La fine del regime di Bashar al-Assad ha suscitato in molti siriani un profondo senso di liberazione. Sul Paese pesano però molte incognite, a partire dalle intenzioni di Abu Muhammad al-Jawlani e del suo gruppo
Ultimo aggiornamento: 09/12/2024 17:05:07
Secondo la celebre formula che Raymond Aron coniò parafrasando Marx, «gli uomini fanno la storia, ma non sanno la storia che fanno». Quando nei primi anni 2000 l’allora presidente siriano Bashar al-Assad favorì l’afflusso di jihadisti in Iraq per intralciare l’azione americana e tutelarsi contro eventuali piani di regime change, non poteva sapere che vent’anni più tardi uno di quei militanti, Abu Muhammad al-Jawlani, sarebbe stato il principale artefice della sua caduta. Né il presidente russo Vladimir Putin e l’ex leader di Hamas Yahya Sinwar potevano immaginare che tra gli effetti imprevisti dell’“operazione speciale” in Ucraina e del “Diluvio di al-Aqsa” ci sarebbe stata la fine del regime di Damasco.
Il solo accostamento di questi nomi dà la misura del groviglio di fattori locali e dinamiche internazionali che da anni determina la traiettoria della Siria. È stato così dopo il 2011, quando le rivolte scoppiate sull’onda della Primavera araba aprirono la porta a una lunga e sanguinosa guerra civile e regionale allo stesso tempo, e le cose non cambieranno per il solo fatto che Assad non c’è più.
Sul piano interno, la principale incognita riguarda ora la natura e le intenzioni di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo capeggiato da Abu Muhammad al-Jawlani che ha messo in moto l’insurrezione finale contro il regime. Quando ancora si chiamava Jabhat al-Nusra ed era affiliato ad al-Qaida, il movimento è stato spietato con minoranze religiose e oppositori politici. Dopo aver preso le distanze dall’organizzazione allora guidata da Ayman al-Zawahiri, esso si è concentrato sull’amministrazione e sulla costruzione istituzionale nel nord-ovest della Siria, riuscendo a conquistare il consenso di notabili e popolazioni locali. Probabilmente punta a replicare lo stesso schema a livello nazionale. Nel corso della sua fulminea avanzata verso Damasco, il leader dell’organizzazione ha esibito un volto moderato e moltiplicato le sue rassicurazioni verso i gruppi minoritari, etnici e religiosi, compresi quegli alawiti che hanno rappresentato lo zoccolo duro del regime degli Assad e contro i quali rischia ora di abbattersi un desiderio di vendetta coltivato per decenni. Ammesso che HTS abbia davvero tagliato i ponti con il jihadismo, il suo modello non è la liberal-democrazia. Nell’intervista che ha concesso alla CNN, al-Jawlani ha evocato senza troppi giri di parole il governo islamico, affermando che chi lo teme «o ne ha visto un’attuazione errata o non lo ha capito bene». Resta quindi da aspettare la versione del leader islamista siriano, senza farsi troppe illusioni. Il suo programma sembra essere quello dello Stato islamico in un solo Paese, per parafrasare ancora un’espressione tratta dal vocabolario marxista-leninista. Che questo programma sia realizzato a Damasco, capitale del califfato omayyade tra il VII e l’VIII secolo, è un fatto di cui non si può sottovalutare la portata simbolica, anche se la Siria di oggi, devastata dalla guerra, non rappresenta più in nessun modo una potenza regionale.
Oltre al gruppo di al-Jawlani opera poi una miriade di altre milizie, i cui interessi non sono necessariamente convergenti. Alcune di esse, come il Partito Islamico del Turkestan, costituito da contingenti centro-asiatici e da una nutrita rappresentanza uigura, sono rimaste dichiaratamente jihadiste. Che ruolo avranno nel nuovo Stato siriano? E soprattutto: quali saranno i rapporti tra il nuovo governo e le forze curde che controllano la parte nord-orientale del Paese con il sostegno degli Stati Uniti? La questione ha immediati risvolti internazionali. Il principale beneficiario della caduta di Assad è infatti la Turchia di Erdoǧan, sponsor non troppo sotterraneo degli insorti che hanno conquistato Damasco. Tra questi vi è l’Esercito Nazionale Siriano, un’emanazione diretta dei servizi segreti di Ankara che non a caso sta dirigendo la propria azione proprio contro i curdi.
Va poi decifrata l’apparente serenità con cui la Russia, sulla carta uno dei perdenti del nuovo corso, ha accolto il cambio di regime. L’altro grande perdente, l’Iran, sta vedendo svanire la propria presa sulla mezzaluna che dal Golfo Persico arriva fino al Mediterraneo e proprio per questo potrebbe almeno tentare di sabotare la transizione post-Assad. Intanto Israele ha dato il benvenuto ai nuovi padroni del Paese con massici bombardamenti e con l’occupazione del versante siriano del Monte Hermon, sulle alture del Golan, la regione montuosa da cui al-Jawlani (che significa proprio originario del Golan) ha tratto il proprio nome di battaglia.
Sullo sfondo di queste manovre c’è un Paese distrutto, tragicamente impoverito, attualmente sotto sanzioni e costituito per un terzo da profughi o sfollati interni. La sua storia, non solo quella dell’ultimo decennio, non depone a favore di una transizione facile: nel 1920, il regno arabo indipendente di re Faysal e un primo esperimento di sistema liberal-democratico furono stroncati sul nascere dalle mire dei francesi, che ottennero il mandato sul Paese mediorientale e ne fecero una repubblica, sperimentando anche un sistema di divisione in cinque cantoni/Stati che rifletteva l’eterogeneità religiosa del Paese. Denunciato dai nazionalisti siriani del tempo come il più classico dei divide et impera coloniali, potrebbe paradossalmente finire per riflettere la cartina geografica del dopo Assad. Tra la fine della presenza francese nel Paese nel 1946 e la presa del potere da parte di Hafez al-Assad nel 1970, la Siria conobbe un avvicendamento rapidissimo di governi e una ventina tra colpi di Stato tentati e riusciti. I 54 anni successivi sono quelli della brutale tirannide giunta al capolinea l’8 dicembre. Ma a prescindere da quello che si pensa dei successori di Bashar al-Assad, le immagini delle centinaia di prigionieri politici che escono dalle carceri infernali dell’ex regime e si ricongiungono con famigliari e amici dovrebbero bastare a suscitare un po’ di empatia verso il senso di liberazione provato in queste ore da molti siriani.
Purtroppo nulla esclude che questo momento di ritrovata libertà sia solo una breve parentesi. I siriani potrebbero però fare tesoro delle lezioni della Primavera araba. Anche in altri Paesi la fine di regimi decennali diede luogo a comprensibili manifestazioni di giubilo e a un potente sentimento di appartenenza condivisa. Come ha osservato la politologa tunisina Malika Zeghal, durante questa fase rivoluzionaria «il futuro non è rappresentato necessariamente come “islamico” o “laico”. È visto semplicemente come riconfigurabile, perché l’improvvisa assenza di politiche istituzionalizzate apre a cambiamenti radicali, permettendo una rottura totale con il passato». Al pari di quanto successo altrove, tuttavia, anche in Siria, e forse soprattutto in Siria, divisioni e vecchi problemi non tarderanno a manifestarsi, a maggior ragione se i nuovi signori di Damasco forzeranno la mano sui temi legati all’identità della popolazione, con il rischio che le polarizzazioni interne finiscano per alimentare le ambizioni degli attori internazionali. La composizione etnica e religiosa della popolazione è un fattore potenzialmente disgregante, ma la Siria ha un vantaggio rispetto a Paesi come Tunisia ed Egitto. In questi ultimi, le rivoluzioni sono state delegittimate anche da un drastico peggioramento della situazione economica. Nel caso siriano il punto di partenza è talmente basso che il nuovo governo potrebbe riuscire a dare un po’ di sollievo alla popolazione, purché anche gli attori internazionali svolgano una funzione stabilizzante. L’alternativa è ancora una volta il caos: una condizione che nel breve periodo può avvantaggiare qualcuno, ma che a lungo andare finisce per inghiottire tutti, come l’esempio libico sta a dimostrare.
Gli uomini non sanno la storia che fanno, ma a volte sanno in anticipo quello che è meglio non fare.
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