La transizione in corso in Ciad avrà conseguenze profonde sia sulla lotta al jihadismo che sugli equilibri della regione. Una conversazione a tutto campo con Francesco Strazzari
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:10
Il 20 aprile i generali ciadiani hanno dato l’annuncio della morte di Idriss Déby Itno, presidente del Ciad dal 1990, e del contestuale passaggio di tutti i poteri a un comitato di transizione militare guidato dal figlio. Per via della posizione del Paese e degli impegni che esso ha assunto in tutta la regione, quanto avvenuto al suo interno avrà ripercussioni sull’intero Sahel e oltre. Ne abbiamo parlato con Francesco Strazzari, professore di Relazioni internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Intervista a cura di Claudio Fontana
Il presidente del Ciad Idriss Déby è stato ucciso in circostanze poco chiare durante lo scontro con i ribelli del Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad (FACT). Qual è la natura di questa ribellione?
Il Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad (FACT) è l’ennesima incarnazione dei movimenti di insorgenza che periodicamente si ripresentano nella regione ciadiana settentrionale del Tibesti, lungo il confine con la Libia: una regione montagnosa impervia, con vette che arrivano a 3500 metri, ma estremamente ricca di minerali. Si tratta di un’insurrezione che non ha nulla a che vedere con l’islamismo o il jihadismo, si basa su elementi di contrapposizione politica e punta alla defenestrazione del clan Déby. Come ha messo in evidenza l’antropologo Jérôme Toubiana, il leader, Mahamat Mahdi Ali, ha una biografia da ribelle “puro”, passato per la militanza nel partito socialista francese e poi additato come terrorista da Parigi, su richiesta del regime ciadiano. Il FACT, nato nel 2016 da una scissione in seno all’Union des Forces pour la Démocratie et le Développement (UFDD), una coalizione di ribelli guidata da Mahamat Nouri, si inserisce in una storia ormai trentennale di opposizione a una dittatura piuttosto feroce.
La genealogia di questa ribellione ci porta al cuore della Libia. Durante la guerra civile libica i ribelli del FACT si sono alleati inizialmente con le forze di Misurata, vicine alla Turchia, stabilendosi nel sud. Ma in questa regione, il Fezzan, le forze misuratine sono state sconfitte presso l’oasi di Cufra dal maresciallo Khalifa Haftar. Le forze ciadiane del FACT si sono trovate quindi a negoziare un modus vivendi con Haftar, e da quello che abbiamo potuto vedere questo negoziato ha funzionato: la colonna che è penetrata in Libia l’11 aprile causando poi la morte di Déby era composta da circa 400 mezzi armati pesantemente. Siamo quindi di fronte a un gioco di composizioni e scomposizioni nel quale la ribellione ciadiana si interseca con la guerra civile libica, anche nel tentativo di trovare risorse per finanziare la propria lotta.
In che condizioni versa il Ciad?
Il Ciad è agli ultimissimi posti delle classifiche della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite che misurano capitale e indice di sviluppo umano. Al tempo stesso però parliamo di un Paese che nel nord – proprio nella zona del Tibesti che vede l’insurrezione del FACT – ha ricchezze minerarie legate al settore estrattivo (petrolio, oro, terre rare). Puntellata dalla Francia, la relativa stabilità del Ciad non ha mai prodotto la sostenibilità politica del regime (scarsissimo credito della democrazia, per non parlare del rispetto dei diritti fondamentali), e tantomeno economica. Dunque, in realtà l’instabilità è intrinseca al Paese, dove le spese militari sono state gonfiate fino a creare un regime molto vicino a una forma pretoriana, mentre le elezioni sono state definite “troppo costose”, e la gran parte della popolazione vive in povertà.
L’opposizione a Déby è appannaggio di una particolare etnia? Qual è la situazione sul campo e che prospettive ci sono nell’immediato?
Il leader del FACT appartiene all’etnia gorane, parte della più ampia famiglia toubou (tebu) prevalente nelle regioni di frontiera a nord, ma l’affiliazione etnica in sé dice molto meno di quanto non facciano scelte politiche (i gorane sono ben rappresentati nell’esercito del Ciad). Non mancano notizie di altri fronti di opposizione armata attivatisi attorno al FACT, inclusi anche segmenti composti da popolazione zaghawa, la stessa a cui apparteneva Déby. Esistono questioni interne al più ampio clan di potere, con vendette e alleanze in movimento. La percezione che hanno avuto molti analisti è che l’epoca Déby fosse vicina al termine, che un sesto mandato sarebbe stato troppo.
Si è vista parecchia confusione, nonostante l’annuncio della morte del presidente abbia di fatto coinciso con quello del passaggio delle redini del potere a una giunta militare transitoria guidata dal figlio, che ha negato qualsiasi possibilità di negoziato con i ribelli. Sul momento, è prevalso nei lanci d’agenzia il timore di un collasso del Paese. Poi sono emerse le articolate reazioni, interne ed estere, alla linea di successione da padre a figlio: oltre alla ribellione armata si è fatta sentire l’opposizione politica, interna ed espatriata. Quest’ultima ha chiesto di avere una rappresentanza nel governo (in minima parte concessa), e di proibire la partecipazione dei membri della Giunta alle elezioni. Poi si è vista l’opposizione dei gruppi di giovani che hanno avuto il coraggio di darsi appuntamento in strada, accolti immediatamente dalla repressione armata (una decina di morti). Infine, la pressione internazionale, a partire dagli Stati Uniti, che hanno invocato una transizione politica, quindi dell’Unione Africana, che non ha potuto tacere davanti alla forzatura della Costituzione.
La stessa Francia è sembrata essere stata colta di sorpresa, con Macron dapprima presente alle esequie del soldato Déby, in pieno appoggio alla continuità del regime, e poi intento a specificare la necessità di un una formula inclusiva di governo che conduca al dialogo e alla riconciliazione nazionale.
Dal punto di vista militare osserviamo un tentativo da stringere i ribelli in una tenaglia, con le forze leali a Déby entrate in territorio nigerino. Si tratta di un aspetto problematico dal punto di vista della legalità internazionale, dato che parliamo di un’operazione a favore di un regime autocratico sfidato con le armi e non di un’azione antiterrorismo.
Dopo la morte di Déby e l’incarico dato al figlio, il generale Idriss Mahamat Abderamane Diko ha sottolineato l’incostituzionalità del processo in atto. C’è il rischio di una scissione interna all’esercito?
Parliamo di un Paese il cui esercito ha la reputazione di essere estremamente efficace nel combattere i jihadisti, ma “vanta” un record in materia di diritti umani estremamente negativo. Le forze armate ciadiane non sono una disciplinata armata repubblicana, ma un esercito costruito attorno all’etnia del Presidente e a criteri di lealtà familiare. Questo aspetto lo rende vulnerabile rispetto a dinamiche intestine, e anche se le forze armate ciadiane sono considerate un pilastro dello Stato, occorre ricordare che l’esercito è anche una macchina di accaparramento e distribuzione clientelare di risorse materiali e simboliche (status). Dal punto di vista degli interessi, la giunta militare transitoria appare rappresentarne solo una parte, e permangono interrogativi su chi metterà le mani su cosa. Mahamat Déby [il figlio del defunto presidente, NdR] ha un ruolo importante sia perché ora è a capo degli apparati della sicurezza nazionale sia per il ruolo di comando nelle operazioni antiterrorismo in Mali, grazie alle quali le forze ciadiane si sono distinte agli occhi dei francesi e dei locali. E quest’ultimo punto illustra il rapporto delicato che si crea in contesti autocratici tra le forze di spedizione e la sicurezza interna. Si tratta di una questione che ha pesato molto anche nel recente rovesciamento del regime di al-Bashir in Sudan, stante il protagonismo dei reparti tornati dallo Yemen tanto nella rivoluzione quanto nella repressione delle proteste civili. Proprio fra i militari delle Forze di Reazione Rapida comandate da Mohammed Hamdan Dagallo (detto “Hemedti”, il numero due del Consiglio Militare di Transizione al potere a Khartoum) ci sono soldati ciadiani.
Che ruolo svolgono le forze di spedizione e i loro comandanti quando tornano in patria? Uno scenario di degenerazione del carattere pretoriano del regime non si può escludere. Occorre chiedersi in che stato realmente versi il celebrato esercito del Ciad, dopo anni di dispiegamenti all’estero, di salari regolarmente trattenuti dagli ufficiali, di scandali e brutalità insabbiate, di corruzione e rivalità fra fazioni.
In reazione al passaggio di potere nelle mani del figlio di Déby c’è chi ha parlato di un Colpo di Stato da parte delle forze armate. Questo suggerisce che potrebbero essere stati i militari, e non il FACT, a causare la morte del presidente?
La dinamica della morte di Déby non è chiara, e difficilmente lo diventerà: non serve un gran fiuto per trovare poco convincente lo scenario secondo cui il vecchio leader, il giorno stesso in cui viene proclamata la vittoria con l’80% dei suffragi, si reca come suo costume in prima linea e qui si imbatte casualmente in un convoglio nemico e viene ferito a morte da un colpo al petto. Come dicevo c’era la percezione che un sesto mandato fosse eccessivo e non possiamo escludere che qualcuno si sia fatto interprete di questo sentimento. Un’altra ipotesi è che, perso il contatto con la realtà per eccesso di fiducia nelle sue doti guerriere, Déby abbia tentato un negoziato diretto e la situazione sia poi degenerata. Ma quale che sia lo scenario, esso getta comunque delle ombre su come sono gestiti in questo momento l’esercito e la polizia.
Qual è il rischio di un Ciad destabilizzato, in cui l’esercito non riesce più a svolgere il suo compito nella regione?
Le forze ciadiane sono dispiegate su vari fronti in tutto il Sahel. Sono nella regione delle tre frontiere, partecipano alle attività del G5 Sahel, danno manforte alla missione ONU MINUSMA, hanno svolto un ruolo fondamentale nell’operazione Sangaris in Repubblica Centrafricana. N’Djamena sa qual è il contributo che forniscono le sue forze armate e ne ha fatto un’arma negoziale: per esempio, quando Donald Trump impedì l’accesso agli Stati Uniti alle persone provenienti dal Ciad, Déby annunciò il ritiro delle sue forze dall’operazione contro Boko Haram/Stato Islamico nel bacino del Lago Ciad. Salvo poi rilanciare, nel marzo dello scorso anno, scatenando un’operazione-rappresaglia contro i jihadisti a cui partecipò direttamente il presidente e a seguito della quale fu dichiarata l’uccisione di 1.000.
L’ex presidente ha avuto buon gioco nel situarsi al centro della dinamica di combattimento contro il jihadismo proprio nel momento in cui, nonostante il favore dei militari francesi, i rapporti con l’Eliseo si erano incrinati: in occasione dell’offensiva che nel 2008 aveva portato i ribelli fino alle porte del palazzo presidenziale, il presidente Hollande non digerì che Déby avesse approfittato del soccorso francese per far sparire per sempre il leader dell’opposizione. Ma l’implosione della Libia, del Mali e il dilagare del jihadismo a sud del Sahara hanno indotto i francesi a un rapprochement piuttosto rapido: da quel momento il Ciad, così come altri Paesi della regione saheliana, è utilizzato sia da Parigi che da Washington anche per sottrarsi all’accusa di un intervento diretto troppo smaccato. Non è un caso che il quartier generale dell’operazione francese Barkhane sia a N’Djamena. Il problema però non è solo l’incoraggiamento dato a un regime fondato su abusi e violazioni sistematiche dei diritti umani, ma il fatto che le vittorie militari contro le formazioni jihadiste in questa regione si sono rivelate quanto mai effimere. Alle metriche del conflitto, al numero di jihadisti uccisi e catturati non segue mai una vittoria politica. I jihadisti si ritirano, si riorganizzano dissimulando, e contrattaccano – seguendo una dinamica espansiva in tutta la regione.
Ma anche uscendo dal problema del jihadismo per entrare in una visione più tipicamente geopolitica, la posizione del Ciad è al centro di aree di crisi come quella del Darfur, dove la pace è fragile e il conflitto si sta rinfocolando nel bel mezzo della transizione sudanese, e della Repubblica Centrafricana, dove c’è una forte presenza militare e paramilitare russa (anch’essa accusata di violenze efferate) a presidio del governo. Fra i ribelli antigovernativi nella Repubblica Centrafricana combattono ex militari ciadiani, alcuni imparentati al clan Déby. Fino a che punto le truppe resteranno leali ai nuovi capi, e oltre che punto potrebbero aprirsi spazi di connivenza con i ribelli? Per tutto questo, ciò che avverrà in Ciad nei prossimi mesi non può che avere un impatto profondo sia sulla lotta al jihadismo, sia sugli equilibri della regione. Gli stessi francesi stanno finalmente comprendendo che la radice del problema non è nel jihadismo, ma nella governance di questi Paesi, dove le riforme sono esattamente quello che gli autocrati di turno (e gli apparati di difesa oliati da anni di aiuti quasi incondizionati) aborrono.
I ribelli del FACT prima di marciare verso N’Djamena erano alleati di Haftar, che a sua volta è legato alla Russia. Tu hai sottolineato la presenza russa in Repubblica Centrafricana. È qui che bisogna cercare la chiave per interpretare l’uccisione di Déby?
Questa è un’ipotesi su cui si è speculato, ma al momento non ci sono prove. Quello che si può dire è che – al netto di accordi con Paesi come Algeria ed Egitto, e del sostegno ad Haftar, la Repubblica Centrafricana è una importante piattaforma di presenza militare russa in Africa. Mosca è presente a Bangui soprattutto attraverso i paramilitari della Wagner, in un clima di opacità e segretezza: i giornalisti russi che andarono ad indagare vennero uccisi. Questo ha generato l’idea che Mosca possa essere intenzionata a stabilire un’area di influenza, o forse un asse, che da Bengasi scende fino a Bangui: in questo scenario, l’uccisione di Déby sarebbe da imputare al sostanziale conflitto tra le agende di Francia e Russia, al di là delle apparenze. Dobbiamo sempre pensare che il gioco non segue una logica univoca, e tutti gli attori puntano contemporaneamente su due o tre schemi, bilanciandosi fra strategie e piani di contingenza. Del resto siamo in una regione in cui il concetto di guerra come scontro frontale, di matrice clausewitziana, in campo aperto, storicamente non trova molto spazio, rispetto all’idea di guerra come azione indiretta, asimmetrica, diversiva ed elusiva. Ci sono diverse agende in campo, ciascuna piuttosto complessa, e la gran parte degli osservatori e dei diplomatici oggi non fa che ruminare l’immagine – presentata quasi come una necessità – della proiezione delle rivalità più trite sull’Africa. Nel frattempo, Egitto e Turchia tornano a parlarsi sulla Libia, dove Haftar appare oggi come il grande perdente, mentre la Francia si è parzialmente riallineata alle cancellerie europee su Tripoli, mentre mantiene una politica africana ben distinta dalla Russia. Inoltre, la diplomazia russa è estremamente “militare”, e nessuno, neanche i diplomatici europei nell’area sanno che agenda stia perseguendo veramente Mosca.
All’inizio dell’intervista hai detto che la regione del Tibesti, teatro dell’insurrezione del FACT, è ricca di minerali. Qual è il rapporto tra questa ricchezza e l’instabilità dell’area?
Da alcuni anni in tutto il Sahel, lungo le pendici del Sahara, si è scatenata una corsa all’oro. Quello che si verifica nel Tibesti è simile a quanto avviene in altri massicci montuosi vicini, in Mali o nel nord del Niger: sul limitare del deserto affiorano giacimenti di oro. Da un lato questo porta allo sviluppo di un’industria estrattiva che vive di licenze, in un clima spesso assai poco trasparente, ma dall’altro si genera una dinamica sociale particolare. Attorno alle miniere, situate in zone particolarmente inospitali, si creano villaggi e piccole città, c’è afflusso di lavoratori dalle zone limitrofe, e qualcuno fornisce servizi essenziali e sicurezza all’insediamento. Siamo assai spesso ben oltre il raggio di applicazione della legge. Nascono anche meccanismi di governance illegale, magari legati a un “imprenditore” locale che è in grado fornire del cibo ai minatori, o garantire il trasporto delle materie estratte o del denaro. Nascono reti clientelari di protezione, che contano sulla compiacenza delle forze di sicurezza, qualora ce ne siano. Ma cresce anche l’insicurezza: tra le gole e le dune del deserto spesso ci sono imboscate e predoni, crescono fenomeni di banditismo – e spesso la guardia e il bandito si conoscono molto bene, per non dire che sono la stessa persona. Quelli che un giorno sono éclaireurs, i ricognitori, che fanno da autocivetta e segnalano i pericoli, il giorno dopo sono i coupeurs de route, i banditi che tagliano la strada e depredano le ricchezze in transito. Un discorso simile si potrebbe fare rispetto alla tutela della vegetazione, dei parchi, della fauna, all’intersezione fra guardie armate, popolazione che vive di queste risorse, e milizie jihadiste che qui si danno alla macchia. Si può poi aggiungere – i jihadisti hanno tentato di farlo – una forza armata che cerca di imporre un ordine diverso. La logica è quella secondo cui se uno controllo una zona o una risorsa consente che un giacimento venga sfruttato in cambio di una percentuale, mentre se non la controllo la combatto, e ci sarà qualcun altro ad offrire protezione. L’ordine politico viene prodotto secondo logiche di protezione: noi ragioniamo secondo le linee nella sabbia, i confini dello spazio cartesiano segnato dal gps, ma chi le abita, come le popolazioni seminomadi tebu, ha storicamente una concezione dello spazio e della politica diversa, legata alla circolazione, alle alleanze e ai diritti di passaggio.
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