Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 21/03/2025 14:32:32
L’evoluzione della scena politica siriana continua essere al centro delle preoccupazioni dei media arabi. Su al-‘Arabi al-Jadid la scrittrice siriana Samar Yazbek, oppositrice di Bashar al-Assad, riflette sul futuro della rivoluzione siriana attraverso il prisma della letteratura, prendendo spunto dal romanzo L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert. «La letteratura – afferma – è sempre stata testimone delle grandi trasformazioni storiche, non solo come specchio della realtà, ma anche come forza interpretativa e motrice degli eventi». In particolare, il romanzo di Flaubert decostruisce il sogno rivoluzionario e lo rielabora attraverso un’esperienza individuale che incarna le difficoltà di un’intera generazione. Partendo da questa prospettiva, Yazbek propone di «applicare la stessa lettura alla rivoluzione siriana» e traslare in questo contesto le domande sollevate dal capolavoro di Flaubert: «Come fa il sogno rivoluzionario a trasformarsi in un’impasse? Il fallimento è una fine o è parte integrante del processo di cambiamento?» Per l’autrice la rivoluzione siriana non è soltanto una rivolta popolare finalizzata alla caduta del regime, ma un lungo processo di smantellamento e riorganizzazione delle strutture sociali e delle relazioni storiche, spiega l’editoriale. Anche se la rivoluzione non ha realizzato immediatamente i suoi obiettivi democratici, ha segnato profondamente la coscienza collettiva, rendendo impossibile un ritorno al passato. Tuttavia, Yazbek osserva come la rivoluzione siriana non abbia prodotto una narrazione unitaria, ma abbia invece aperto lo spazio a una pluralità di interpretazioni. «Non esiste una verità assoluta – commenta –, ma esistono interpretazioni contrastanti sul significato e sulle conseguenze della rivoluzione». Prima che i contorni di quest’ultima diventino chiari potrebbero volerci decenni. La rivoluzione, dunque, non è solo un evento politico, ma un processo intellettuale di lungo periodo, una ristrutturazione che si estende ben oltre il momento della sua esplosione iniziale, conclude Yazbek.
Sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, lo scrittore siriano Khaled Zaghrit analizza «la sanguinosa eredità del detto “la rivoluzione divora i suoi figli”», nato nel contesto della Rivoluzione francese ma applicabile anche al mondo arabo. Il giornalista teme che la rivoluzione siriana possa evolvere in un ciclo senza fine di epurazioni, come è accaduto ciclicamente nella storia delle rivoluzioni arabe, dall’epoca abbaside fino ai giorni nostri. Dopo la Rivoluzione egiziana del 1952, spiega l’articolo, non appena gli Ufficiali Liberi presero il potere, Gamal Abdel Nasser rimosse il loro leader, Mohamed Naguib, e «consolidò la sua dittatura versando il sangue della Fratellanza musulmana». Successivamente, morì in circostanze sospette anche Abdel Hakim Amer, un altro ufficiale che aveva partecipato alla rivoluzione. Anwar Sadat, presidente dal 1970 al 1981, proseguì in questa stessa logica fino al suo assassinio, mentre il suo successore, Hosni Mubarak, instaurò una dittatura che durò fino alla rivolta popolare che lo destituì. La storia, conclude Zaghrit, insegna che le rivoluzioni corrono sempre il rischio di eliminare i loro stessi protagonisti, perpetuando un ciclo di instabilità e violenza da cui è difficile uscire.
Il giornalista siriano Bakr Sidqi, in un articolo pubblicato su al-Quds al-‘Arabi, esprime un giudizio severo sulla nuova amministrazione di Damasco, sostenendo che essa sia già in fase di declino. La popolarità della leadership ha iniziato a erodersi dopo la «farsa della Conferenza del Dialogo nazionale, i massacri confessionali sulla costa […] e, infine, l’emissione della dichiarazione costituzionale, ampiamente criticata». Il contesto politico siriano è segnato da una crescente sfiducia tra le varie componenti della società e da un’escalation di aggressività verbale da parte dei sostenitori del nuovo governo nei confronti di qualsiasi critica, prosegue l’editoriale. «L’enorme credito, seppur condizionato, che la nuova autorità si era visto riconoscere in patria e all’estero si sta erodendo giorno dopo giorno, mentre diminuiscono le speranze riposte nella grande trasformazione su cui si era scommesso», osserva Sidqi. Il regime rimane debole, e questo lo rende dipendente da fattori esterni. Per riconquistare una legittimità ormai compromessa e affrontare le sanzioni che soffocano l’economia del Paese, il governo dovrà necessariamente confrontarsi con le pressioni esterne. «La Siria non sta bene», conclude Sidqi, e il rischio di «scenari disastrosi, come la frammentazione del Paese o l’instaurazione di un governo basato sulla violenza diffusa e il populismo autoritario», non è poi così remoto.
Dopo settimane di ottimismo, questa settimana anche la stampa di proprietà saudita manifesta pessimismo sull’evoluzione della situazione siriana. Su al-Sharq al-Awsat Hassan Abu Talib, consigliere dell’Ahram Center for Political and Strategic Studies, scrive: «Molte delle decisioni del nuovo governo, anche se mascherate da buone intenzioni, non vengono attuate in modo da costituire la base per una riconciliazione siriana globale, né indicano che il futuro sarà basato su meccanismi di governo diversi da quelli in vigore prima della scomparsa di Bashar al-Assad e del crollo del suo regime». Un esempio è il modo in cui è stata formulata la Carta costituzionale, composta da 53 articoli che, nella loro struttura generale, ricalcano quelli delle Costituzioni permanenti che nei Paesi stabili vengono redatte attraverso procedure trasparenti e con un dialogo vero con la società civile. Nel caso siriano però nulla di tutto ciò è avvenuto, spiega Abu Talib. Il Comitato costituzionale è stato istituito per decreto presidenziale, senza un reale coinvolgimento della popolazione siriana, e in appena una settimana ha redatto un testo destinato a regolare un periodo di transizione di cinque anni, una durata che, in molti Paesi con sistemi elettorali consolidati, corrisponde a un intero mandato presidenziale. Troppo lungo, secondo Abu Talib. Inoltre, «il dilemma della Costituzione transitoria si estende a molte decisioni che non hanno tenuto conto del fatto che il crollo dei regimi non significa necessariamente eliminare tutte le loro istituzioni con un tratto di penna, in particolare l’esercito, la polizia, l’intelligence, gli esteri, l’istruzione e l’economia», prosegue l’articolo. L’illusione di poter ripartire da zero, «alimentata da un’euforia rivoluzionaria priva di realismo, rischia di lasciare il Paese privo di forze armate e sicurezza, e privo di una classe di tecnocratici ed esperti dei vari settori». Con il rischio, per il nuovo regime, di trovarsi intrappolato in un ciclo senza fine di instabilità e vulnerabile di fronte alle ambizioni delle potenze straniere.
Grande scetticismo anche sulla rivista saudita al-Majalla, dove Ramzy Ezzeldin Ramzy, ex ambasciatore egiziano ed ex funzionario delle Nazioni Unite, commenta preoccupato la dichiarazione costituzionale. Pur costituendo «un passo nella giusta direzione e […] pur affermando cose giuste sulla separazione dei poteri, sul rispetto dei diritti dell’uomo e delle donne… la dichiarazione conferisce al presidente un potere illimitato sia sul ramo legislativo che su quello giudiziario». Inoltre, essa «non contiene alcun riferimento alla democrazia, nemmeno come ambizione, mentre tutte le costituzioni moderne, comprese quelle dei Paesi arabi, menzionano il governo democratico come pilastro del sistema politico». Questa assenza solleva molti interrogativi. Per di più, il documento conferisce al Presidente della Repubblica il potere di nominare un terzo dei membri del Parlamento e di scegliere i membri del comitato che seleziona i restanti due terzi, esercitando così un controllo pressoché totale sull’assemblea legislativa. Inoltre, la formazione di partiti è vincolata da una legge approvata dal Parlamento, mentre il Presidente ha anche il potere di nominare i giudici della Corte Suprema. Un altro aspetto problematico secondo Ramzy è il periodo di transizione di cinque anni, considerato eccessivamente lungo e pretestuoso, con il rischio che l’autorità in carica consolidi il suo potere e instauri un governo personalista. Quanto al massacro alawita avvenuto due settimane fa nelle città di Homs, Latakia e Tartous, l’ex diplomatico auspica che la nuova amministrazione non si limiti a indagare sui responsabili, ma affronti anche le cause sottostanti, come il licenziamento senza compensazione di molti dipendenti dell’ex regime di Assad. Ramzy esprime poi scetticismo anche sull’accordo raggiunto dal governo con le Forze democratiche siriane, che lascia irrisolte questioni cruciali, come l’integrazione delle strutture del nord-est del Paese con quelle di Damasco. Infine, il giornalista conclude esprimendo la sua preoccupazione per la continua «violazione della sovranità siriana da parte di Israele», vista come una strategia per ostacolare la transizione politica del Paese.