Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:39:09

Non poteva che essere così: l’attacco di Hamas a Israele e la successiva offensiva israeliana nella striscia di Gaza ha monopolizzato l’attenzione della stampa panaraba. Ci sono però significative differenze tra i quotidiani panarabi tradizionalmente vicini alla causa palestinese o filo-islamisti, la cui proprietà è riconducibile al Qatar, galvanizzati dall’attacco di Hamas, e quelli invece di proprietà saudita, che hanno assunto posizioni molto più sfumate. Fanno eccezioni i quotidiani emiratini, molto defilati su questa svolta epocale.

 

Nel primo filone rientra al-‘Arabi al-Jadid, che ha celebrato con decine di articoli l’operazione di Hamas, vedendovi un riscatto per tutta la Palestina e tutti i musulmani. Il «Diluvio di al-Aqsa è una di quelle battaglie che cambierà il destino della storia della umma, la nazione islamica», scrive il giornalista giordano Hilmi al-Asmar, «perché per la prima volta nella storia Israele viene gettato nella polvere da una fazione della Resistenza che da quindici anni è posta sotto assedio, arabo e internazionale, via terra, via mare e via aria […] ed è inserita nelle liste delle organizzazioni ‘terroriste!’ stilate dall’Occidente e da alcuni Paesi arabi (!)». A questa battaglia, al-Asmar riconosce quattro meriti: è riuscita «a ripristinare lo spirito nella mente degli arabi»; ha distrutto l’immagine stereotipata di un Paese imbattibile, Israele, che gode di uno «status elevato in quella che chiamano comunità internazionale o mondo libero»; ha vendicato l’Islam politico di cui Hamas è una fazione; e «restituito alla Palestina lo status che merita, dopo che tutti le hanno voltato le spalle».

 

Anche secondo il marocchino Muhammad Ahmed Bennis, l’operazione di Hamas ha significato «la caduta del mito dell’esercito israeliano invincibile» ed è un messaggio palestinese ai Paesi arabi che hanno normalizzato le loro relazioni con Israele, i quali «saranno ancora più nell’imbarazzo se la Resistenza dovesse riuscire a stabilire una nuova equazione di deterrenza e a imporla a Israele».

 

Meno euforico, ma non meno coinvolto al-Quds al-‘Arabi, letteralmente “La Gerusalemme araba”, una testata fondata alla fine degli anni ’80 dalla diaspora palestinese a Londra, dal taglio molto militante. Per tutta la settimana la versione cartacea del giornale è stata dedicata quasi interamente al conflitto in atto. Va da sé che le penne di questo quotidiano sono schierate a sostegno della Palestina.

 

Due giorni dopo l’attacco, al-Quds al-‘Arabi ha definito l’operazione di Hamas «l’11 settembre israeliano», un evento cioè destinato a cambiare per sempre il mondo, esattamente come lo aveva cambiato l’attentato alle Torri Gemelle. Il «sabato nero» solleva una serie di domande. «Israele conosce davvero questa regione, la sua natura e le sue complessità politiche, sociali e umane dopo sette decenni di esistenza e di conflitto?» Come è riuscito Hamas a nascondere i suoi piani «in un’area geografica in cui il mondo credeva che Israele monitorasse il movimento delle formiche prima ancora degli esseri umani?» Probabilmente, scrive il giornalista algerino Toufiq Rabahi, l’abitudine a convivere con il nemico infonde un falso senso di sicurezza e viene abbassata la guardia. Gli israeliani, quindi, pensavano di conoscere i palestinesi, ma si sbagliavano. Negli anni «la fiducia degli israeliani è cresciuta fino a sfiorare l’arroganza quando è diventato chiaro che la ricompensa più grande, la normalizzazione con l’Arabia Saudita, era ormai cosa certa ed era questione di settimane».

 

L’editoriale del giorno successivo accusava invece l’esercito d’Israele, che ha consigliato agli abitanti di Gaza di mettersi al riparo dai bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza fuggendo in Egitto attraverso il valico di Rafah, salvo poi bombardare il versante palestinese del valicodecretandone di fatto la chiusura. Ciò viene interpretato come «un passo ulteriore nella politica di punizione collettiva imposta dall’occupante alla Striscia di Gaza e ai suoi abitanti» e rientra, spiega l’articolo, nelle politiche di espulsione dei palestinesi dalla loro terra, ciò che avviene attraverso «le operazioni di trasferimento» finalizzate a dislocare con la forza gli abitanti di Gaza nel Sinai. Dure critiche sono state inoltre rivolte all’Unione Europea, che si è schierata in difesa «dell’occupante israeliano e ha condannato la Resistenza palestinese accusandola di ‘terrorismo’» e al mondo politico americano, le cui dichiarazioni «non sono andate oltre gli stereotipi precostituiti», si legge in un altro editoriale.

 

Su al-‘Arabi al-Jadid, anche il giornalista egiziano Wael Qandil accusa l’Occidente, imputandogli la responsabilità di ciò che da anni sta accadendo in Palestina, a partire dalla nascita stessa dello Stato d’Israele: «Questa entità coloniale è figlia del peccato dell’Occidente, che ha deciso di inserirla nella nostra geografia e nella nostra storia, affinché crescesse sui nostri corpi e si nutrisse del sangue del nostro popolo. Essa è sostenuta finanziariamente, politicamente e militarmente da coloro che hanno commesso il peccato e che ora dichiarano che più di due miliardi (sic) di arabi-musulmani non meritano di vivere. Il colonialista [Netanyahu], figlio del peccato europeo, dichiara che non siamo esseri umani, ma animali umani, e che sterminarci è un dovere e cancellarci dalla storia umana una necessità». «I sionisti – prosegue Qandil – non sono gli unici a condurre la guerra di annientamento contro Gaza, ma in questo sono preceduti dall’Occidente razzista, rappresentato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, i quali fanno a gara per vedere chi contribuisce maggiormente all’annientamento del popolo palestinese, sia tagliando gli aiuti finanziari e materiali, sia spostando le Marine militari per sostenere l’occupazione nel [suo progetto di] rimozione di Gaza dalla cartina del mondo». Se il mondo occidentale è il principale responsabile della questione israelo-palestinese, il mondo arabo non è certo esente da colpe. A parole esso sostiene che «la Palestina è sua sorella e che la sua questione è centrale», ma nei fatti è complice dell’Occidente nella misura in cui «rinforza l’assedio ai palestinesi al valico di Rafah [l’Egitto] e offre il suo sostegno strategico all’aggressione della Palestina, come nel caso degli Emirati e del Bahrein, che hanno deciso di adottare la narrativa israeliana» firmando gli Accordi di Abramo. Il mondo arabo ha tradito i palestinesi, scrive Qandil. Israele e l’Occidente non avrebbero potuto fare ciò che hanno fatto se avessero saputo che la Palestina ha dei «veri fratelli» e se i «veri fratelli» avessero sostenuto il popolo palestinese dando loro «un centesimo di quanto spendono per sostenere i club calcistici europei». 

 

Su al-Jazeera, il predicatore Issam Talima, esponente della Fratellanza musulmana egiziana, analizza il conflitto a partire dalla prospettiva islamica e solleva essenzialmente due questioni: se quello in atto sia uno scontro tra religioni, e se i coloni possano essere effettivamente considerati civili, e perciò debbano essere risparmiati durante gli scontri. Alla prima domanda, Talima risponde che non si tratta di una guerra di religione perché «cancellare le altre religioni non è l’obbiettivo dell’Islam», il quale «lascia loro la libertà di culto». Nell’Islam, scrive Talima, «le guerre sono sempre la risposta a un’aggressione». Quanto ai coloni, il predicatore esclude che possano essere considerati dei semplici civili perché «se siamo d’accordo sul fatto che la Palestina è occupata […] chiunque risieda su queste terre non gode di alcun diritto, ma è un occupante». Inoltre, spiega, «la società sionista è una società interamente militarizzata» e non vi è alcuna differenza tra chi guida un carro armato e un laureato che manovra i droni a distanza. 

 

Prevedibilmente il conflitto ha monopolizzato anche le prime pagine dei quotidiani riconducibili all’“Asse della Resistenza”. Al-Mayadeen, canale satellitare con relativo sito d’informazione filo-iraniano, ha pubblicato una serie di articoli molto militanti in sostegno di Hamas e dell’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, definita «una benedizione», «un fulmine che ha sconvolto tutto il mondo». Con toni epici e celebrativi, la testata ha raccontato, ora dopo ora, la cronaca dei successi di Hamas, e avanzato un paio di ipotesi sugli scenari possibili. Israele può scegliere di «fermare la guerra accontentandosi di lanciare attacchi aerei più feroci di quelli compiuti nelle tornate precedenti, ma che alla fine significherebbero una sconfitta», oppure decidere di «entrare in una guerra regionale totale, che potrebbe costituire l’inizio della fine per Israele o spingere il mondo intero verso una guerra nucleare che nessuno vuole». Nel caso in cui le cose dovessero mettersi male per Hamas, scrive l’editorialista, Hezbollah non resterebbe di certo a guardare, anche perché un’eventuale sconfitta di Hamas preluderebbe a una possibile sconfitta del Partito di Dio, sul quale finirebbero per concentrarsi tutte le pressioni israeliane e occidentali. 

 

Il filo-Hezbollah Al-Akhbar denuncia l’incapacità del governo libanese di far fronte alle situazioni di crisi e a un’eventuale guerra con Israele. Non esistono piani di emergenza, non esistono rifugi sotterranei né a Beirut né nei villaggi confinanti con Israele, non vengono fornite indicazioni alla cittadinanza su come affrontare una situazione di emergenza e tutto è lasciato all’iniziativa personale dei singoli cittadini, molti dei quali si stanno già organizzando facendo scorte di cibo e tenendo pronti gli effetti personali per un’eventuale fuga. Questa guerra, denuncia inoltre Fouad Bazzi, ha un effetto deleterio anche sul mercato immobiliare. In pochi giorni, infatti, sono raddoppiati gli affitti degli appartamenti nelle zone montuose vicino a Beirut, più sicure in caso di bombardamento.    

 

I toni cambiano in maniera significativa sul quotidiano panarabo di proprietà saudita Al-Sharq al-Awsat, dove la prospettiva si fa meno militante e più prudente e analitica. In linea generale, il quotidiano ripartisce – in maniera abbastanza equa o, meglio, equidistante – le critiche ai vari soggetti coinvolti: Hamas, Israele e Iran. Tariq al-Hamid, giornalista saudita, non comprende le ragioni della violenza di Hamas («ha riacceso la guerra senza pensare al ‘giorno dopo’») e sottolinea che il pericolo maggiore è quello di vedere ancora una volta mutare i confini della regione a sfavore degli arabi: «potrebbe capitare che negozieremo terre che geograficamente ci appartenevano». Per contro, l’intellettuale libanese Hazim Saghyeh elenca le numerose colpe storiche di Israele che hanno portato all’escalation di violenza: «l’arroganza e il senso di superiorità israeliani sono stati infranti. È ormai evidente come la sicurezza, i posti di blocco e i muri non rappresentano da soli una garanzia assoluta per chi li adopera. L’occupazione, l’insediamento dei coloni, l’umiliazione, l’indifferenza, l’aver scommesso sul fatto che la causa palestinese, col passare del tempo, sarebbe stata dimenticata non hanno risolto i problemi esistenti». E tuttavia, prosegue Saghyeh, gli arabi hanno ben poco da festeggiare, perché a beneficiare di questa situazione non saranno loro: «se ci dovesse mai essere, nel lungo termine, un vantaggio [dalla guerra], questo andrebbe all’Iran per tre motivi: vi sarà il riconoscimento, da parte occidentale, del ruolo cruciale di Teheran nel plasmare il futuro del Medio Oriente; si interromperà l’iniziativa diplomatica per il raggiungimento della pace portata avanti da alcuni Paesi arabi; si rafforzeranno gli alleati di Teheran, primo fra tutti il regime siriano, che forse aspettava da tempo l’occasione in cui il mondo si distraesse per avanzare a nord e a sud […] Noi, a differenza di quanto dicono gli entusiasti, siamo lontani dalla Palestina il doppio rispetto al passato, così come siamo lontani dal diritto, dalla giustizia e persino dalla razionalità». Il giornalista saudita Mishari al-Dhaydy scrive con toni crudi che «l’Iran sta spremendo la spugna della questione palestinese fino all’ultima goccia di sangue degli abitanti di Gaza» e che la guerra è uno dei tanti strumenti di cui si serve Teheran per rafforzare la sua sfera di influenza nel mondo arabo.

 

‘Abd Allah Rabah, professore di sociologia delle religioni presso l’Università Grand Valley, invita a non «perdere la bussola» nell’affrontare la questione palestinese, la cui importanza «trascende la natura bilaterale del processo di normalizzazione». Dopo aver criticato le letture manichee, che dipingono Hamas o come il male assoluto o come la forza di liberazione, il professore giustifica l’approccio moderato ed equilibrato saudita, uno Stato che però, ammette, non fa mistero di agire in ottemperanza ai suoi interessi nella regione: «chi vede in Hamas un gruppo della Resistenza degno di encomio, non dovrebbe esagerare con gli attacchi ai Paesi arabi accusandoli di essersi girati dall’altra parte per il solo fatto di non aver preso in considerazione l’opzione della guerra. Quegli Stati hanno i loro legittimi interessi strategici. D’altra parte, chi vede in Hamas un movimento distruttivo che costituisce un ostacolo al raggiungimento della pace non dovrebbe prendere le parti di Israele, che bombarda i palestinesi senza distinguere le loro inclinazioni politiche». In effetti, per Rabah l’apertura di Riyad verso Tel Aviv è basata su una visione utilitarista, piuttosto che su una sincera comunanza di intenti: «la collaborazione con Israele è limitata al fatto che si tratta di una potenza militare ed economica, oltre che di un Paese alleato con le grandi potenze. Di conseguenza, le ragioni che stanno alla base di tale collaborazione sono puramente politiche e di tornaconto». È invece pessimista lo scrittore libanese Mustafa Fahs, rassegnato all’idea che la delicata intelaiatura diplomatica di Riyad nella regione sia stata danneggiata in modo irreparabile. «Dopo “Diluvio di al-Aqsa”, i termini di confronto sono tornati al punto di partenza; non più “Hamas” e “l’occupazione israeliana”, ma la “questione palestinese” e l’“entità israeliana”. La trasformazione del processo negoziale in uno scontro esistenziale rende ormai impossibile il proseguimento dei colloqui di pace tra Tel Aviv e Riyad. Diversa l’opinione di Amal ‘Abd al-Haziz al-Hazani, giornalista e accademica saudita: «nonostante il susseguirsi di notizie negative, qualsiasi progetto di pace che sia stato o che verrà proposto deve essere mantenuto e conservato. Si tratta di una prova ardua per chi desidera la pace. Perché la vittoria reale è quella di realizzare un unico governo palestinese nella logica dei due Stati, con Gerusalemme città condivisa fra le tre religioni abramitiche».   

 

Infine, al-Majalla fa chiarezza sulla posizione saudita: «è semplice: non stiamo assolutamente né dalla parte di Hamas, né con Hezbollah né con qualsiasi altra formazione legata all’Iran. Noi stiamo con la Palestina e con il suo popolo, non li lasceremo perché questo è il nostro dovere a cui non verremo mai meno». 

 

Anche il quotidiano panarabo e filo-emiratino al-‘Arab copre in maniera continua e approfondita gli sviluppi da Gaza, come dimostrano le prime pagine degli ultimi giorni, che bene sintetizzano gli snodi principali della crisi, e si permettono qualche stoccata al Qatar: «Hamas sfata il mito della sicurezza israeliana. L’attesa fine di Netanyahu sullo sfondo di una grande disfatta strategica e militare» (8 ottobre); «Hezbollah vuole marcare la sua presenza senza essere coinvolta nella guerra a Gaza» (9 ottobre); «la presenza dei leader di Hamas in Qatar mette Doha nel radar della ritorsione israeliana» (10 ottobre); «l’Egitto chiude il valico con la Striscia di fronte al progetto israeliano di reinsediare i palestinesi nel Sinai» (11 ottobre); «le politiche del governo di destra di Netanyahu hanno congelato il processo di normalizzazione arabo-israeliano» (12 ottobre); «che cosa intende Hamas con vittoria? Israele è in confusione di fronte a un nemico che non conosce» (13 ottobre). L’approccio del giornale è molto critico verso tutti gli attori coinvolti nel conflitto. Come si legge nell’articolo del 12 ottobre sopra riportato, Netanyahu contribuisce da tempo ad alimentare il clima di tensione e odio, perché il suo governo di «estrema destra ha impedito l’avvicinamento ai sauditi ancora prima che questo cominciasse». Gli Accordi di Abramo adesso sono saltati, perché «la normalizzazione economica non può reggere in un clima regionale contrassegnato dall’aumento di violenza e di ritorsioni». L’editorialista libanese Khayrallah Khayrallah precisa: è «la vittoria dell’Iran su Israele». «La guerra in atto, destinata ad allargarsi, riflette da una parte i grandi cambiamenti che sta vivendo il Medio Oriente nell’ultimo mezzo secolo, dall’altra la capacità della “Repubblica Islamica” di prendere l’iniziativa». Negativo il giudizio su Hamas: l’operazione “Diluvio al-Aqsa” non solo mette in imbarazzo la maggior parte degli establishment arabi, ma produrrà conseguenze pericolose per tutta la regione. La cosa peggiore è che con l’attacco Hamas fornirà a Israele il pretesto per «compiere un “olocausto palestinese”», cosa che comunque «non risolverà nessuno dei problemi» dello Stato ebraico. A tal proposito, il giornalista siriano ‘Ali Qasim scrive un editoriale (“Battere Hamas è una sconfitta”) in cui mette in evidenza le difficoltà israeliane nel portare a termine il progetto di distruzione della formazione terrorista: «in più di un’occasione è emersa l’impossibilità di mettere la parola fine al movimento. Vincerla di misura è possibile, ma eliminarla con il pugno di ferro è impossibile. Distruggere Hamas significa distruggere tutti i palestinesi, persino quanti fra loro si oppongono ad Hamas. L’unico modo per batterla è accettare la sconfitta, ossia accettare la soluzione dei due Stati e riconoscere i diritti legittimi dei palestinesi». Al-‘Arab non dimentica di includere nella lista dei perdenti, oltre a Netanyahu, anche l’Olp di Abu Mazen: «i due perdenti: Netanyahu e Abu Mazen non usciranno bene dalla guerra di Gaza». Da tempo il giornale considera il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese politicamente morto, come già avevamo riportato nella rassegna dedicata alle violenze nella moschea di al-Aqsa lo scorso aprile. Adesso la crisi di Gaza potrebbe impattare anche sulla stabilità della Cisgiordania: «la guerra di Hamas ha posto fine all’Autorità Nazionale Palestinese», titola il quotidiano a pagina 2 dell’edizione del 13 ottobre, in quanto «essa non ha più alcuna influenza ed è una autorità solo sulla carta, alla perenne ricerca di aiuti. Hamas, invece, è riuscita a presentarsi, con il suo attacco a sorpresa, come l’incognita dell’equazione». 

 

Quasi evanescente la copertura degli eventi da parte della stampa emiratina, sia nella quantità che nella sostanza delle analisi. Il giorno dopo l’inizio di “Diluvio al-Aqsa”, il quotidiano al-Ittihad si è limitato a riportare una frase di circostanza (“Gli Emirati invitano alla de-escalation nei territori palestinesi”) dando risalto ad altre notizie, dall’incontro del principe ereditario di Abu Dhabi con dei giocatori di pallacanestro statunitensi all’annuncio dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vice presidente degli Emirati, sul «futuro radioso» del Paese. Come da prassi, al-Ittihad relega nella seconda parte del giornale le notizie dagli esteri quando non riguardano direttamente lo Stato emiratino. Nonostante la sua rilevanza globale, la guerra israelo-palestinese non ha fatto eccezione ed è stata relegata alla pagina 27.  Nei giorni successivi la testata ha riportato, in maniera piuttosto succinta, la cronaca degli eventi, avendo cura di sottolineare il ruolo di mediazione svolto da Abu Dhabi e i suoi continui inviti alla realizzazione di una pace duratura. Assenti gli editoriali e i commenti dedicati alla crisi, fatta eccezione per un articolo scritto dal Centro Emiratino di Studi e Ricerche Strategiche in cui si sottolinea, oltre agli appelli per un rapido cessate il fuoco, il «pieno sostegno ai fratelli palestinesi», la «creazione di uno Stato palestinese indipendente» e il ripristino delle frontiere alla situazione antecedente alla Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967). Anche il quotidiano Al Khaleej, nell’edizione del 9 ottobre, menziona “Diluvio al-Aqsa” e “Spade di ferro” solo a pagina 15-16. Il giorno seguente, l’apertura della sezione esteri non è dedicata alla crisi israelo-palestinese, bensì alla guerra russo-ucraina. Anche in questo caso gli editoriali evitano di affrontare l’argomento per concentrarsi sulla situazione in Ucraina, sulla questione dei migranti, sull’intelligenza artificiale e sul ruolo geopolitico degli Emirati nello scenario internazionale.

 

Al-‘Ayn al-Ikhbariyya dedica un solo editoriale alla vicenda, in cui manifesta tutto la sua preoccupazione sull’aggressione di Hamas che è avvenuta, si specifica, proprio durante il processo di riconciliazione tra Arabia Saudita e Israele. Una nuova guerra non solo «potrebbe modificare gli equilibri politici regionali e mondiali», ma avrà un alto prezzo in termini di vite umane. Al-‘Ayn condanna l’azione di Hamas, definendola «un’avventatezza che verrà pagata dagli innocenti» e che non farà altro che scatenare una reazione israeliana ancora più violenta e feroce: «nella piazza araba c’è un clima che porta a dividersi in due schieramenti opposti, come se fosse accettabile colpire i civili! Dov’è il vantaggio di avere una gioia temporanea, a cui segue la tristezza? Chi sopporta le operazioni militari israeliane e non riceve cibo, benzina e medicine, è l’innocente popolo palestinese, mentre i leader di Hamas che controllano la Striscia di Gaza dal 2007 si rifugiano nei tunnel o negli hotel all’estero».   

 

Anche la stampa egiziana ha preferito non commentare la crisi, e nei pochi casi in cui l’ha fatto si è concentrata sulle sue ricadute sul piano nazionale. Dopo le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della Guerra dello Yom Kippur, al-Ahram ha pubblicato alcuni editoriali che ridicolizzano l’arroganza di Israele e la sua drammatica sottovalutazione del pericolo Hamas. Più significativo un articolo comparso su al-Masri al-Yawm che mette in chiaro fin dal titolo (“La soluzione politica non andrà a scapito del Sinai”) come l’Egitto non accetterà di sacrificare porzioni del suo territorio nazionale da destinare ai palestinesi in fuga dalla Striscia di Gaza: «il progetto di scambiare terre in cambio di compensazioni pecuniarie all’Egitto, l’istituzione di un fondo monetario internazionale per lo sviluppo del Sinai e altre tentazioni del genere che alcuni potrebbero avanzare sono categoricamente respinte».    

  

 

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