligenti, più sono educate, più sono “illuminate”, come direbbero gli uomini dei Lumi, meno sono fertili. Il che vuol dire, apertis verbis, che il futuro dell’umanità apparterrebbe agli imbecilli. Non ho alcuna intenzione di stabilire un legame di causalità tra il declino della natalità nell’Europa d’oggi e il declino della fede religiosa. Già cercare le cause è una cosa che gli storici non amano; ma se i fenomeni che ho menzionato avessero delle cause, sarebbero di una complessità tale che nel mio piccolo non avrei nulla da dire a riguardo. Tuttavia, in quanto filosofo, ciò che mi interessa non sono le cause, sono le ragioni. Le cause spiegano il passato, le ragioni permettono di agire in vista del futuro. Quali che siano le cause dei fenomeni che ho menzionato, non siamo in alcun modo dispensati dal cercare delle ragioni per agire ora. E d’altronde, per definizione non possiamo agire che ora.
Se dunque qualche cosa come il progetto della filosofia, la ricerca delle ragioni, o il progetto dei Lumi, almeno secondo l’immagine lusinghiera che i Lumi stessi si attribuiscono, deve poter continuare, abbiamo bisogno di un punto di riferimento, di un punto di Archimede esterno all’uomo, che possa spiegarci perché è legittimo che ci siano degli uomini. A questo punto esterno non vedo come dare altro nome che “Dio”.
Allora non è più questione di sapere se possiamo fare a meno di Dio, ma di capire – se posso permettermi un’espressione un po’ insolente – di che tipo di Dio abbiamo bisogno. A mio avviso, esso dovrà essere un Dio capace di mettersi sul piano di ciò che rende l’uomo uomo, cioè un Dio razionale, un dio lógos, un Dio che ha creato con la sua parola. Come cristiano aggiungerei: un Dio di cui il lógos si è fatto carne. Mi sembra perciò che, il Dio biblico e il Dio dei cristiani (o meglio: il Dio biblico, quindi il Dio dei cristiani), potrebbe essere un candidato piuttosto buono per assumere il ruolo di punto di riferimento esterno di cui, come ho dimostrato, abbiamo assolutamente bisogno.