Nonostante l’uccisione di Nasrallah, Hezbollah non è sconfitto. Intanto, oltre a morte e distruzione, l’invasione israeliana rischia di generare una guerra civile fredda nel Paese dei Cedri. Ne abbiamo parlato con l’intellettuale libanese e più volte ministro Tarek Mitri

Ultimo aggiornamento: 29/10/2024 10:54:51

Politologo, universitario e politico libanese, tra il 2005 e il 2011 Tarek Mitri ha ricoperto diversi incarichi ministeriali nel suo Paese. Dal 2012 al 2014 è stato inoltre Rappresentante speciale e Capo della Missione Onu di supporto in Libia (UNSMIL). Oggi è rettore dell’Università Saint George di Beirut. Intervista a cura di Chiara Pellegrino

 

L’offensiva di Israele contro Hezbollah ha gettato il Libano in una guerra. Quale situazione vivono i libanesi oggi?

 

Oggi la maggioranza dei libanesi è preoccupata e vive nell’incertezza. È preoccupata perché ci sono bombardamenti dell’aviazione israeliana praticamente ogni giorno o, meglio, ogni notte. Il numero dei morti e l’entità della distruzione sono enormi. La minima minaccia fa scendere in strada migliaia di persone. Quando si viene a sapere che l’aviazione israeliana ha preso di mira una determinata area, le persone scappano. C’è preoccupazione anche perché il problema degli sfollati sta diventando sempre più difficile da gestire. Ci sono persone che a volte occupano edifici o appartamenti che trovano vuoti e questo purtroppo può creare degli attriti. Il governo non funziona a dovere, non ha una vera strategia né le risorse necessarie per la gestione dei rischi e delle catastrofi. I libanesi sono politicamente divisi. Questi attriti interpersonali si innestano talvolta su contraddizioni politiche o addirittura confessionali, e questo può essere pericoloso. Siamo preoccupati perché non sappiamo tutto quello che succede nel sud, sappiamo che molti villaggi sono stati completamente o parzialmente distrutti e che le persone, musulmane o cristiane, tranne una o due eccezioni, hanno dovuto abbandonare il loro villaggio. E non è nemmeno sicuro che possano farvi ritorno, potrebbe non esserci più neppure il villaggio.

 

Per quanto riguarda l’incertezza, non sappiamo se questa guerra durerà settimane o mesi. Per il momento non ci sono finestre diplomatiche aperte, né soluzioni diplomatiche in vista. Gli israeliani hanno obiettivi di guerra che cambiano spesso, come a Gaza. Ufficialmente, l’obiettivo della guerra è consentire il ritorno dei 60.000 sfollati dal nord di Israele. Ma un altro obiettivo di guerra, piuttosto massimalista, è la sconfitta totale di Hezbollah, che assomiglia un po’ all’obiettivo di guerra a Gaza, cioè la distruzione totale di Hamas. Questo obiettivo non solo non può essere raggiunto, ma rischia di prolungare la guerra all’infinito e distruggere il Libano.

 

Diversi leader di Hezbollah e Hamas sono stati uccisi. C’è qualche possibilità che la loro morte possa convincere Netanyahu a fermare la guerra?

 

Non è cambiato nulla. Quando Sinwar è stato assassinato, gli americani e gli europei hanno detto: «Ora che il vostro principale nemico non c’è più, è arrivato il momento di un cessate il fuoco». Ma non è stato fatto nulla. Anzi, credo che le operazioni militari israeliane si siano intensificate. Nel caso di Hezbollah, la situazione è ancora più complicata. Anche se Israele ha eliminato Hassan Nasrallah e alcuni dei suoi capi militari, Hezbollah è un partito molto forte, ben organizzato e con un’intera comunità che lo sostiene. Pensare di distruggerlo è un’illusione, un obiettivo che prolunga la guerra e la distruzione. Dicevo che non c’è una finestra diplomatica perché ogni guerra finisce con un accordo politico, ogni guerra ha un obiettivo politico, ma gli israeliani su questo non sono chiari. Netanyahu a volte dice di voler cambiare il volto del Libano e della regione. Ma questa ricetta continuerà a produrre violenza. È un obiettivo che promette il caos.

 

Dopo l’eliminazione di Nasrallah e di altri leader di Hezbollah, quanto è forte il movimento?

 

La risposta più onesta sarebbe dire che non lo sappiamo. Hezbollah sta combattendo nel sud, resiste contro l’invasione di terra, le sue istituzioni umanitarie, sanitarie ed educative sono state prese di mira dagli israeliani, ma continuano a funzionare. Il sostegno popolare, soprattutto tra i libanesi sciiti, è ancora visibile. Quanto all’apparato militare, non mi azzarderei a dare dei numeri. Gli israeliani dicono che il 40% della forza militare di Hezbollah è stata eliminata. Ma che cosa significa? Come si fanno questi calcoli? Non lo so, sicuramente Hezbollah è stato indebolito dall’uccisione di Nasrallah e dei suoi capi militari ma secondo me è ancora politicamente e militarmente potente. I libanesi sono divisi su molte questioni, ma sono sempre più consapevoli che la guerra non è solo contro Hezbollah, ma anche contro il Libano e i libanesi. Anche chi si oppone a Hezbollah e alla guerra che Hezbollah sta conducendo da un anno, oggi si sente in un modo o nell’altro vittima della guerra di Israele. Credo si possano trovare molti libanesi che dicono: «Hezbollah ci ha trascinato in questa guerra, è stato un errore, non vogliamo più che questo partito abbia il predominio». Ma è raro che un libanese consideri Israele un liberatore.

 

Questa guerra potrebbe cambiare il tessuto sociale del Paese?

 

Il Libano ha conosciuto una serie di guerre che hanno frammentato il Paese e lacerato il suo tessuto sociale. Negli ultimi 50 anni ci sono stati molti cambiamenti demografici e di habitat. Penso che questo potrebbe continuare. Il problema è che non c’è uno Stato abbastanza forte, capace di ripristinare l’unità del Paese, garantire la sicurezza dei cittadini, ridurre al minimo i rischi di attrito interconfessionale. Tutto dipende dalla buona volontà delle persone. Non abbiamo uno Stato capace di assicurare l’ordine, la pace e la sicurezza dei cittadini.

 

L’indebolimento di Hezbollah potrebbe favorire l’elezione di un presidente?

 

È quello che pensano molti libanesi. Ma è in corso un dibattito tra i partiti politici e nell’opinione pubblica sulla necessità di arrivare prima a un cessate il fuoco e poi di eleggere il presidente. In ogni caso le nostre istituzioni politiche, compreso il parlamento che elegge il presidente, sono ancora fuori uso.

 

Da qualche tempo però circola un nome, quello di Joseph Aoun.

 

Sì, il comandante in capo dell’esercito sarebbe uno dei candidati, tra gli altri. Il suo nome non raccoglie però il consenso unanime, anche se l’esercito è un’istituzione che gode di una certa credibilità. Nonostante tutte le difficoltà, Aoun è riuscito a mantenere l’unità delle truppe. Un’altra considerazione a suo favore è il ruolo che l’esercito, e lui stesso, sarebbero chiamati a svolgere in caso di applicazione della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, pietra angolare di qualsiasi soluzione diplomatica. C’è quindi un legame tra il ruolo che l’esercito potrebbe svolgere in futuro e le possibilità di avere Joseph Aoun come presidente. In Libano però le divisioni, non solo comunitarie e politiche, ma talvolta personali, sono così forti che tutto potrebbe risultare bloccato.

 

Ha menzionato la Risoluzione 1701. Pensa che possa ancora essere applicata nella sua forma originale?

 

È la risoluzione che abbiamo e dobbiamo usarla. Non credo che abbiamo molta scelta perché il Consiglio di Sicurezza è diviso e non voterà un’altra risoluzione. Il Primo ministro libanese si è detto pronto ad applicarla alla lettera. Ma credo che gli israeliani non ritengano più sufficiente l’applicazione della Risoluzione 1701. Dicono di volere delle ulteriori condizioni per il cessate il fuoco.

 

Vogliono rinegoziare la Risoluzione?

 

Non necessariamente. Non hanno ancora detto che cosa vogliono. Il problema degli israeliani è che fanno la guerra e la intensificano, ma non fanno politica e non propongono un’“uscita dalla guerra”. La settimana scorsa un inviato americano venuto in Libano ha espresso delle idee che sarebbero accettabili per gli israeliani e ha usato l’espressione “1701 +”. In altre parole, si tiene la Risoluzione 1701 così com’è, ma serve qualcosa in più, qualche garanzia in più per Israele. Ma chi dà queste garanzie? Sulla stampa israeliana capita di leggere articoli che chiedono che Israele abbia il diritto di supervisionare direttamente l’applicazione della Risoluzione 1701, cioè la possibilità per l’aviazione israeliana di sorvolare costantemente il Libano per assicurarsi che non ci siano più armi e combattenti nella regione meridionale. Ma tutto questo non è realistico né accettabile in Libano e agli occhi del diritto internazionale. Può darsi che gli israeliani vogliano qualcosa di più della risoluzione, forse vogliono coinvolgere l’America come garante nell’accordo di sicurezza supplementare alla risoluzione.

 

La stampa libanese solleva sempre più spesso la questione del sistema confessionale. C’è chi chiede la fine del confessionalismo politico. Qual è la sua opinione in merito?

 

È una domanda difficile. Io sono tra quelli che pensano che il sistema confessionale sia alla radice di molti dei nostri problemi. Questo sistema, insieme alle interferenze estere, ha creato delle paure e una tale diffidenza tra i libanesi delle diverse comunità che è diventato difficile cambiarlo. Alcuni leader delle comunità libanesi dicono spesso che abbiamo bisogno di essere rassicurati, di non sentirci minacciati dalla forza del numero o dalla potenza militare di un’altra comunità; il sistema confessionale per loro è una garanzia di sopravvivenza della comunità. Per molti libanesi il sistema confessionale è il problema, mentre per altri è la soluzione. Adesso tra i cristiani c’è chi vorrebbe un sistema federale. Non un sistema di federazione territoriale, ma di federazione confessionale. Ora il Libano è uno Stato unitario con una divisione del potere più o meno proporzionale tra i rappresentanti delle diverse comunità. I sostenitori del federalismo sono a favore dell’autonomia dei cristiani, di un sistema che dia ai cristiani la possibilità di governarsi da soli, gestire i propri affari, riscuotere le proprie tasse e investire nella propria regione. È una forma meno aggressiva di separatismo. Non sono in molti a sostenere questa soluzione, ma se ne parla sempre più spesso. Le Chiese si oppongono a questa proposta e la maggior parte dei partiti politici cristiani sono ufficialmente a favore di uno Stato unitario, non mettono in discussione l’unità dello Stato. Questo movimento è composto da una minoranza di persone che però fanno molto rumore. Propongono una lettura della storia secondo cui non siamo mai stati capaci di vivere insieme, che la convivenza è una menzogna, che ci siamo sempre fatti la guerra e abbiamo un sistema che riproduce l’odio tra i libanesi. Inoltre, hanno un approccio socio-antropologico che cerca di dimostrare che siamo diversi, che non siamo un unico popolo, che la nostra appartenenza religiosa non è soltanto religiosa, ma fa di noi un’etnia. Questo federalismo etnicizza le comunità.

 

Teme un ritorno della guerra civile in Libano?

 

Tutti i leader politici sono contrari alla guerra civile, anche quelli più estremisti e quelli che esultano perché pensano che Hezbollah sia finito e si possa costruire un nuovo Libano. Ma ci sono due livelli di guerra: c’è il livello dei partiti politici e delle milizie, quello che decidono di fare e i mezzi che si danno per farlo. E poi ci sono degli atteggiamenti da guerra civile, che non portano necessariamente a uno scontro armato, è una guerra civile fredda. Io temo la seconda, la guerra civile fredda, in cui le persone sono sospettose o ostili le une verso le altre. Faccio un semplice esempio. Nel quartiere cristiano dove mi trovo ora ci sono più di un milione di sfollati che cercano case vuote da occupare o affittare. Ma qui non si affitta agli sfollati e non li si accoglie nelle case vuote. Ci sono alcune scuole, quindi edifici pubblici, dove i rifugiati possono rimanere. La gente ha molta paura degli sfollati, è sospettosa verso gli sciiti e a volte può essere aggressiva nei loro confronti. Ci sono stati alcuni incidenti qua e là, soprattutto nei quartieri sunniti in cui gli sfollati hanno violato la proprietà privata di qualcuno, e c’è stato uno scontro tra la polizia e gli sfollati. Più le condizioni economiche e sociali diventano difficili, più le persone diventano violente e aggressive le une verso le altre. C’è qualcosa di molto complicato che è ancora troppo presto per analizzare, ma credo che alcuni libanesi ritengano Hezbollah e la comunità che lo sostiene responsabili di ciò che sta accadendo. Non lo dicono così, ma si comportano come se dicessero agli sciiti «ecco, raccogliete quello che avete seminato», «vi meritate quello che vi sta succedendo». E poi ci sono gli sciiti che dicono «noi combattiamo per il Libano, voi siete agenti di Israele se non state dalla nostra parte». C’è una sorta di accusa reciproca, gli uni accusano gli altri di non essere dei buoni libanesi.

 

La scorsa settimana il quotidiano emiratino Al-‘Ayn al-Ikhbariyya ha titolato “Chi può salvare il Libano?” La risposta era «gli altri Stati arabi». Che cosa ne pensa?

 

Il Signore può salvare il Libano. Non basta dire che gli arabi possono salvare il Libano, bisogna capire se gli arabi vogliono farlo. Negli anni il sostegno arabo al Libano è diminuito notevolmente. C’è stato un periodo, ad esempio durante la guerra del 2006 – un periodo che conosco bene perché facevo parte del governo e ho partecipato ai negoziati diplomatici –, in cui ricevevamo un vero sostegno politico, umanitario e diplomatico da parte di molti Paesi arabi. Ma ora non è più così. Le ragioni sono molteplici. Negli ultimi dieci anni Hezbollah è diventato molto forte, l’influenza iraniana è cresciuta e i Paesi arabi ricchi, in particolare gli Stati del Golfo, hanno perso la speranza. Hanno deciso che il Libano era perduto. Io stesso una volta ho sentito un ministro dire: «Il Libano per noi è stato un cattivo investimento». In altre parole, abbiamo investito molto denaro senza avere nulla in cambio. Ora, è vero che l’influenza iraniana è stata importante, ma è destinata a diminuire. Per la prima volta nella storia recente del Paese, un Primo ministro [Najib Miqati NdR] ha osato criticare apertamente l’Iran. Io credo che ci sarà un arretramento dell’influenza iraniana. In quel momento vedremo se i Paesi arabi che hanno i mezzi ci aiuteranno. La Giordania e l’Egitto sono amici del Libano, ma non hanno i mezzi per aiutarci. Il Qatar è un Paese che ha i mezzi per aiutarci e lo sta facendo in vari modi.

 

Pierre Gemayel diceva che il Libano trae la sua forza dalla sua debolezza. Che cosa pensa di questa formula?

 

Penso che la formula di Pierre Gemayel e quella opposta di Hezbollah, cioè che la forza del Libano è nelle armi della sua resistenza, siano state dannose per il nostro Paese. Non sono un sostenitore del culto dello Stato forte. Ma noi paghiamo il fatto di avere uno Stato debole. E poi c’è l’altra illusione, quella di “militarizzare” un’ampia fascia della popolazione libanese. Il Libano è troppo piccolo, troppo diviso e plurale sul piano confessionale per unirlo attorno all’idea della resistenza, per quanto legittima questa possa essere. Abbiamo bisogno di uno Stato come tutti gli Stati, che si occupi dei suoi cittadini, abbia il monopolio della violenza legittima, protegga i suoi confini; uno Stato normale, né debole, né forte.

 

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